Elephant

(USA, 2003)

Regia: Gus Van Sant

Soggetto: Gus Van Sant Sceneggiatura: Gus Van Sant

Prodotto da: Dany Wolf

Fotografia (col.): Harris Savides

Montaggio: Gus Van Sant Suono: Lesile Shatz

Personaggi e intrepreti: Alex Frost (Alex); Eric Deulen (Eric); John Robinson (John McFarland); Elias McConnell (Elias); Jordan Taylor (Jordan); Carrie Finklea (Carrie); Nicole George (Nicole); Brittany Mountain (Brittany); Alicia Miles (Acadia); Kristen Hicks (Michelle); Bennie Dixon (Benny); Nathan Tyson (Nathan); Timothy Bottoms (signor McFarland); Matt Malloy (preside); Ellis E. Williams (supervisore del seminario).

Durata: 81 minuti  

 

Sinossi*

Una giornata d’autunno in una high school di Portland (Oregon, USA). John è costretto a sostituire suo padre alla guida dell’automobile perché l’uomo, visibilmente ubriaco, è incapace di condurre il veicolo. Elias è nel parco antistante la scuola, scatta delle fotografie a una coppia di ragazzi, poi si avvia verso l’edificio. Giunto in ritardo a scuola, John lascia il padre in automobile e viene redarguito dal preside che lo trattiene nel suo ufficio per punizione. Nathan, che sta giocando a football, si avvia anch’egli verso la scuola dove ha un appuntamento con Carrie, la sua fidanzata; entrato nell’edificio, è oggetto degli sguardi ammirati di tre studentesse (Brittany, Jordan e Nicole), si incontra con Carrie e le chiede di partecipare ad una festa che si terrà la sera stessa. Il preside lascia andare John che, entrato in una stanza vuota, si mette a piangere; sopraggiunge Acadia che lo rincuora e va subito via per partecipare a un seminario sui diritti delle minoranze sessuali. Elias incontra John che si mette in posa per farsi scattare una foto; i due ragazzi si salutano, poi John esce dalla scuola e si imbatte in Alex ed Eric, altri due studenti che stanno facendo il loro ingresso nell’edificio armati fino ai denti. Mentre Alex sta seguendo una lezione di fisica [si tratta di un flashback], Nathan e un altro ragazzo lo bersagliano con palline di carta bagnate. Dopo essersi ripulito, Alex entra nella mensa, si guarda attorno e prende appunti: d’un tratto si porta le mani alla testa, sembra assordato dai rumori dell’ambiente circostante. Michelle viene rimproverata da una professoressa perché non ha indossato gli shorts regolamentari durante l’ora di ginnastica, poi va negli spogliatoi dove si cambia fingendo di non ascoltare i commenti poco lusinghieri delle altre studentesse sul suo aspetto fisico. Dopo aver attraversato i corridoi della scuola, Elias entra nella camera oscura per sviluppare le sue fotografie; commenta con un’amica le immagini che ha stampato esce di nuovo nel corridoio; qui incontra John, gli scatta una foto [la sequenza è una replica della scena precedente] ed entra in biblioteca. Brittany, Jordan e Nicole camminano per i corridoi dell’istituto chiacchierando; si