di Gianni Amelio
(Italia, 1992)
Sinossi
Antonio è un giovane carabiniere che sta accompagnando da Milano a Civitavecchia Rossella, di undici anni, e Luciano di nove. Figli di una detenuta in attesa di giudizio e destinati a un istituto per orfani, i due bambini hanno alle spalle una storia a dir poco tragica: il padre ha abbandonato la famiglia quando entrambi erano ancora piccoli e la madre non ha esitato a far prostituire Rossella fin dall’età di nove anni. Per Antonio e i due bambini, il viaggio si presenta fin da subito come un faticoso itinerario a tappe, fatto di continui rifiuti sia da parte delle istituzioni che li dovrebbero accogliere e sostenere sia da parte di coloro cui essi chiedono aiuto durante il tragitto. Tuttavia, sarà proprio il prolungarsi del percorso, e soprattutto i numerosi incontri con una realtà che li respinge, a fare in modo che Antonio possa vincere tanto la diffidenza della ragazzina quanto il mutismo del bambino: donando loro qualche momento di felicità, il carabiniere permetterà ai due fratelli di scoprire, al di là della sofferenza, la possibilità di un futuro nel quale ci sia anche spazio per la solidarietà.
Presentazione del film
Un lungo viaggio da Nord a Sud, attraverso un’Italia allo sbando – quella degli anni che precedono gli scandali di tangentopoli – che si apre con le immagini di un degradato quartiere dormitorio dell’hinterland milanese e si chiude con quelle spettrali della periferia di Gela, inquietanti per somiglianza. Tra questi due estremi, una serie di tappe che confermano di volta in volta l’indifferenza e la latitanza tanto delle istituzioni quanto della cosiddetta società civile proprio nei confronti di chi avrebbe maggiore necessità di sostegno. In effetti, non sono solo i due piccoli protagonisti ad aver bisogno di aiuto, ma anche e soprattutto Antonio, carabiniere sì, ma poco più che adolescente: una sorta di fratello maggiore che a tratti, tuttavia, pare addirittura più smarrito di coloro che accompagna. Così, se i bambini protagonisti del film sono tre e non soltanto due (il personaggio di Antonio presenta aspetti di ingenuità fanciullesca accentuati dal volto innocente di Enrico Lo Verso), il messaggio di Amelio risulta chiaro: se nei suoi film precedenti era il rapporto tra generazioni differenti a fungere da necessario quanto tragico terreno di confronto dialettico sui temi della storia, della filosofia, dell’arte, ne Il ladro di bambini, invece, la famiglia diventa una realtà esplosa e oramai inesistente, le figure genitoriali invisibili o negate. Infatti, a parte la madre di Rosetta e Luciano, gli altri personaggi del film sono rappresentanti di un’autorità sorda alle dolorose vicende dei due bambini (il prete-direttore dell’istituto che li allontana per un banale intoppo burocratico), ottusamente asserviti al potere che quell’autorità esprime (la suora che detta agli orfani astratte regole di vita) o, addirittura, minacciosi (il carabiniere presso il quale Antonio cerca riparo durante la sosta a Roma). A mettere ancor più in evidenza l’emarginazione dei tre protagonisti giungono, poi, da un lato alcune ambientazioni inedite per il cinema italiano (la Roma degradata dei quartieri attorno alla stazione Termini, i panorami calabresi e siciliani deturpati dall’abusivismo edilizio), dall’altro spazi pubblici (stazioni, treni, caserme, orfanotrofi) freddi e inospitali, resi “estranei” da una scelta delle inquadrature rigorosa ma, a tratti, fortemente espressiva. Con questo film del 1992 Gianni Amelio torna a uno dei suoi temi preferiti: il disagio dei bambini e degli adolescenti come cartina di tornasole dei mali della società degli adulti. Questa volta, però, il regista sceglie come protagonisti non più un bambino prodigio (come era stato ne Il piccolo Archimede) o un adolescente in conflitto con il padre (come in Colpire al cuore), bensì due “figli di nessuno”, frutto del degrado civile dell’Italia contemporanea. Non è più soltanto una parte della società a essere messa sotto accusa, bensì l’intero corpo delle istituzioni del Paese: scegliendo il punto di vista di due minori ai quali è stato già fatto tutto il male che si possa immaginare, Amelio rinuncia alle sottili geometrie dimostrative dei suoi film precedenti (costruiti come teoremi dei quali lo spettatore attende, alla fine, la soluzione che ne sveli la chiave di lettura) e sceglie di narrare, con meno parole e più immagini, situazioni quanto mai autentiche che non vogliono dimostrare nulla, ma mostrare l’esistente.
