Gli “home movie” di Jay Rosenblatt

20/07/2009 Tipo di risorsa Schede film Temi Infanzia Famiglie Titoli Rassegne filmografiche

di Jay Rosenblatt

(USA, 2005)

SINOSSI

  • I Used to Be a Filmmaker (USA, 2003), 10’

Accudire un neonato è poi così diverso da girare un film? Jay Rosenblatt, grazie alla collaborazione di sua figlia, la piccola Ella, mette a punto una sorta di catalogo scherzoso delle forme e dei segni attraverso i quali si articola il linguaggio cinematografico.

  • I Like It a Lot (USA, 2004), 4’

Ella è cresciuta ed ha una vera e propria passione per il gelato. Suo padre non si lascia sfuggire l’occasione di documentare fedelmente un’incursione dal più vicino gelataio. Il risultato è, sotto tutti i punti di vista, entusiasmante.

  • I’m Charlie Chaplin (USA, 2005), 9’

Charlie Chaplin è il personaggio cinematografico preferito di Ella che, in occasione di Halloween, grazie all’aiuto del padre, si maschera con bombetta e baffetti per chiedere: “dolcetto o scherzetto”? Ma quello che per una bambina è solo un gioco, per un regista può diventare un’idea fissa: ad un anno di distanza, forte del successo ottenuto in precedenza, Rosenblatt ripropone ad Ella di mascherarsi da Charlot. Ella ci sta, ma solo per questa volta.  

 

Il regista statunitense Jay Rosenblatt è uno dei più noti sperimentatori nel campo del documentario e del cinema d’avanguardia: assembla i formati più diversi – dal film didattico al documentario, dal filmato amatoriale a quello scientifico – all’interno di corto e mediometraggi definiti come found footage, un termine che indica i film sperimentali realizzati attraverso il riutilizzo di spezzoni di pellicola (footage = girato) dimenticati oppure scartati e, successivamente, recuperati un po’ per caso (to found = rinvenire). Materiali eterogenei, dunque frammenti di un universo composto di immagini residuali che ritrovano un senso, magari un po’ folle, grazie al gesto di chi decide di salvarle (dalla distruzione o dall’oblio) attraverso un lavoro di montaggio, assemblaggio, ricomposizione. Non è un caso che, tra i materiali utilizzati dal cineasta newyorkese ci siano anche degli home movie, i classici filmini di famiglia che, alla pari degli altri formati – anzi, maggiormente – sono da considerarsi radicalmente “altri” rispetto al cinema tradizionalmente inteso. Il film di famiglia, come afferma Roger Odin, uno dei maggiori studiosi di questo genere di materiali, riveste il ruolo di garante dell’unità familiare, ne fissa un’immagine sempre e comunque positiva: gli eventi filmati possono essere gite, riunioni in occasione di festività e di cerimonie che sanciscono la solidità dell’istituto familiare, oppure, più semplicemente, brani di vita quotidiana un po’ più eccezionali del solito come, ad esempio, i primi passi, la prima pappa, le prime parole (e così via all’infinito…) dei figli di chi si trova dietro la macchina da presa.i I tre cortometraggi I Used to Be a Filmmaker, I Like It a Lot, I’m Charlie Chaplin confermano, in pieno, questa regola: nella doppia veste di cineasta e di padre Rosenblatt concentra la propria attenzione sulla figlioletta Ella, la segue nella sua crescita dando vita a una serie di home movie tradizionali, anche se ciò avviene secondo modalità davvero particolari.

In I Used to Be a Filmmaker la “normatività” dell’home movie, la sua funzione validante rispetto alla normalità del menage familiare diviene per il regista uno spunto ironico (che emerge fin dal titolo: “Facevo il filmmaker”) per giocare al tempo stesso con la propria professione e il proprio ruolo di novello padre. Rosenblatt scopre progressivamente il mondo della figlioletta poco più che neonata e, contemporaneamente, ri-scopre il linguaggio del cinema alla luce di questa rivelazione. Nonostante tutto, il regista continua a fare del found footage, ovvero a parlare di cinema con il materiale che, al momento, ha a disposizione, cioè quello che ricava dal rapporto con Ella, con le sue necessità ed i suoi bisogni. I primi mesi di vita della bambina diventano, così, il pretesto per rielaborare scherzosamente una storia dei segni e delle forme attraverso cui il cinema si è evoluto, nonché un catalogo degli strumenti a disposizione del cineasta per rielaborare la realtà (il film è diviso in brevissimi capitoli preceduti da didascalie che accostano scherzosamente termini del gergo cinematografico alle situazioni che vedono protagonista la bimba). A volte il meccanismo s’inceppa, è costretto a adeguarsi agli scarti improvvisi imposti alle riprese dalla vitalità spontanea della bambina, ma anche questo fa parte del giocoso rapporto instaurato con la realtà da Rosenblatt. Ciò che più conta è come la videocamera diventi soprattutto lo strumento attraverso cui scoprire il mondo della prima infanzia e, in particolar modo, il rapporto di quest’ultima con la propria immagine: quella riflessa da uno specchio, quelle riprese dal padre e riproposte dal televisore, le ombre proiettate su una parete dai raggi del sole, eccetera. L’acquisizione della consapevolezza della propria identità, per Ella passa, così, anche attraverso la videocamera ed il rapporto sereno che la bambina intrattiene con essa e con le immagini prodotte. L’home movie acquista, in tal modo, un senso nuovo (potremmo dire che perviene anch’esso ad un grado accresciuto di consapevolezza) divenendo mezzo di costruzione identitaria non solo nel senso indicato da Odin, ovvero come strumento atto semplicemente a registrare memorie familiari (sociali o intime che siano) ma anche come dispositivo per stimolare attivamente la consapevolezza dei diversi membri della famiglia nei confronti dei propri rispettivi ruoli.

