ècosaimale?

di Costanza Quatriglio

(Italia, 2000)

Sinossi

Quattro adolescenti palermitane telefonano a una loro conoscente domandandole se abbia mai avuto rapporti sessuali con il fratello. Poco dopo, davanti alla telecamera, parlano del quartiere Ballarò dove, a quanto si dice, sarebbero stati denunciati casi di abusi sessuali su minori da parte degli stessi familiari. Una loro coetanea, invece ha una visione più positiva delle cose: afferma che il degrado di cui tanto si parla non è così preoccupante e che basta stare attenti; piuttosto, i maniaci sono al quartiere S. Chiara. Due bambine raccontano dei furti che si sono verificati nel quartiere e dei quali sono stati vittime loro parenti o amici, poi passano a parlare dei litigi tra i loro genitori e delle prepotenze che sono costrette a subire quotidianamente. È la festa patronale e le bambine vagano tra la folla radunatasi per assistere alla processione e ai fuochi d’artificio: una di loro si allontana dirigendosi verso la parte abbandonata del quartiere. Le ragazze, intanto, parlano di una loro coetanea stuprata e dei rapporti incestuosi tra fratelli, a quanto pare molto diffusi nel quartiere. Le bambine giocano in una casa abbandonata con dei giocattoli lasciati lì chissà da chi: una di loro, una volta in strada, finge di telefonare alla polizia.

Analisi

Fin dal titolo, il documentario ècosaimale? di Costanza Quatriglio si presenta allo stesso modo delle sue giovanissime protagoniste: un oggetto inafferrabile, di difficile decifrazione, almeno quanto il dialetto strettissimo parlato degli abitanti dei quartieri del centro storico di Palermo in cui è ambientato. “È cosaimale” è un’espressione praticamente impossibile da tradurre senza tradirne il senso, che indica una forma di abuso o di prepotenza nei confronti di un minore da parte di un adulto. Il film, infatti, nasce all’indomani della denuncia di una serie di violenze intrafamiliari ai danni di bambine e bambini avvenute nel quartiere palermitano di Ballarò, ma non è un’inchiesta o un’indagine di carattere giornalistico, quasi impossibile da girare in un contesto così degradato. Lungi dal costituire una scorciatoia, la prospettiva scelta dalla regista, oltre a costituire l’unica via praticabile, è anche quella capace di andare più in profondità e cogliere, al di là della superficie ovvia ed eclatante dei fatti di cronaca, la realtà di una mentalità molto più diffusa di quanto non sia possibile immaginare, il “non detto” di una quotidianità vissuta con rassegnazione da tutti i protagonisti delle vicende. Il punto di vista scelto dalla Quatriglio è, ovviamente, tutto “dalla parte delle bambine” e, soprattutto, è il frutto di una frequentazione assidua dei luoghi e della popolazione, di un percorso di avvicinamento lento e graduale che ha portato all’introduzione progressiva della videocamera, a un’opera di “banalizzazione” del dispositivo di ripresa grazie alla quale i bambini non avvertissero più come estranea la sua presenza. Un’operazione di “mimetismo” che ha consentito di instaurare con le protagoniste un sorprendente rapporto di prossimità e confidenza: la regista non pone domande dirette a far emergere ciò che è già venuto a galla nelle sue forme più banali e scontate in altre sedi, ma mette la sua videocamera al servizio delle bambine e delle ragazzine che, in questo modo, si affacciano alla superficie dell’obbiettivo per parlare della realtà del loro quartiere e, in particolare, di come vivono il loro rapporto con gli adulti, innanzitutto con i propri familiari. Tra le righe dei discorsi sconnessi, delle frasi smozzicate, del sovrapporsi di voci che tentano di sovrastarsi l’un l’altra per conquistarsi un primo piano, del misto di dialetto e lingua italiana, facendo parlare le ragazzine attraverso il loro corpo, le espressioni, gli ammiccamenti, le allusioni, le malizie che caratterizzano la loro età e il loro genere, emerge una realtà profondamente radicata sul territorio, uno stato di violenza diffusa e latente, sempre pronta ad esplodere e a degenerare in forme più o meno morbose, più o meno clamorose ma, molto più spesso, destinata a restare sommersa dall’omertà e dalla paura. Grazie al suo metodo discreto, ad un pedinamento costante ma mai incalzante, alla relazione di profonda confidenza instaurata con i soggetti, la regista riesce a mostrarci le dinamiche di inclusione ed esclusione che caratterizzano il loro universo relazionale, improntati a un atteggiamento rigido e intransigente, a tratti paradossalmente più duro nei confronti delle vittime che verso i carnefici. Ma ad emergere, ancora grazie alla delicatezza del tocco della regista, è un aspetto della vita delle protagoniste – soprattutto delle più giovani – che difficilmente sarebbe affiorato attraverso altre forme o metodi di documentazione: la profonda solitudine, lo stato di abbandono in cui le bambine vivono le proprie giornate, affidate praticamente a se stesse e alla strada, luogo dei giochi, delle dispute, degli incontri, belli o brutti che siano, la necessità di convivere quotidianamente con la paura. Le parti forse più emozionanti del documentario sono, infatti, quelle in cui la regista segue nottetempo alcune delle bambine nel loro girovagare per i vicoli della Palermo vecchia illuminata a giorno in occasione di una festa patronale e poi inoltrarsi nelle zone abbandonate del quartiere. Grazie al suo “stile” spoglio, al suo metodo di lavoro essenziale, alla mancanza di filtri o schemi sul piano della comunicazione, dovuta all’estrema vicinanza ai soggetti e all’assenza di un approccio “istituzionale”, lo spettatore non può far altro che seguire il filo di un discorso per immagini continuamente interrotto, il cui senso è affidato più alla valenza fisica delle immagini, alla sonorità delle voci e dei rumori, ad una realtà che si può solo intuire ma che non è possibile (e forse neanche giusto) conoscere fino in fondo. Fabrizio Colamartino

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