Il Cane giallo della mongolia

15/07/2010 Tipo di risorsa Schede film Temi Infanzia Famiglie Titoli Rassegne filmografiche

di Byambasuren Davaa

(Germania, 2005)

Sinossi

I Batchuluun sono una famiglia di pastori nomadi che vivono nelle steppe del nord-est della Mongolia: la cura del bestiame e la fabbricazione del formaggio sono le due attività principali e le maggiori fonti di sostentamento del nucleo familiare. Di ritorno presso i genitori e i fratellini dopo i mesi trascorsi a scuola, la piccola Nansar, sei anni, scova un cagnolino in una grotta, e subito lo “adotta”, confidando nel fatto che il resto della famiglia sia disposta a fare altrettanto. Il padre Unjirdorj, invece, si dimostra da subito contrario all’idea di tenere l’animale, convinto che possa attirare i lupi. Così Nansar è inizialmente costretta a tenerlo nascosto per non essere obbligata ad abbandonarlo. A nulla valgono gli ammonimenti di un’anziana che ospita nella propria tenda la bambina dopo che quest’ultima si è smarrita nella steppa: la donna racconta a Nansar un’antica leggenda in cui un uomo fu costretto ad abbandonare il cane giallo con cui accudiva il gregge per guarire dal “mal d’amore” che affliggeva sua figlia. Ma Nansar, caparbiamente, si ostina a tenere il cagnolino con sé. Il padre, allora, giunto all’esasperazione, decide di ricorrere a una misura drastica: mentre la carovana si sposta per la stagione invernale, lega il cane a un palo e si allontana; ma quando Batbayar, il fratellino di Nansar, viene inavvertitamente smarrito, è proprio il cagnolino, che nel frattempo è riuscito a liberarsi, a ricongiungerlo in seno alla famiglia, guadagnandosi sul campo il diritto di farne parte a sua volta, finalmente con il consenso di tutti.