imbattono in Nathan [anche questa sequenza è una replica], continuando a parlare entrano nella mensa; mentre consumano il pranzo notano John che, all’esterno, si imbatte in Alex ed Eric che entrano armati nell’edificio; poi vanno in bagno e vomitano ciò che hanno mangiato. Alex è a casa [ancora un flashback], sta suonando al pianoforte “Per Elisa” di Beethoven, viene raggiunto da Eric che inizia a giocare a un videogame il cui unico obiettivo è quello di abbattere delle figure che si aggirano in un deserto, poi entrambi navigano in internet alla ricerca di siti dove è possibile acquistare armi per corrispondenza. Al mattino, dopo la colazione, Alex ed Eric ricevono un pacco tramite corriere: è un fucile mitragliatore con il quale si esercitano a sparare mirando a una catasta di legna. Michelle percorre i corridoi della scuola, incrocia Elias che sta scattando la foto a John [la sequenza è ancora una replica delle due precedenti] e raggiunge velocemente la biblioteca dove ha il compito di riordinare i libri sugli scaffali. Dopo aver fatto la doccia insieme [ancora un flashback], Eric ed Alex si preparano studiando su una piantina della scuola i percorsi che dovranno seguire per poter abbattere il maggior numero di persone. In automobile raggiungono l’edificio e, poco prima di entrare si imbattono in John [ancora una replica della sequenza precedente]. Quest’ultimo, intuito il pericolo, tenta di impedire a quante più persone può di entrare nell’edificio, poi torna all’automobile dove però non trova più il padre. Nel frattempo, all’interno, Alex ed Eric attendono invano che esplodano delle cariche che hanno piazzato in vari punti della scuola: decidono di dare comunque il via alla carneficina uccidendo per primi Michelle ed Elias che si trovano in biblioteca. Poi è la volta di Brittany, Jordan e Nicole, sorprese da Alex quando ancora sono nel bagno, e di uno dei partecipanti al seminario sui diritti delle minoranze sessuali. Qui entra in scena Benny, un ragazzo di colore che, al contrario di tutti gli altri sembra sapere esattamente cosa fare: aiuta Acadia a fuggire attraverso una finestra e poi lascia la stanza seguendo il rumore degli spari. Eric, nel frattempo, sta minacciando il preside con il fucile: Benny sopraggiunge silenzioso alle sue spalle ma il ragazzo si gira di scatto e lo fredda prima di sparare al preside. John, all’esterno dell’edificio, ritrova il padre e con questi si ferma ad ascoltare gli spari in lontananza. Alex, individuati Nathan e Carrie, li segue a distanza fino alla mensa, entra nella sala deserta, si siede e viene raggiunto da Eric. Dopo un breve scambio di battute quest’ultimo viene abbattuto da un colpo di fucile: Alex, che ha percepito un rumore, apre la porta della cella frigorifera dove sorprende Nathan e Carrie che lo scongiurano di non sparare. Mentre recita una filastrocca, Alex prende con cura la mira…

