Il ritorno

20/07/2009 Tipo di risorsa Schede film Temi Relazioni familiari Titoli Rassegne filmografiche

di Andrey Zvyagintsev

(Russia, 2003)

Sinossi

Un gruppo di adolescenti si sfida a tuffarsi in mare da una torretta di avvistamento. Tra loro ci sono anche due fratelli, Andrey di circa quindici anni e Ivan di dodici, l’unico tra tutti che non riesce a buttarsi. Escluso dal gruppo, il giorno seguente Ivan si accapiglia con il fratello che non lo ha difeso di fronte agli altri. Giunti a casa, i due ragazzini apprendono dalla madre che è tornato il padre che non hanno mai conosciuto. L’uomo annuncia ai figli che ha deciso di partire con loro per un breve viaggio in automobile alla volta di un lago in riva al quale potranno pescare. Durante la prima tappa, tuttavia, al termine di una misteriosa telefonata, senza dare troppe spiegazioni ai figli, l’uomo decide di cambiare programma: Andrey si lascia coinvolgere facilmente, mentre Ivan, già sospettoso e freddo verso il genitore, gli diventa apertamente ostile. Malgrado la diffidenza del figlio minore, l’atteggiamento dispotico del padre e il maltempo che crea non pochi problemi lungo il tragitto, i tre riescono a raggiungere a bordo di una barca a motore un’isoletta poco distante dalla costa, meta finale del viaggio. Qui il padre disseppellisce, all’insaputa dei figli, un piccolo involucro che, poi, nasconde sul fondo della barca. Quando il padre punisce Andrey per aver ritardato la partenza a causa di una distrazione, Ivan prima punta addosso all’uomo un coltello, poi si rifugia sulla sommità di una torre di avvistamento minacciando di gettarsi. Nel tentativo di raggiungere il figlio per convincerlo a scendere, il padre perde l’equilibrio e muore in seguito alla caduta. Pur sconvolti, i due ragazzini riescono a raggiungere la terraferma ma, proprio quando credono di avercela fatta, la barca con a bordo il corpo del padre (e il misterioso involucro) affonda. Dopo essersi fatti coraggio a vicenda, Ivan e Andrey decidono di fare ritorno a casa da soli: prima di ripartire osservano una foto di famiglia dalla quale l’immagine del padre è inspiegabilmente scomparsa.

Presentazione Critica

Un esordio "visionario"

Quanto mai distante dalle rappresentazioni sociali di stampo crudamente realistico tipiche del cinema russo del dopo-perestrojka, Il ritorno segna il clamoroso esordio sul grande schermo del regista televisivo Andrey Zvyagintsev (Leone d’oro alla 60ª Mostra del cinema di Venezia) e il ritorno del cinema ex-sovietico alla sua fonte di ispirazione più originaria e significativa, alimentata sul piano formale da una fortissima tensione simbolica basata quasi unicamente sulla forza, a tratti ipnotica, delle immagini e su quello tematico dalla riflessione su argomenti assoluti quali la nascita, la morte, la memoria, il ritorno alla natura e il senso delle proprie radici. Film che alterna momenti di grande potenza visiva ad altri in cui a dominare è la poesia semplice del quotidiano, Il ritorno si inscrive, più precisamente, nel solco del magistero di Andrei Tarkoskij (il più importante regista russo del secondo dopoguerra) e della sua ricerca di immagini fortemente evocative messe al servizio di racconti metaforici che, se possono risultare oscuri dal punto di vista dell’immediatezza del significato, sono straordinariamente suggestivi ed espressivi su un piano più universale. Dal punto di vista simbolico il film è pressoché inesauribile per la quantità e varietà di riferimenti culturali cui attinge (solo per fare due esempi, la pittura rinascimentale con l’inquadratura del padre addormentato che si rifà al Cristo in scurto del Mantegna, la letteratura d’avventura con situazioni che, nella seconda parte del racconto, sembrano echeggiare L’isola del tesoro di R. L. Stevenson) e si presta pertanto ad una molteplicità di interpretazioni possibili. Grazie ad un lavoro sulla fotografia, sulla scelta delle inquadrature, sulla ricerca degli ambienti e degli interpreti eccezionalmente accurato, ogni avvenimento, azione, gesto, sguardo dei personaggi si carica di una profondità ulteriore che sposta su un piano diverso da quello dei semplici accadimenti il senso delle immagini. Ogni scelta narrativa o di messa in scena, del resto, contribuisce a orientare la rappresentazione verso un’atmosfera da fiaba gotica e fuori dal tempo, a circonfondere di un’aura mitica i personaggi senza che, tuttavia, la storia narrata perda di concretezza e attualità: la quasi totale assenza di figure di contorno (e la marginalità delle poche presenti: i coetanei dei ragazzini, la madre, la nonna) che concentra l’attenzione sulle dinamiche interne al terzetto formato da padre e figli, lo sfondo di una periferia urbana desolata che connota la prima parte del film e si contrappone all’armonia dei paesaggi naturali caratterizzati da un’apparente imperturbabilità rispetto ai drammi dei tre protagonisti, la tensione dialettica tra cielo e mare, ma soprattutto la fortissima valenza simbolica dell’acqua, praticamente onnipresente nel film come superficie liminare tra vita e morte, paura e desiderio, conscio e inconscio, sono gli elementi che contribuiscono maggiormente a connotare in questa direzione il film. Tra le tante tracce che qui è solo possibile individuare sommariamente (e che, come sembra suggerire la stessa struttura narrativa, è giusto lasciare alla libera interpretazione dello spettatore) a spiccare è la contrapposizione spaziale nettissima tra la dimensione verticale che connota la prima e l’ultima sequenza (la gara di tuffi in cui si trovano coinvolti i due fratelli e la fatale caduta del padre) e quella orizzontale che caratterizza il viaggio alla volta dell’isola misteriosa, ovvero tra i due eventi traumatici che danno l’incipit e la conclusione al racconto e l’inesauribilità della ricerca cui allude l’estrema linearità di un racconto che, proprio come il viaggio compiuto dai personaggi, trova il suo senso più profondo nel valore dell’esperienza compiuta.