I Like It a Lot è un vero e proprio capovolgimento dei procedimenti attuati nel precedente cortometraggio: se I Used to Be a Filmmaker era costruito e strutturato attorno all’idea scherzosa ma linguisticamente forte del dizionario dei termini cinematografici, I Like It a Lot è un divertissement nel quale la videocamera è un semplice mezzo di registrazione di ciò che accade davanti all’obiettivo, poco più che un continuum di realtà a mala pena sbozzata da qualche taglio di montaggio. L’esperienza che Ella compie nel mangiare un gelato al cioccolato è descritta nei minimi particolari, diviene totalizzante per lo spettatore quanto lo è per la stessa bambina nonché per il padre che la osserva impiastricciarsi e sbrodolarsi, per nulla preoccupato delle conseguenze. Del resto, anche il titolo è disarmante per la capacità di affermare con ingenuità e al tempo stesso sicurezza il motivo cardine dell’operazione: tutto ruota attorno a quel piacere (“Mi piace un sacco” è la traduzione letterale del titolo) ampiamente ostentato da Ella nel corso del cortometraggio.

Ben più problematico risulta, al contrario, I’m Charlie Chaplin, nel quale ritornano le riflessioni sul cinema e sull’identità già presenti in I Used to Be a Filmmaker. Fino a che punto Ella si identificherà con Charlie Chaplin, il personaggio che ha scelto per la sua maschera di Halloween? È in questo cortometraggio che emergono con forza – mitigate, tuttavia, dalla consueta autoironia – alcune istanze tipiche del cinema di Rosenblatt come quelle sul potere delle immagini in quanto segno di un’autorità, in questo caso quella paterna. È chiaro come la scelta di Charlot sia chiaramente influenzata – se non dettata – dallo stesso regista e dalle sue preferenze in fatto di cinema, ovvero come attorno al travestimento gravitino una serie di aspettative da parte tanto di Rosenblatt-padre quanto di Rosemblatt-cineasta. L’accurata preparazione del travestimento viene, infatti, accompagnata da un’opera di persuasione tanto paziente quanto dissimulata sull’opportunità della scelta effettuata. È impossibile non constatare come la maschera di Charlot/Chaplin sia, in fondo, una delle dieci icone più celebri del cinema, uno dei simboli universali della settima arte, scelto in questo caso come travestimento dalla figlioletta di un regista che tenta di articolare un discorso, solo apparentemente ingenuo, sull’identificazione dello spettatore con lo schermo e i personaggi che su di esso si muovono. Chaplin, ovviamente, riscuote grande successo anche come travestimento per la consueta richiesta di dolcetti in occasione della festa di Halloween ed Ella sembra sempre più convinta di voler continuare a vestire i panni del mitico clochard anche negli anni a venire. Ma appena un anno più tardi, malgrado la maschera sia stata perfezionata e resa più verosimile dal padre, Ella dimostra come il gioco dell’identificazione, per funzionare, non possa durare troppo a lungo: è stato bello vestire i panni di Charlot per un po’ di tempo, d’accordo, ma l’anno prossimo sarà la volta di un gatto o, magari, di un fantasma. Insomma, l’identificazione con il personaggio, per quanto riuscita e gratificante (per Ella soprattutto sotto il profilo del risultato pratico: ricevere quanti più dolcetti possibile) non può non sottostare alla regola aurea che la vuole sempre e comunque subordinata a uno stato di profonda consapevolezza della propria reale identità, ovvero alla possibilità di scegliere come e quando “ritornare in se stessi”, proprio per meglio osservarsi agire nei panni di qualcun altro. Fabrizio Colamartino    

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