* La presente sinossi, per quanto dettagliata, non rende conto del complesso intreccio tra piani temporali diversi su cui si articola Elephant. Per un’esigenza di chiarezza, si è scelto di mettere in particolare evidenza i casi in cui la medesima scena viene ripresa da punti di vista diversi e riproposta in momenti differenti del racconto, nonché i vari flashback che spostano l’azione in momenti precedenti rispetto all’hic et nunc della narrazione.        

 

Analisi tematica

Elephant nasce come reazione polemica alla straordinaria copertura informativa data alla strage compiuta nel 1999 da due studenti presso la Columbine High School di Littleton (Colorado) dai mezzi di informazione (in alcuni casi degenerata in una forma perversa di intrattenimento) e, soprattutto, alle facili risposte offerte dai media all’indomani dei tragici eventi: accuse nei confronti del cinema, dei videogame e di un certo genere di musica rock che, secondo il giudizio comune, sarebbero stati alla base della carneficina. Gus Van Sant, che nel corso della sua carriera ha interrogato incessantemente il mondo giovanile e adolescenziale, anche nel complesso legame che esso instaura con il sistema dei media (si pensi solo al provocatorio finale di Da morire), non crede a queste tesi, dettate più dallo sgomento di una società tradita da due ragazzi appartenenti alla classe media e apparentemente non problematici che da una profonda riflessione. Per questo concepisce un testo filmico di rara lucidità ed efficacia, soprattutto per la capacità di disinnescare ogni tentazione feticista nei confronti dell’evento in sé, compiendo un’operazione di distanziamento sul piano della messa in scena e di disorientamento dal punto di vista narrativo. Del resto, esprimendo in più occasioni la sua ammirazione per Bowling a Columbine, il documentario di Michael Moore che prende le mosse dalla strage nel liceo per analizzare lo stretto rapporto esistente negli Stati Uniti tra pulsioni violente (spesso estreme, come nel caso delle stragi nelle scuole) e costruzione di un generale clima di allarme e paura proprio per mano degli stessi media, Van Sant dichiara allo stesso tempo di voler restare idealmente nel solco polemico tracciato con grande abilità da Moore e di prenderne nettamente le distanze dal punto di vista formale. In Elephant , dunque, la denuncia dei problemi della società americana (e, più in generale di quella occidentale) non passa attraverso un’analisi razionale e puntuale delle cause e degli effetti ma si offre attraverso il puro e semplice dato fenomenico, emerge dalla “normalità” – dalla monotonia e dalla banalità – di un giorno qualsiasi in una qualsiasi località della provincia statunitense, descritta in quanto universo apparentemente sano, puro e indenne dal male (un procedimento che, tra l’altro, ricalca i più classici stilemi narrativi del cinema statunitense di genere, soprattutto dell’horror e della fantascienza). Van Sant, semmai, sembra voler prendersi gioco dei tentativi di motivare l’esplosione di follia dei due giovani assassini disseminando il campo di indizi che in seguito si rivelano illusori: i dispetti ai danni di Alex da parte dei compagni, la “crisi di nervi” che coglie il ragazzo nella mensa della scuola, il documentario sul nazismo guardato insieme ad Eric poco prima della strage, quest’ultimo che gioca a un videogame il cui unico obiettivo è quello di sparare a delle figure umane che si aggirano in un deserto, sono solo alcuni tra gli elementi che era possibile cogliere tra i tanti nel flusso degli eventi, degli accenni o poco più che non hanno una consistenza tale da assurgere a cause determinanti, anzi semmai mettono in evidenza la pretestuosità e l’inutilità di una simile ricerca. Del resto, tutto nel film suggerisce una pressoché totale serenità, a incominciare dall’immagine della scuola, così lontana da quella tradizionale (lezioni noiose scandite da orari rigidi all’interno di luoghi deputati) che, significativamente, l’unica sequenza in cui assistiamo a una vera e propria lezione in classe è collocata su un piano temporale anteriore al giorno della strage, ovvero fuori dal fulcro della narrazione. La high school di Elephant somiglia a un campus universitario nel quale il tempo è sottratto alla stretta contingenza degli orari (ma ciò avviene anche a causa della scomposizione della linea narrativa operata da Van Sant), dove i ragazzi sono liberi di girare, entrare e uscire, percorrerne i corridoi intessendo una fitta rete di rapporti amicali. I protagonisti, del resto, ci vengono presentati sempre intenti in attività che, pur rientrando tra le materie di studio, non appartengono alle classiche occupazioni