Introduzione al Film

La famiglia della steppa

Secondo lavoro della regista mongola Byambasuren Davaa, dopo l’esordio con La storia del cammello che piange (Die Geschichte vom weinenden Kamel, Germania, 2003), diretto a quattro mani con l’italiano Luigi Falorni, Il cane giallo della Mongolia è una coproduzione patrocinata – come il film precedente – dalla Hochschule für Fernsehen und Film München. Come il precedente documentario, anche questo palesa innanzitutto una statura filmica decisamente maggiore rispetto agli standard medi dei “film scolastici”, pur essendo entrambi dei saggi di fine corso, realizzati quindi con una finalità e un valore d’uso in prima istanza didattico-valutativo. A differenza di La storia del cammello che piange, invece, qui è accentuata l’ibridazione con la componente fabulatoria e finzionale della narrazione, che nella pellicola precedente affiorava solo in forma occasionale fra le pieghe di un lavoro sostanzialmente rispettoso dell’approccio documentario. In Il cane giallo della Mongolia, i due elementi appaiono bilanciati in maniera pressoché paritaria. All’istanza documentaria appartengono tutte le scene di famiglia, mediante le quali osserviamo, documentate con uno scrupolo quasi etnografico, le azioni che determinano il lento svolgersi della vita dei pastori mongoli, popolazione dai costumi oltremodo scarni, abituata ad affrontare le asperità di una natura inospitale senza battere ciglio. La lenta e meticolosa scansione degli avvenimenti quotidiani, sempre uguali a loro stessi, figli di un’immutabilità dei costumi che affonda le proprie radici in una dimensione ancestrale, viene rappresentata come se si trattasse di una particolare forma rituale, in cui ogni gesto è studiato e calibrato sin nel minimo dettaglio. In tal modo, ogni azione, dalla mungitura delle pecore alla preparazione del formaggio per mezzo di un rudimentale torchio, assume un valore non più immanente ma trascendente, che ha a che fare (anche) con la dimensione metafisica dell’esistenza. Qua e là, nell’esplorazione di questo mondo arcaico ai confini della civiltà, affiorano alcune “macchie di colore” apparentemente spurie: un mestolo di plastica, un pupazzo di peluche delle bambine, una vecchia e malandata motocicletta, un’automobile incrociata lungo il cammino, sono tra i rarissimi elementi in grado di suggerirci che, a dispetto delle apparenze, le vicende narrate sono in realtà ambientate in una contemporaneità rimasta stolidamente avulsa alle risorse messe a disposizione dal progresso. L’istanza più strettamente narrativa risiede invece nella descrizione dell’amicizia fra la piccola Nansar e il cane. Nei segmenti che riguardano tali personaggi, è chiaramente ravvisabile l’intento di poggiare la drammaturgia sui binari più consolidati del racconto per ragazzi, cui non fanno difetto gli inevitabili riferimenti all’ingente produzione cinematografica occidentale avente come elemento centrale della narrazione l’amicizia fra uno o più minori e un animale, dall’archetipico Torna a casa Lassie! (Lassie Come Home, USA, 1943) di Fred M. Wilcox al recentissimo Sopravvivere coi lupi (Survivre avec les loups, Francia, 2008) di Véra Belmont. E se Il cane giallo della Mongolia riesce a evitare molti dei clichés, sia visivi che narrativi, attinenti a un tale genere, ciò è dovuto proprio alla compenetrazione di un tale aspetto con la dimensione antropologica assicurata dagli elementi di matrice strettamente documentaria. Ciononostante, Byambasuren Davaa non rinuncia a puntellare il racconto di sapide scenette a due, costruite a livello drammaturgico e di messa in scena con una cura quasi teatrale, in cui la bambina e il cane interagiscono creativamente, dando luogo ad autentici siparietti comici. Ne consegue che Il cane giallo della Mongolia riesce a darsi al tempo stesso come affresco e come miniatura di una realtà contingente eppure marginale – o quantomeno emarginata dagli schermi cinematografici – come quella dei pastori mongoli. L’affresco è nei grandi spazi aperti della steppa, che la macchina da presa registra dispiegando un campionario piuttosto vasto di campi lunghi e lente panoramiche orizzontali, senza però incorrere mai in vezzi estetizzanti. La miniatura è nelle scenette di cui sopra, che incidono il racconto aprendo delle piccole parentesi, più raccolte e minimaliste, in cui lo sguardo della regista isola i due protagonisti dal contesto per concentrarsi sulle loro dinamiche. E proprio la dialettica fra l’infinitamente grande delle steppe battute dal vento e l’infinitamente piccolo dell’amicizia fra una bambina e un cane, senza raccordi intermedi, definisce una composizione filmica complessa e forse contraddittoria, ma al tempo stesso capace di restituire, quasi fisiologicamente, l’impatto con una natura, infida, violenta, a tratti ostile.

