di Andrzej Wajda
(Polonia, Germania, Francia, 1990)
Sinossi
Il dottor Janus Korczak è un ebreo polacco che dirige con dedizione e passione un orfanotrofio a Varsavia durante l’occupazione russa. Il rapporto che egli ha con gli orfani è basato sull’amore, la fiducia, il reciproco rispetto. E’ aiutato, nello svolgimento del suo lavoro, da due giovani, Ester e Hanieck, e dalla signora Stepha, rientrata a Varsavia per la preoccupante situazione politica e per l’annunciata e imminente guerra. L’attacco e l’occupazione nazista della Polonia nel settembre 1939 sconvolge gli equilibri mondiali e in particolare l’esistenza degli ebrei polacchi, compresa quella del dottore e dei piccoli ospiti del suo istituto: un ordinamento costringe i residenti ebrei in Varsavia ad abbandonare le loro abitazioni e a insediarsi in un quartiere ebraico a loro riservato. Durante l’ingresso nel ghetto con i suoi duecento bambini, Korczak protesta con la Gestapo. Viene picchiato e arrestato non solo perché non indossa la fascia con la stella gialla, ma soprattutto perché si ostina a voler difendere e preservare dall’indiscriminata crudeltà e dai soprusi dei nazisti i suoi ragazzi. Un medico delle SS permette la sua scarcerazione, fingendo di riscontrare in lui una grave malattia. Intanto il regime nazista si fa sempre più violento. Le malattie si diffondono rapidamente e abbandonati sulle strade si trovano numerosi cadaveri. Non c’è da mangiare. Korczak procura il cibo chiedendolo ai ricchi borghesi ebrei che vivono ancora piuttosto agiatamente e continua a educare, a comunicare, a trasmettere fiducia, amore e tenerezza ai suoi bambini, risolvendo i loro litigi e alleviando le loro angosce. La speranza che le cose possano cambiare, però, lo ha ormai abbandonato. Nonostante questo, Korczak continua a rifiutare gli inviti di alcuni suoi amici a fuggire, con una falsa identità, in Svizzera e sale con i suoi bambini sul treno che li porterà nel campo di concentramento di Treblinka in cui, tutti insieme, troveranno la morte nelle camere a gas.
Presentazione critica
Con questo film in bianco e nero che rievoca, in una dimensione a volte onirica e a volte documentaristica, gli orrori dell’occupazione nazista di Varsavia, Andrzej Wajda, ritrova il vigore delle sue prime opere, in cui il regista denuncia non solo la crudeltà e l’efferatezza delle persecuzioni ebraiche in Polonia, ma anche il coraggio tenace, di coloro che hanno deciso di lottare, di combattere, per costruire un futuro diverso. Il Dottor Korczak (1990) appare molto vicino a questo tipo di denuncia che Wajda aveva attuato in quei primi film, che testimoniano anche la volontà di mantenere in vita la memoria storica collettiva, incredibilmente labile. Un altro elemento crea continuità con alcune sue opere precedenti: l’analisi psicologica dei personaggi (si pensi a Il bosco di betulle del 1970 e a Le nozze del 1972). Questa volontà di approfondire la psicologia umana emerge in Korczak nel ritratto sfaccettato del protagonista – di cui lo spettatore sente, in molti momenti del film, i pensieri come in un flusso di coscienza del personaggio che svela se stesso – ma anche in quello di alcuni dei suoi bambini, di cui il regista mostra comportamenti, disagi e molte suggestive immagini (primi piani in particolare), attraverso cui scruta il carattere e il loro sguardo sulla realtà. L’intera poetica di Wajda oscilla continuamente tra due poli: il pessimismo, che proviene dalla tradizione romantica polacca, a cui il regista deve molto e che incide anche sul suo stile irregolare e composito, e la dimensione onirica. La concezione tragica e disperata del mondo, che aveva caratterizzato i suoi esordi, si ritrova nella sua opera matura anche se attenuata da uno scetticismo più tollerante, che si radica sempre profondamente nella realtà; la dimensione fiabesca e visionaria nasce invece dal bisogno di creare una realtà alternativa rispetto a quella in cui si è costretti a vivere. Molti sono i momenti nel film in cui è possibile rintracciare questa ‘irrealtà’ che irrompe nella realtà: si pensi ai vari giochi che Korczak fa con i bambini, alla ‘magia’ con cui fa cessare la pioggia in una delle prime scene del film, alla canzoncina del ‘trenino dell’allegria’ con cui festeggia la sua liberazione dal carcere, al finale che è un sogno vero e proprio. C’è una rottura forte sia a livello di stile che di contenuti, e c’è soprattutto la rottura dell’illusione. Wajda gioca con lo spettatore non solo nel passare continuamente dalla realtà all’irrealtà, ma anche dall’illusione alla disillusione: quello che appare sullo schermo appartiene all’universo cinematografico che è finto, ricostruito. Quindi non c’è solo la rivelazione della drammaticità dell’esistenza umana, c’è anche quella dell’illusione cinematografica, esplicitata in vari modi: effetti di quadro nel quadro, che rinviano alla cornice dello schermo, inquadrature di specchi in cui i personaggi si ‘sdoppiano’, inquadrature di macchine da presa (utilizzate dai nazisti per documentare le condizioni degli ebrei), la rappresentazione teatrale dei bambini dell’istituto, tutti elementi che rimandano alla dimensione del fare del film, e che ne svelano l’illusione su cui si basa. Queste continue contrapposizioni – sogno/realtà, illusione filmica/disillusione, speranza/rassegnazione – hanno lo scopo di dissimulare il dramma devastante che la società e l’uomo stanno vivendo, allo stesso modo in cui la signora Stepha dice ai bimbi che andranno a fare una gita, quando invece devono abbandonare il ghetto per trasferirsi nel campo di concentramento di Treblinka. La realtà è così terribile che ci si rifugia nella finzione (un po’ come fa lo spettatore che va al cinema) e nel gioco. Una soluzione che si ritrova anche ne La vita è bella di Roberto Benigni (1997) e nei tentativi disperati del protagonista di proteggere il piccolo figlio da quello che sta succedendo. Ma è nel finale del film che questa rottura tra i due piani – realtà/irrealtà - si realizza in maniera più incisiva. Il viaggio disumano che gli orfani e il dottor Korczak si accingono a compiere si trasforma surrealmente nella gita di cui aveva parlato la signora Stepha: l’ultimo vagone si stacca dal treno, si ferma e scendono i bambini e il dottore, sorridenti, spensierati, come nel finale di una favola in cui tutti vivranno felici e contenti. E’ la voce fuori campo che svela allo spettatore, ancora una volta, la finzione, la disillusione su cui si basano il film e la realtà apparente delle cose: Korczak e i suoi bambini vennero assassinati nelle camere a gas del campo di sterminio di Treblinka nell’agosto 1942. Il finale del film è ancora una rottura, questa volta tra immagine e suono – le due dimensioni che costituiscono il linguaggio filmico – elemento che prova ulteriormente che il cinema di Wajda è un cinema aperto, problematico, costituito da elementi che disturbano la normale struttura narrativa. E dove, comunque, è nettamente maggiore il rilievo formale dato alla fantasia che alla realtà, grazie a una concretezza visiva che mette in risalto i valori dell’irrazionale, la validità dei sogni.
Marco Dalla Gassa Monica Falco