scolastiche: sport, fotografia, un improbabile seminario sui diritti delle minoranze sessuali, attività sussidiarie che non hanno un risvolto concreto, un’applicazione pratica, piuttosto sembrano concepite per “riempire” un tempo sostanzialmente vuoto perché sottratto alla contingenza del quotidiano. Si parla fugacemente di un’interrogazione di matematica, ma l’unica situazione in cui ci vengono mostrati dei contenuti didattici in senso più o meno tradizionale è quella in cui Eric ed Alex, rimasti soli a casa di quest’ultimo, guardano alla televisione un documentario sul nazismo. D’altronde, tranne che in pochissime occasioni, la famiglia e l’istituzione scolastica sono lasciate fuori campo, assenti o, perlomeno, distanti e distratte:. John si ritrova fin da subito a dover accudire il padre, incapace di guidare perché ubriaco; il preside sembra incapace di redarguire il ragazzo per il ritardo; i genitori di Alex sono poco più di due ombre sfocate inquadrate controluce, due fantasmi che abbandonano la scena dopo una manciata di battute prive di senso. Con il suo pedinamento ossessivo dei ragazzi di Portland Van Sant ci parla di un mondo nel quale ormai non esiste alcuna possibilità di contatto tra le generazioni, neanche quella basata sul tradizionale conflitto interno al mondo scolastico tra docenti e allievi o a quello familiare tra genitori e figli, un mondo nel quale ognuno vive in una propria realtà parallela alle altre che, solo per brevissimi tratti, trovano delle forme di convergenza, proprio come suggerisce la complessa struttura narrativa del film. I discorsi di tutti, inoltre, vertono su un tempo futuro molto – forse troppo – prossimo (la stessa serata o i giorni appena successivi) da occupare piacevolmente (un concerto, una festa, una cena con barbecue) ma che verrà presto negato dall’irruzione dei due assassini. Un’atmosfera “spensierata” che accomuna vittime e carnefici: “soprattutto, ci dobbiamo divertire” dice Alex ad Eric, con estrema naturalezza appena incrinata da una punta di cinismo, poco prima di partire per la loro missione criminale. Un universo nel quale tutto è garantito, tutelato, dato per scontato, nel quale ciò di cui ci si deve preoccupare è solo un eterno presente a portata di mano (si veda con quale semplicità e rapidità i due assassini entrano in possesso di una delle armi, grazie ad internet), immediatamente disponibile. Un presente dal quale ogni angoscia legata al vivere quotidiano è eliminata – se non la fatica dello stesso vivere – in favore di un’attenzione per tutto ciò che è accessorio, marginale, superfluo (le tre amiche anoressiche che chiacchierano di shopping, diete e moda), per l’apparenza (il seminario sui diritti delle minoranze sessuali, incentrato sugli elementi più appariscenti dell’omosessualità), per il corpo che viene via via ammirato, fotografato, allenato, esibito (o, al contrario, nascosto, come nel caso di Micelle, unica presenza timida e sgraziata in un universo di adolescenti tutti belli, spensierati e disinvolti), continuamente pedinato dalla macchina da presa del regista. Un corpo che, dunque, diviene elemento assolutamente centrale e, paradossalmente, al tempo stesso marginale, trascurabile: liberato dalle fatiche della quotidianità grazie alle tecnologie, dagli obblighi sociali in virtù di una visione superficiale dell’idea di libertà, dalle gabbie dei giudizi morali grazie a una visione tollerante della sessualità, il corpo diviene essenzialmente un elemento ludico, da “mettere in gioco”, magari nel senso più banale del termine, ad esempio come bersaglio di un videogame. Probabilmente l’unico “messaggio” che è possibile cogliere in Elephant riguarda il pericolo di un eccessivo allontanamento dell’individuo dalla coscienza della propria finitezza. Il gesto di Alex ed Eric non può essere interpretato come un atto di “ribellione” (per quanto folle), i due ragazzi perdono quell’aura da eroi romantici e perversi che, pur con qualche disagio, sarebbe stato possibile assegnargli se avessero agito in un contesto sociale ancora capace di affermare valori, di proibire, di condizionare gli individui, ma è semplicemente il punto estremo del distacco psicologico rispetto alla consapevolezza dei limiti della propria esistenza che riecheggia nei gesti, negli atti, nei dialoghi di tutti i personaggi del film. In Elephant si percepiscono in maniera nettissima i termini di un simile mutamento antropologico che, in quanto tale, impone alla società nel suo complesso la rinuncia all’individuazione di facili capri espiatori in favore di un profondo esame di coscienza da parte dei suoi istituti portanti: famiglia, scuola e sistema dei media in primis.

