Germania anno zero

Film da rivedere:
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Poche settimane fa ha trionfato a Cannes, vincendo la Palma d’oro, Il nastro bianco, l’ultima opera del registra austriaco Michael Haneke.

Il film – che uscirà nelle sale italiane nella prossima stagione cinematograficaè ambientato agli inizi del secolo scorso, in un villaggio protestante del Nord della Germania dove una serie di inaspettati atti di violenza turba la tranquillità dei suoi abitanti.
A rendersi protagonisti di questa teoria di efferatezze sono alcuni dei bambini della zona, cresciuti in un contesto di fredda oppressione, odiando/imitando le logiche di sopruso esercitate dal mondo degli adulti nei loro confronti e più in generale verso i soggetti più deboli.
A detta di tutti i commentatori, Il nastro bianco non è solo un thriller dalle inquietanti fattezze, ma è l’allegoria di una stagione della storia che si sta preparando ad accogliere a braccia aperte il nazismo. Il piccolo villaggio, con le sue figure autoritarie, l’assenza di umanità nelle relazioni tra i suoi membri, la struttura gerarchica e la rigidità dei gesti, appare, infatti, come un laboratorio perfetto dove incubare e iniziare a far crescere i semi dell’ideologia hitleriana in una generazione di bambini che diventerà, una volta cresciuta, la spina dorsale di una società fondata sul razzismo, la xenofobia, la violenza.

In attesa di poter verificare la profondità delle riflessioni poste in essere da Haneke, proponiamo un’analisi di un film che può essere considerato specchio complementare della recente Palma d’oro. Germania anno zero, capolavoro indiscusso di Roberto Rossellini, che narra la storia di Edmund un bambino che attraversa le macerie fisiche e morali della Germania postbellica prima di suicidarsi tragicamente, si pone infatti come ideale conclusione speculare – quarant’anni dopo – dell’affresco sociale hanekiano.

I bambini de Il nastro bianco che osservano, violentano, dirottano atti di violenza nel piccolo villaggio rurale assomigliano nelle fattezze fisiche e nei volti spersi e algidi al piccolo Edmund, eppure sono loro che quarant’anni dopo consegneranno l’ennesimo vuoto morale a una generazione – incarnata dal bambino rosselliniano – che all’indomani della guerra non sembra avere alternative all’autodistruzione.
Nondimeno, l’idea che sorregge i due film non è solo quella di descrivere e denunciare un quadro disperato e senza speranze reificato dalle società di ieri quanto da quelle di oggi, ma di ricordare a ogni dottrina e a ogni regola sociale (e a chi l’incarna) che esiste pur sempre un posto a loro precluso: quello delle relazioni intime ed emozionali tra esseri viventi, a maggior ragione se essi sono bambini.

Analisi del film

Il film si apre con una didascalia, una dedica accorata dello stesso Rossellini nei confronti del figlioletto Marco Romano, deceduto l’anno precedente la realizzazione della pellicola. L’infanzia si confronta con il destino della Storia e della vita attraverso l’immagine deturpante della guerra, con l’ineluttabilità del dramma umano che travolge le sorti individuali senza mostrare alcuna pietà o distinzione, sopraffacendo per primi coloro che per costituzione e natura risultano privi delle necessarie difese. L’infanzia come vittima predestinata delle misere vicende umane a causa della sua innocenza, laddove il senso di speranza che, immancabilmente, la tenera età porta con sé, viene irrimediabilmente frustrato nelle sue caratteristiche principali: non può esserci alcuna prospettiva in un universo che ha permesso un simile disastro come quello che ha lasciato il mondo in ginocchio e la spensieratezza giovanile naufragare nell’assoluta mancanza della benché minima illusione. L’immagine della guerra proposta da Rossellini coinvolge tutti indiscriminatamente come se fosse una sorta di epidemia che non fa distinzioni di sorta. E il più indifeso, si sa, è destinato a soccombere. Edmund è già perduto alla vita ancora prima che la vicenda abbia inizio: prima carnefice e poi vittima, il biondo fanciullo è l’escluso per eccellenza dal consorzio sociale e morale. Un martire annunciato da una narrazione che si fa esplicita attesa di morte, fin dalle macerie berlinesi che richiamano per metafora gli scheletri immolati sull’altare di una patria che ha chiesto un sacrificio troppo alto, e che, contemporaneamente, rimandano alla stessa opera del regista, basti pensare alle stesse macerie che fanno da deprimente scenario all’episodio napoletano di Paisà, altro momento rappresentativo per un’infanzia vessata e sopraffatta dall’angheria bellica. Il suicidio con cui il film si chiude è la pura conseguenza di un male che non conosce spiragli e che si distrugge perché rileva ancora una piccola fiamma di moralità possibile: l’autoannullamento come possibilità di rigenerazione.