Il ruolo del minore e la sua rappresentazione

Un cane per amico

In quanto identità in formazione, il bambino reagisce alle sollecitazioni esterne con un tasso di ricettività molto più elevato rispetto agli adulti. A sei anni, costretta a trascorrere parte dell’anno lontana dalla propria famiglia per frequentare la scuola dell’obbligo, la piccola Nansar è immersa in un universo referenziale estremamente limitato: la steppa percorsa in lungo e in largo dalla carovana di ovini della sua famiglia è una sorta di acquario a cielo aperto, il cui elemento più ricorrente è il vuoto. Manca, alla bambina, un contatto frequente e reiterato con gli oggetti e le tracce della sua contemporaneità, che presumibilmente fanno regolarmente parte delle sue attività quotidiane solo durante il periodo scolastico; persino l’abbigliamento di Nansar, nel corso dei mesi trascorsi a seguito della propria famiglia, è costituito quasi esclusivamente di sgargianti abiti tradizionali mongoli. La sua condizione di nomade, peraltro, la priva di fatto di una casa, intesa come luogo stanziale in cui delimitare il proprio spazio vitale, e di una cerchia di amici suoi coetanei che può frequentare ogni giorno. Nansar corrisponde dunque a una tipologia infantile che, mancando di solidi agganci relazionali oltre a quelli assicurati dal nucleo familiare, si pone alla ricerca di un surrogato o di un simulacro degli stessi. E come molti suoi coetanei, la bambina trova in un animale domestico tale surrogato. La tanto sospirata “adozione” del cane, difesa con le unghie e con i denti persino dalla – fino a quel momento – inappellabile autorità paterna, rappresenta per Nansar il compimento di un percorso. A differenza di molti suoi coetanei, infatti, la bambina non riproduce, nel suo rapporto con l’animale, una versione in sedicesimo del rapporto fra lei e uno dei suoi genitori (nella fattispecie la madre, dato il sesso del minore e la naturale propensione alla mimesi dei gesti e dei comportamenti materni), malgrado l’estrazione dello stesso animale dal buio di una grotta sembrerebbe quasi simboleggiare la fuoriuscita dal ventre materno; tutt’altro, Nansar si sforza di instaurare con esso una vera e propria relazione amicale. Quello tra la piccola nomade e il cane è un interagire assolutamente paritario, osmotico e simbiotico, in cui nessuno dei due elementi finisce mai con il prevaricare l’altro. Non si tratta, in sostanza, di un’appendice del nucleo familiare, bensì di qualcosa di estraneo a esso, al punto che il padre di Nansar percepisce il nuovo amico della figlia come un pericolo, quasi fosse un precoce fidanzatino della bambina. Interessante, a questo punto della narrazione, come la regista arrivi a evocare fra le righe, in un misto di ironia e straniamento, proprio il fantasma della fuga dal nido familiare della piccola Nansar, attraverso una metonimia alquanto provocatoria: cosa è, infatti, il temuto “ratto” delle pecore del gregge – loro sì autentiche appendici della famiglia nomade – da parte dei famelici lupi – guarda caso la specie animale più prossima al cane –, se non uno spostamento semantico che simboleggia la sottrazione della bambina da parte di una forza endogena? La chiusura del cerchio avviene attraverso una tipica struttura da racconto di formazione. A questo punto, infatti, con un’altra arditezza semantica, la regista sposta la focalizzazione del racconto dalla bambina al cane, per mostrare come quest’ultimo riesca finalmente a mostrarsi degno dell’amicizia della piccola Nansar presso la famiglia di lei, proprio come un caparbio pretendente. Non bisogna trascurare che il cane è a sua volta un cucciolo, e il percorso di formazione di un’identità lo investe a sua volta. La prova di forza e coraggio messa in atto nel finale del film rappresenta il superamento del diaframma che separa l’eroe dal trofeo, e come ogni viaggio iniziatico che si rispetti anche questo si conclude con il coronamento di una missione: Nansar e il suo cagnolino sono ora amici e al tempo stesso membri della stessa famiglia.

Riferimenti ad altre pellicole e spunti didattici

Il cane giallo della Mongolia possiede un alto coefficiente didattico anche per le fasce di età più basse, ma a causa della delicatezza dei temi affrontati, e per le implicazioni psicanalitiche di alcuni sottotesti, la visione dovrebbe essere opportunamente guidata da adulti. Sopravvivere coi lupi (Survivre avec les loups, Francia, 2008) di Véra Belmont narra di una bambina “adottata” da un branco di lupi, che diviene il suo nucleo familiare. In Il matrimonio di Tuya (Tu ya de hun shi, Cina, 2006) di Wang Quan’an, troviamo un altro incisivo ritratto di una famiglia di nomadi di etnia mongola, anche se in questo caso di nazionalità cinese, in cui un ruolo predominante, nella definizione degli equilibri interni, lo giocano i due figli piccoli. In Bolt-Un eroe a quattro zampe (Bolt, USA, 2008) di Byron Howard e Chris Williams, un cane che si crede un supereroe ma in realtà è solo il tronfio divo di un serial televisivo, attraversa gli Stati Uniti per salvare una ragazzina che crede rapita. Sergio Di Lino

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