Analisi narrativa e stilistica

Ricchissimo dal punto di vista dei temi affrontati in virtù della sua capacità di farsi metafora inesauribile della società contemporanea, nella sua scarna evidenza di resoconto antispettacolare di una serie di eventi riportati sullo schermo nella loro essenzialità, Elephant è altrettanto inesauribile dal punto di vista dello stile, la cui analisi si rivela capace di illuminare ulteriori aspetti del discorso sviluppato da Van Sant. Così come il regista “smonta” le tesi accusatorie dei media dominanti (televisione e stampa) sulla “responsabilità” della strage a carico di cinema, videogiochi e internet, mostrando come queste siano solo alcune delle componenti della vita degli adolescenti e probabilmente non le più determinanti nelle loro scelte, allo stesso modo rinuncia a narrare le vicende nel senso classico del termine, operando una serie di opzioni stilistiche nettissime. A Van Sant, infatti, non interessa spiegare, ma non perché sia animato da spirito nichilista o da semplice voyeurismo, bensì proprio per il motivo opposto: la strage è un evento assurdo, orribile, proprio perché è stata programmata nei minimi dettagli e, allo stesso tempo, è assolutamente immotivata, dunque non può essere sottoposta alle leggi della narrazione tradizionale fondata sulla linearità/razionalità. Di fronte al massacro di Columbine, Van Sant ha lo stesso atteggiamento di quei registi che, all’indomani della seconda guerra mondiale, si rifiutarono di portare sullo schermo il massacro del popolo ebreo nei campi di concentramento: quella catastrofe, che segnava la fine della Storia, annunciava anche la fine delle storie e, quindi, era impossibile darne conto attraverso le consuete tecniche narrative. Raccontare un evento, infatti, vuol dire chiarirne le cause, illustrarne le dinamiche, segnalarne gli effetti; e raccontare al cinema significa scegliere di esporre le cose da un certo punto di vista, decidere quali siano i tempi, gli spazi, le azioni da mostrare, le parole da far pronunciare ai personaggi. Per questo Van Sant sceglie come struttura portante del film il piano sequenza, ovvero una ripresa in continuità e in movimento che segue il soggetto senza operare tagli, stacchi di montaggio, cioè senza sovradeterminare (almeno all’apparenza) la “realtà” rappresentata. La realtà che viene mostrata in Elephant , inoltre, non è quella scritta da uno sceneggiatore e messa in scena dal regista, ma essenzialmente quella rielaborata dagli interpreti del film – dei veri liceali di Portland scelti tra le centinaia di ragazzi che avevano risposto all’annuncio della produzione – a partire da un canovaccio di situazioni e suggestioni messo a punto da Van Sant. Ai ragazzi è stato chiesto di improvvisare situazioni assolutamente normali, ordinarie (salutarsi, baciarsi, chiacchierare, scattare delle fotografie) e infatti nel film “non succede niente”, tranne che, ovviamente, nell’ultima mezz’ora, quella della strage. La genialità di Elephant risiede nel riuscire a riproporci una serie di situazioni e di figure sfruttate intensivamente dal cinema (specie da quello statunitense se solo si pensa alle decine e decine di commedie scolastiche o di drammi a sfondo sociale con protagonisti adolescenti prodotti negli ultimi decenni) ribaltandone totalmente il senso, mostrandoci attraverso poche, sapienti pennellate, l’altra faccia – quella più autentica e reale – della vita nelle scuole. Rinunciando a rappresentare in favore del semplice mostrare, sacrificando la messa in scena tradizionale di situazioni tipiche e personaggi caratteristici in favore di una più semplice collocazione nello spazio delle figure, Van Sant evita di creare stereotipi basati sulla consuetudine, sul pregiudizio o sull’ignoranza, a differenza di quanto era stato fatto dai media all’indomani dell’eccidio di Columbine. Attraverso questo metodo viene ancor meglio ribadita la tesi di fondo del film, ovvero che non è possibile tracciare un quadro a se stante della condizione vissuta dagli adolescenti e che, più in generale, l’individuo è sempre meno immerso in un contesto realmente “sociale” a vantaggio di una frammentazione dei rapporti e delle relazioni che restituisce un quadro complessivo refrattario a qualsiasi idea di unità. Singole identità, dunque, private della possibilità di diventare personaggi (ossia tipi psicologici o modelli sociologici) dalla coincidenza tra tempo della