La Germania in cui Edmund vive è una terra annichilita dal tempo e dalla protervia, lo scenario in cui il bambino si trascina coraggiosamente vivendo di espedienti è l’anno zero delle speranze umane, il faticoso inizio di una nuova epoca. Ma l’ottimismo non trova spazio. Non può esserci ricostruzione materiale se non c’è prima una ricostruzione morale. La macchina da presa indugia insistentemente sulle macerie di una Berlino che non esiste più, su corpi che si muovono automaticamente, seguendo un ritmo fisiologico obbligatorio che conduce verso il nulla (si noti come Rossellini segua in maniera quasi assillante il piccolo personaggio nelle fasi immediatamente precedenti la decisione di suicidarsi). Il peso di un’intera famiglia su un bambino che mostra ripetutamente la sua giustificata ingenuità è sicuramente insostenibile: Edmund è fondamentalmente un escluso proprio a causa del paradosso su cui si fonda la sua età, la quale lo porta dapprima ad essere allontanato dal cimitero in cui sta alacremente scavando fosse (alle quali idealmente si ricongiungerà al termine del film, per una triste ed inevitabile circolarità), poi ad essere più volte truffato arrogantemente (nel caso della bilancia che il suo padrone di casa gli ha affidato affinché la venda, ma anche quando i suoi estemporanei compagni di strada gli sottraggono, raggirandolo, i dieci marchi guadagnati per aver venduto il disco con i discorsi del Führer), addirittura ad essere deriso dalla ragazza a cui vuol bene, e, infine, a non poter giocare al pallone con dei coetanei perché avvertito come un estraneo. Il dramma di Edmund e di tutta l’infanzia colpita duramente dalla Seconda Guerra Mondiale è quello di non potersi situare adeguatamente nella Storia, di essere letteralmente fuori dal tempo: troppo giovani ed ingenui per poter assumere le responsabilità che altri più maturi hanno rifiutato (si veda la viltà del fratello maggiore Karl-Heinz oppure il terrore del viscido maestro dopo aver appreso della morte del padre del ragazzo), troppo vecchi e consumati per poter dividere la spensieratezza di altri ragazzi intorno ad una palla (episodio che lo porta ad un’ennesima esclusione).

Il giovane tedesco non ha alcuna collocazione possibile nel tessuto storico: non può più abbandonarsi nella tenerezza dell’infanzia perché investito di responsabilità che trascendono abbondantemente la sua età, ma non può, parimenti, essere considerato un adulto perché gli uomini si approfittano della sua debolezza dovuta all’età. Edmund uccide il padre perché la sua posizione si situa esattamente in mezzo tra il cattivo maestro di fede nazista, convinto assertore della necessità di potare i rami secchi – e quindi continuatore ideale di quella stessa ideologia che ha prodotto la distruzione della Germania -, e quella dell’imbelle genitore, il quale a più riprese evoca la sua stessa fine, poiché ormai si considera un peso per la famiglia. Il delitto del bambino è di credere ai suoi riferimenti principali, ai pilastri educativi che ogni ragazzo ha negli anni della propria formazione: il padre e la sua figura vicaria nell’ambito dell’istruzione, l’insegnante. Ma quello che Rossellini registra è un mondo fuoriuscito dai cardini della normalità, un universo che ha permesso la morte e la devastazione della guerra, grazie soprattutto alla generazione dei padri e ai cattivi maestri.

Per Edmund, quindi, non possono esistere esempi di moralità certa in un contesto che ha utilizzato la moralità a suo uso e consumo per costruire un ordine nuovo basato sulla discriminazione e sulla disuguaglianza. Ad Edmund non rimane che la squallida consapevolezza dell’impossibilità di una disposizione in un mondo che non può appartenergli perché il suo presente è già stato deciso da qualcun altro. Edmund vede portare via la salma del padre da una camionetta mentre il resto della famiglia, in ritardo, accorre inutilmente: il sacrificio imposto del padre non riceve nemmeno la dignità di una ritualità canonica, di una sobria sepoltura, ma diventa presenza fuggevole, che scorre materialisticamente. La famiglia lo cerca alacremente, ma Edmund si è già annullato: incurante del richiamo e del legame familiare, il piccolo si incammina verso la morte saltellando sui mattoni scaturiti dai muri fatiscenti, scivola su una trave dopodiché si lascia cadere dalla sommità di una casa diroccata. Tra gioco e turbamento, Edmund, in modo ancora più terribile, uccide non solo se stesso, ma anche la spensieratezza che avrebbe dovuto essergli dovuta in virtù della sua età e che invece gli è stata violentemente sottratta dalla brutalità della Storia.

 Giampiero Frasca