Il ruolo del minore e la sua rappresentazione
Il ladro di bimbini appartiene ad una folta schiera di pellicole che vedono protagonista un adulto cui viene affidato, per i motivi più diversi un minore per un periodo di tempo più o meno lungo: uno schema drammatico che è possibile ritrovare in moltissimi film proprio perché capace di dare luogo alle situazioni più imprevedibili, ancor più efficace sotto il profilo narrativo se a fare da filo conduttore è il topos del viaggio con la tipica incertezza che accompagna tale dimensione del racconto. Particolarmente pregnante dal punto di vista del tema dell’affidamento familiare, Il ladro di bambini mostra la problematica realtà degli orfanotrofi in Italia ancora fino ad alcuni anni fa: il “muro di gomma” contro cui i protagonisti vanno a scontrarsi è un misto di lentezza burocratica del sistema ed incapacità dei singoli rappresentanti delle istituzioni a fronteggiare una situazione d’emergenza qual’è quella vissuta da qualsiasi bambino abbandonato o sottoposto a maltrattamento. Rosetta e Luciano sono due bambini “difficili”, casi più unici che rari, di fronte ai quali il sistema mostra tutti i suoi limiti: non ci sono strutture idonee ad ospitarli (Rosetta dice al fratellino durante il loro brevissimo soggiorno in un istituto: “Che centriamo noi qui? Qui ci stanno gli orfani”) così come, è facile immaginarlo, non ci saranno famiglie disposte ad accoglierli. Il carabiniere Criaco Antonio si ritrova, così, a fare un lavoro che, all’inizio del viaggio, reputa stigmatizzandolo, “da assistente sociale, da femmine” perché in Italia “le cose che gli altri non vogliono fare le fanno fare ai carabinieri”, così come afferma un suo collega. Man mano che i giorni passano, tuttavia, il ragazzo assume su di sé un ruolo che la divisa non pretende ma al quale egli adempie ben oltre quanto gli imporrebbe il dovere. Antonio, cioè, interpreta la mansione di affidatario della quale è stato investito, in tutta la gamma di sfumature che sottintende questo termine, arrivando a farsi carico del ruolo di genitore pro tempore. L’affidamento, che da tutti gli altri personaggi del film è inteso come semplice attribuzione in custodia o in consegna (il carabiniere deve, molto burocraticamente, “tradurre” i due ragazzini da Milano all’istituto), lui lo interpreta anche come un ruolo che gli impone di garantire e coloro che gli sono stati affidati non solo la sicurezza intesa come incolumità fisica ma anche in quanto benevolenza, comprensione, fiducia, cura e discrezione. Paradossalmente, il pericolo si annida proprio lì dove meno lo si aspetta come, ad esempio, a una festa per la prima comunione di un parente. Un ambiente apparentemente protetto, un’occasione di festa familiare, all’interno del quale, invece, si annida la prevenzione e il falso perbenismo che producono soprusi diversi da quelli fisici cui li sottoponeva la madre ma ugualmente umilianti. Proprio in questa occasione il carabiniere si preoccupa di proteggere i ragazzini dalle maldicenze e “inventa” per loro una famiglia (ai parenti dice che si tratta dei figli di un suo superiore che lui sta riportando in Sicilia, dalla madre), un’invenzione che ha decisamente il sapore di un auspicio.
(FC)