storia e tempo del racconto (che lascia poco spazio all’articolazione di situazioni di incontro e dialogo) dovuta all’adozione del piano sequenza, ma anche alla scelta di utilizzare quasi sempre il grandangolo, un obiettivo che dilata gli spazi isolando ulteriormente le figure dallo sfondo, facendole apparire minuscole rispetto a un contesto di volta in volta eccessivamente oppressivo o dispersivo. Il biondissimo John e la sua maglietta gialla con l’icona del toro spagnolo, Nathan e la maglia rossa con al centro una croce (il segno di un’inevitabile predestinazione a divenire bersaglio), Elias, alto, magro con il giubbetto nero, Benny con la canottiera gialla e le treccine rasta, più che personaggi sono sagome, silhouette facilmente individuabili, anche e soprattutto dal punto di vista visivo, ma delle quali si conosce ben poco a causa degli scarni dialoghi che alludono, oltretutto, a personaggi e situazioni di cui lo spettatore non sa né saprà nulla. L’omissione di questi e di molti altri dettagli contribuisce a creare un sorprendente “effetto di realtà” (lo spettatore non ha la sensazione che la storia sia stata costruita in funzione della sua visione e, allo stesso tempo, il pedinamento lo fa sentire un intruso) ma anche a intricare una matassa narrativa che contrasta fortemente con la scelta del piano sequenza in quanto strumento linguistico privilegiato, nonché con l’apparente linearità di un racconto scandito da una serie di cartelli recanti il nome dei vari personaggi di volta in volta pedinati dalla macchina da presa. In realtà, le didascalie si rivelano false piste, o tutt’al più semplici indicazioni utili per assegnare un nome a un volto, per consentire allo spettatore di raccogliere una serie di informazioni da rielaborare successivamente, rimettendo insieme i pezzi di un puzzle nel quale non esiste una figura depositaria di un punto di vista unico sugli eventi. È infatti il montaggio il principale strumento creativo utilizzato da Van Sant per costruire il racconto: il regista scompone la successione cronologica degli eventi narrati attraverso l’uso eterodosso di una serie di figure della narrazione cinematografica: flashback, flashforward, ma soprattutto la replica/ripetizione in almeno tre occasioni della medesima scena da punti di vista diversi e l’inserimento, di volta in volta, di differenze e scarti minimi ma significativi nella successione degli eventi. In tal modo Van Sant raggiunge il duplice obiettivo di relativizzare ancor più incisivamente la visione apparentemente a senso unico della strage (non c’è un solo movente come non esiste un solo modo di guardare i fatti che compongono la vicenda) e di sottolineare l’estraneità e l’isolamento dei vari percorsi individuali che, pur senza coincidere perfettamente, convergono fatalmente su un unico, paradossale orizzonte di senso – la strage, capace di accomunare in un medesimo destino di morte e autodistruzione vittime e carnefici – all’interno del quale, tuttavia, viene negata la possibilità di una catarsi collettiva. Attraverso il suo stile freddo e distaccato, infatti, Van Sant sceglie di mettere ognuno dei personaggi di fronte a una morte che, in qualche modo, ne ratifica o ne ribalta il ruolo costruito nel corso del film: Elias, l’intellettuale sempre alla ricerca di modelli per il suo portfolio fotografico, scatta la sua ultima immagine ad Alex un attimo prima che questi lo freddi nella biblioteca, violando con ferocia la sacralità di un luogo destinato a conservare memoria e cultura; Nathan e Carrie concludono la loro fuga nella ghiacciaia, vera e propria negazione del calore e dell’affetto che i due si sono scambiati nel corso del film; Brittany, Jordan e Nicole, sofisticate e superbe restano intrappolate nel gabinetto della mensa dove si sono attardate per vomitare il pranzo appena consumato e per controllare il proprio aspetto allo specchio; persino le attese dello spettatore rispetto al personaggio di Benny, apparentemente l’unico in grado di fronteggiare quanto sta accadendo, vengono deluse da una fine tanto prevedibile quanto sconfortante. Neanche i due assassini possono sottrarsi a questa visione glaciale della morte: Eric viene improvvisamente colpito a morte sotto lo sguardo impassibile di Alex, con il quale, tuttavia, ha condiviso non solo la ferocia della carneficina ma anche momenti di intimità e di affetto subito prima di partire per la sua folle missione.

