I baci mai dati

11/05/2011 Tipo di risorsa Schede film Temi Relazioni familiari Titoli Rassegne filmografiche

di Roberta Torre 

La regista Roberta Torre ha proposto nel corso dell’ultimo decennio un’idea di cinema originale e provocatoria, basata su una visione dissacrante ed eccessiva della realtà siciliana, scelta in quanto territorio da scoprire e reinventare alla luce di un’estraneità (la regista è milanese di nascita ma siciliana d’adozione) che le ha permesso di trattare i temi più scottanti alla luce di un’ironia e un estro stilistico davvero poco comuni.<--break-> Tano da morire, il suo musical del 1997, fece a suo modo scalpore per la capacità di sottrarsi ai consueti cliché sulla mafia (la vicenda era raccontata tutta dalla parte degli uomini e delle donne “d’onore”) permettendo agli spettatori di provare simpatia per i protagonisti e addirittura ridere dei rituali di Cosa Nostra, ridotti a grotteschi e coloratissimi siparietti pop animati dalle musiche tipiche della sceneggiata. Da quel film emergeva non già uno sguardo superficiale sul fenomeno mafioso, ma anzi un’attenzione antropologica alla realtà siciliana, per una volta ritratta senza far ricorso a schemi abusati e capace di mostrare aspetti di quell’immaginario mafioso spesso sconosciuto al grande pubblico.

Quasi quindici anni e quattro film dopo, la Torre propone con I baci mai dati un’immagine diversa della Sicilia, non alternativa a quella proposta negli altri suoi film ma parallela, quella di una realtà limitrofa all’universo mafioso, tangente alle sue logiche anche se non completamente asservita ad esse. Scegliendo di ambientare le vicende narrate al Librino, quartiere “modello” progettato da urbanisti di fama internazionale sito alla periferia di Catania, luogo certamente non immune dai problemi connessi con la presenza della criminalità organizzata, la regista getta uno sguardo forse meno incisivo sulla società siciliana ma certamente più vicino alla realtà della maggior parte dei suoi abitanti. Nel film si narrano le vicende della tredicenne Manuela, figlia minore di una famiglia modesta, non priva di problemi ma in fondo abbastanza normale, che conduce un’esistenza monotona, sostanzialmente priva di prospettive, stretta tra le vie del quartiere da percorrere in motorino rincorrendo un fidanzato distratto e il lavoro di aiuto parrucchiera presso un improbabile salone di bellezza. Quando la statua della Madonna che campeggia nella piazza principale del quartiere le compare in sogno e le parla, la vita di Manuela e della sua famiglia cambia radicalmente: trascurata da tutti fino a poco prima, la ragazzina diventa un punto di riferimento tanto per i suoi familiari quanto per gli abitanti del quartiere, ognuno dei quali ha da affidarle una richiesta di grazia. La madre per convenienza – ognuno dei fedeli lascia un piccolo obolo alla veggente-bambina –, Manuela per attirare l’attenzione su di sé – ha una sorella maggiore che le ruba la scena – portano avanti il gioco con un misto di esitazione e abilità, consce, tuttavia, di assolvere a una funzione sociale importante, dare motivi di speranza a una folla che pare rassegnata più che al degrado e alla delinquenza, all’impossibilità di un cambiamento, sia pur minimo, nella vita quotidiana.

Forse ci voleva un po’ più di cattiveria nel tratteggio di alcuni personaggi e un po’ più di perfidia nel delineare situazioni e vicende che scivolano via senza troppo incidere sulla trama di un film che può risultare piacevole e a tratti divertente ma niente di più: l’Italia dei presunti miracoli, dei cosiddetti miracolati e di chi abilmente riesce a sfruttare la credulità della gente per il proprio profitto, è stata raccontata sapientemente in passato da registi del calibro di Rossellini, Fellini o Ferreri, ma anche da attori passati dietro la macchina da presa come Nino Manfredi (il suo Per grazia ricevuta resta ancor oggi un ottimo film). Allora quelle pellicole volevano stigmatizzare il legame ancora troppo stretto tra ignoranza e religiosità, la commistione tra interessi privati e pubblica ostentazione della fede, la contraddizione stridente tra la necessità di innovazione del Paese e la relazione ancora troppo forte della sua popolazione con la superstizione.  Oggi un film come I baci mai dati pare al contrario voler spezzare una lancia non già in favore della credulità popolare, ma verso una sorta di mesta rassegnazione ad una condizione generale di sfiducia in ciò che la realtà (politica, sociale, familiare) può offrire, il tutto a vantaggio di una proiezione dei propri desideri, delle proprie aspirazioni ma anche e soprattutto dei propri diritti in un altrove imperscrutabile, non meglio identificato, ormai slegato persino dalla fede religiosa in senso stretto. La figura di Manuela è delineata più come quella di una psicoterapeuta o di un’assistente sociale capace di raccogliere i sogni e i bisogni della gente che come una vera e propria veggente pronta a schiudere un mondo di possibilità e opportunità. Del resto anche le richieste dei “fedeli” sono tutt’altro che pretenziose: se in Ricomincio da tre Massimo Troisi dubitava della possibilità che il miracolo chiesto da suo padre alla Vergine Maria potesse realizzarsi (l’uomo era privo di un braccio e sperava che gli ricrescesse), in I baci mai dati si gioca al ribasso, con richieste che vanno dalla possibilità di un posto di lavoro a quella di vincere la lotteria, ma anche molto meno, come ad esempio accedere a un reality show o fare colpo su una ragazza carina.

Il film, come anticipato, si apre e si conclude tra le piazze e le vie desolate del Librino, senza che vi sia per nessuno dei personaggi la possibilità di proiettare realmente le proprie aspirazioni e i propri desideri al di là dei confini limitati del quartiere e il finale un po’ ricattatorio del “miracolo” realizzato sembra voler assolvere tutti, offrendo una speranza, invero abbastanza ipocrita, in un futuro dove i problemi non possono trovare altra soluzione se non quella fortuita e fideistica di un intervento superiore, più vicino alla raccomandazione del politico di turno che a quello di una grazia divina. Che a farsi strumento di tale intercessione sia un’adolescente in parte vittima e in parte connivente di una madre più distratta che insensibile lascia ancora di più l’amaro in bocca, contribuendo a gettare una luce ambigua su una pellicola distante anni luce non solo in quanto a stile e narrazione ma anche e soprattutto per coerenza e sensibilità da un film come Il miracolo di Edoardo Winspeare nel quale il vero prodigio consisteva per i protagonisti nella possibilità di comunicare realmente e laicamente le proprie emozioni, i propri sentimenti, i propri desideri non ad un’entità non meglio identificata ma semplicemente al proprio prossimo.

Fabrizio Colamartino

(Crediti foto)

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