Il ruole del minore e la sua rappresentazione

Padri e figli "fuori dal tempo"

Qual è, dunque, la chiave giusta per interpretare correttamente il senso di un film come Il ritorno, tanto povero di elementi espliciti (ad esempio, di dialoghi, a dir poco essenziali) quanto ricco di suggestioni eterogenee? Quella della metafora religiosa che vede il figlio (l’uomo) costretto a rinnegare il padre (Dio) per poter vivere nel mondo? Oppure una metafora psicoanalitica con il figlio (l’individuo) che per affermare la propria individualità (il proprio io) deve trasgredire i divieti imposti dal padre (dal super-io) arrivando ad ucciderlo? O, ancora, quella socio-politica, con il padre ad incarnare il potere (quello dei regimi che hanno afflitto la Russia fino ad oggi) ed i figli indecisi tra un sentimento di ostilità nei suoi confronti e la nostalgia per il ritorno del vecchio ordine (i “rigurgiti” totalitari che spesso coinvolgono proprio chi è più giovane e inesperto). La chiave di lettura più indovinata e al tempo stesso capace di soddisfare, se non tutte, almeno la maggior parte delle suggestioni suscitate da Il ritorno è quella di una visione che inquadri le varie figure in quanto archetipi del ruolo che ricoprono all’interno del racconto. La natura “astratta” del film, dunque, trova una propria ragion d’essere nella rappresentazione di personaggi che si confrontano su un piano sottratto alla contingenza del presente e proiettato in una dimensione assoluta. Lo spunto più significativo da analizzare è certo quello della lotta tra padre e figlio (il piccolo Ivan, in particolare), della relazione dinamica esistente tra obbedienza e trasgressione che percorre tutte le tappe tipiche di un confronto tra chi detiene l’autorità e chi sente la necessità di ribellarsi. Si incomincia con l’impossibilità da parte di Ivan di soddisfare le attese del gruppo di pari, la sua incapacità a rispettare una “regola sociale”, come il salto dalla torretta. Il non voler riconoscere il genitore è un’estensione di questa sua incapacità a stare all’interno delle norme: semplicemente, non riesce ad accettare questo padre ritornato dal nulla, che non ha mai conosciuto se non in fotografia e che, con i suoi diktat, è il simbolo della paternità intesa nel senso più tradizionale. Un’entità distante, irrimediabilmente “altra” (i due ragazzini trovano la fotografia del padre all’interno di un libro di immagini religiose, proprio alla pagina che raffigura il sacrificio di Abramo) rispetto alla madre (capace di accogliere e proteggere, proprio come accade al termine della prima sequenza quando la donna riesce a portar via dalla torretta Ivan), una figura con la quale lo scontro è inevitabile. Il viaggio è, dunque, un percorso di “formazione” tanto più significativo in quanto non produce effettivamente una crescita (se non nel tragico finale) dato che il padre, di fatto, non insegna nulla ai figli (ad esempio la pesca, che tanto appassiona Ivan, è un’attività che lui odia). Il viaggio vale letteralmente “di per sé” (la sua autosufficienza è sottolineata dal fatto che il contenuto dell’involucro recuperato dal padre resta avvolto nel mistero), in quanto esperienza puramente traumatica, che produce come primo elemento il distacco, necessario, dalla madre, e dunque un primo atto di individuazione dei figli in quanto identità indipendenti da colei che li ha generati. È questo il senso della caduta del padre nella sequenza della torretta sull’isola, simile in tutto e per tutto a quella dell’incipit: il suo “tuffo” (ennesimo ed estremo evento traumatico per i due figli) sostituisce quello che Ivan non era stato in grado di compiere di fronte ai propri coetanei, vero e proprio rito di iniziazione alla vita con un salto che ha il significato di distacco dalle certezze, di cesura di tutti i legami con l’infanzia di gesto per accedere all’adolescenza, primo passo verso l’età adulta. La riconciliazione tra fratelli nelle ultime concitate sequenze non è causale: essa segna uno status nuovo, di condivisione degli affetti e di superamento del conflitto tra di loro (Andrey, desideroso di sentirsi più vicino alla condizione di “uomo” incarnata dal genitore, ha fino a quel momento isolato il fratello minore che, con la sua ostinazione, s’è posto come elemento irriducibile alle “logiche” degli adulti) e, naturalmente, con il padre che il piccolo Ivan ora, per la prima volta, chiama “papà”, proprio quando la barca con a bordo il corpo dell’uomo si eclissa inevitabilmente sul fondo del mare. L’essenza di Il ritorno è tutta in questo suo senso originario, quasi primordiale, che isola le figure nella loro funzione di archetipi e riporta indietro le lancette del tempo, sottraendo le vicende narrate alla contingenza del presente. Un tempo che ritorna, quasi a risarcire lo spettatore, nelle ultime, splendide immagini del film, una serie di scatti in bianco e nero del viaggio che ritraggono i due fratelli nei momenti di spensieratezza e gioia elisi dalla narrazione – concentrata a cogliere solo il confronto con il genitore – e che si ripropone come memoria venata di tristezza, magari di rimpianto ma, almeno per una volta nella storia del cinema russo, non di dolore. Fabrizio Colamartino

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