Il contesto storico: il film nella Storia del cinema

Elephant è il secondo film della cosiddetta “trilogia della morte”, tre pellicole attraverso le quali Gus Van Sant, all’indomani della parentesi hollywoodiana che lo aveva portato a realizzare Will Hunting – Genio ribelle e Scoprendo Forrester , abbraccia una visione del cinema sempre più austera e personale. Ispirandosi allo stile di registi europei come Bela Tarr e Chantal Ackermann, basato soprattutto sull’adozione del piano sequenza, sulla riduzione al minimo del montaggio e sulla rarefazione dei dialoghi, Van Sant rinuncia quasi totalmente alla sceneggiatura a favore di un metodo che consiste nell’elaborazione dello script in collaborazione con gli interpreti. Il primo risultato di questa svolta è Gerry , scritto a sei mani con i due interpreti, Matt Damon e Casey Affleck. Con Elephant il regista si spinge oltre, elaborando la sceneggiatura a partire dalle interviste effettuate ai candidati per i vari ruoli e affidandosi all’improvvisazione dei giovani interpreti, quasi tutti attori non professionisti, dei veri studenti di Portland: un vero e proprio work in progress. Il film, presentato nel 2003 al Festival di Cannes, viene accolto tra forti polemiche, divide la critica – soprattutto quella statunitense, in una sorta di replica di quanto era avvenuto l’anno prima per Bowling a Columbine di Michael Moore – ma vince i due premi più prestigiosi della rassegna: la Palma d’oro per il miglior film e il Premio per la miglior regia. Per tentare di incasellare il film in categorie critiche, oltre gli autori poc’anzi citati, i cui film sono indicati dallo stesso Van Sant come fonti di ispirazione insieme ai documentari di Fredrick Wiseman (in particolare High School ), la critica chiama in causa cineasti molto diversi tanto dal regista di Portland quanto tra di loro come Alexander Sokurov, Tsai MingLiang, Abbas Kiarostami e, tuttavia, accomunati da una forte propensione per la “narrazione debole” (che rifugge l’uso di un linguaggio orientato a costruire la storia verso una presunta trasparenza e in funzione dello spettatore) e per lo stile spoglio ed essenziale. Il paragone che lusinga maggiormente Van Sant è, però, quello con i film di Stanley Kubrick: 2001: Odissea nello spazio per l’apparente banalità dei dialoghi e per l’uso astratto delle ambientazioni, Shining per l’utilizzo della steadycam attraverso un vero e proprio labirinto di corridoi, Rapina a mano armata per la narrazione destrutturata che isola e conduce i vari personaggi verso l’autodistruzione.

 

 

Curiosità e informazioni sulla produzione del film

Elephant è il titolo scelto del regista inglese Alan Clarke per un suo film del 1989 incentrato anch’esso sulla violenza scolastica e ambientato nell’Irlanda del Nord scossa dai conflitti tra cattolici e protestanti. È una delle pellicole che Van Sant prende come termine di paragone per le scelte formali che opererà nel corso della lavorazione e che, in seguito, lo spinge a scegliere lo stesso titolo per il suo film. Alla base di tale decisione, tuttavia, c’è un equivoco, dato che il regista di Portland era convinto che Clarke avesse scelto quel titolo prendendolo in prestito da un racconto allegorico nel quale alcuni ciechi, dopo aver esaminato le diverse parti del corpo di un elefante, pensano di averne individuato la vera natura. In realtà ognuno crede che si tratti di qualcosa di diverso: chi un serpente (avendo toccato la proboscide), chi una lancia (le zanne), chi un ventaglio (le orecchie) e così via. Il titolo scelto da Clarke, invece, si riferiva a un modo di dire inglese, ovvero a un problema (nella fattispecie quello della violenza) tanto facile da ignorare quanto un elefante nel soggiorno di una casa. Malgrado ciò Van Sant decide di lasciare il titolo immutato volendo alludere a sua volta alla difficoltà di identificare un problema come quello della violenza nella nostra società a causa dei punti di vista molto diversi di guardare ad esso. Elephant nasce come prodotto per una tv via cavo, la HBO, l’unica ad aver accolto il provocatorio progetto del regista. Si tratta del motivo principale che ha spinto Van Sant a utilizzare il formato 1:33 (quello del cinema classico e della televisione) invece del più “cinematografico” panoramico (1:85). Ma, a detta dello stesso regista, tra le ragioni di questa scelta c’è anche quella che tale formato è molto usato nei contesti scolastici: è lo stesso dei film a 16mm proiettati a uso didattico e del super8, utilizzato per le esercitazioni degli studenti che seguono corsi di fotografia e cinema. In una delle sequenze ambientate in casa di Alex vediamo Eric giocare a un videogame nel quale spara a delle figure che si aggirano in un deserto. Le immagini del videogioco vennero concepite appositamente per il film, dato che Van Sant non riuscì a ottenere i diritti per utilizzare un videogame realmente esistente e diffusissimo tra gli adolescenti, lo “sparatutto” Doom: l’azienda produttrice del gioco, infatti, ritenne che l’uso di sequenze tratte da Doom in un film come Elephant avrebbe leso la propria immagine. Nel 2006, invece, Danny Ledonne crea Super Columbine Massacre RPG un videogioco che non solo si ispira ai fatti della Columbine, ma li ricostruisce alla perfezione (partendo dai materiali di archivio come i video della sicurezza diffusi in rete e le testimonianze rilasciate ai media dalle persone coinvolte) dando al giocatore la possibilità di impersonare Eric e Dylan, i due ragazzi autori del massacro. Elephant non è l’unico film a basarsi sul massacro della Columbine high school: oltre a Bowling a Columbine, nel 2003 esce negli Stati Uniti Zero Day di Ben Coccio. Si tratta di una sorta di diario filmato di due studenti di una high school che progettano e attuano un massacro in tutto e per tutto simile a quello della Columbine. È, ovviamente, un falso home movie (debitore per l’idea di fondo verso un altro film indipendente girato a bassissimo budget ma dall’enorme successo internazionale, The Blair Witch Project ) che gioca molta della sua riuscita sulla suggestione creata dall’assunzione del punto di vista dei due ragazzi e dalla creazione di un apparato paratestuale dettagliato (ma anch’esso chiaramente falso) come un sito web che ricostruisce nel dettaglio la dinamica del presunto eccidio. Al di là del suo carattere feticistico e speculatorio, il film di Coccio si basa in parte sulla realtà: Eric e Dylan, infatti, lasciarono una serie di materiali filmati sulla preparazione della strage che, tuttavia, vennero sequestrati dalle autorità all’indomani dell’eccidio e mai mostrati al pubblico. Elephant è stato girato in soli venti giorni, nel novembre del 2002, interamente in un liceo in via di dismissione a nordovest di Portland: la troupe riuscì a terminare le riprese pochi giorni prima che suppellettili e arredi scolastici venissero definitivamente smantellati. Dopo gli ottimi risultati ottenuti con i provini di Elephant , che avevano visto rispondere più di tremila ragazzi agli annunci diffusi attraverso canali tradizionali, per reclutare i protagonisti di Paranoid Park (ancora ambientato tra gli studenti di una high school) Van Sant decide di utilizzare un canale innovativo, ovvero il web. Sceglie il social network MySpace, diffusissimo soprattutto tra gli adolescenti, vero e proprio fenomeno di massa negli Stati Uniti, un punto di riferimento imprescindibile per molte community, non ultima quelle degli skaters alla quale appartengono anche i personaggi del film, ovviamente interpretati da giovani appassionati di tale disciplina.

 

 

Bibliografia essenziale

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