Diritti...al cinema - Diritto all'autodeterminazione

ARTT. 12.1, 13 e 14. Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo, 1989
ART. 1 Carta delle Nazioni Unite, 1945
ART. 12 Patto internazionale sui diritti civili e politici, 1966

I percorsi di autodeterminazione dei minori nel cinema transitano, solitamente, su strade molto battute, affidandosi cioè ad espedienti narrativi e cinematografici molto consolidati: il viaggio come luogo di formazione di una coscienza, come spazio fisico, esperienziale e metaforico di rinascita (per esempio Stand by me – il ricordo di un’estate), come occasione per acquisire un’identità coerente con i propri valori e i propri sogni, come brusco risveglio da una ovattata e viziata esistenza; il rito di iniziazione, passaggio simbolico dall’età adolescenziale a quella adulta che si officia tanto nelle società tradizionali quanto in quelle ipertecnologiche; la ribellione più o meno violenta, sintomo del desiderio di modificare i connotati della società e di vivere forme di protagonismo civile (I cento passi, Zero in condotta); i processi di emarginazione come forma dolorosa di acquisizione di una diversità spesso non voluta, ma altrettanto inevitabilmente accolta come valore positivo (Basta guardare il cielo); la realizzazione di un talento come strumento di emancipazione e di libertà (Billy Elliot, Sognando Beckham). Per ragioni di carattere essenzialmente narrativo il cinema trasforma quelli che nella realtà sono processi dalla gestazione lenta, a volte ambigua e incerta, in situazioni sintomatiche ed, insieme, assiomatiche. Per assegnare alla parabola narrata significati universali e facilmente decodificabili, in molti film il desiderio di autodeterminazione si enuclea come risposta ad un trauma che giunge dall’esterno, dalla famiglia, dal gruppo di pari, dalle istituzioni, e più raramente come esigenza individuale e interiore. Non a caso, sono numerose le pellicole “generazionali” che mettono in scena un mondo adulto impegnato ad imporre comportamenti e stili di vita, direzioni di crescita prestabilite, integrazioni più o meno forzate ed un mondo dei giovani costretto a scegliere la propria strada “per reazione”, per spirito di rivalsa, per testarda decisione di andare controcorrente. In altre parole, molti ragazzi cinematografici sono spinti a cercare se stessi essenzialmente per evadere da un controllo sociale che generalmente non si può eludere. Partendo da questa prospettiva di lettura, abbiamo deciso di scegliere, tra i tanti possibili, tre film che non solo illustrano il diritto dei più piccoli all’autodeterminazione, ma che mostrano come il mondo dei più grandi cerchi di (e spesso riesca a) limitare gli spazi di tale processo, dettarne i tempi, individuarne i confini, gestirne le modalità. Partiamo da un piccolo ma illuminante film iraniano: Lo specchio di Jafar Panahi. È la storia di Mina, una ragazzina di otto anni che dopo aver atteso invano l’arrivo della madre all’uscita della scuola, cerca di tornare a casa da sola prima a piedi, poi chiedendo un passaggio in motorino ad un signore, infine salendo su un autobus. L’esile filo narrativo viene spezzato improvvisamente quando la bambina dichiara di essersi stancata di fare l’attrice del film e di voler veramente tornare a casa. Scappata dal set cinematografico, Mina (il suo vero nome anche nella realtà) viene pedinata dal regista e dall’operatore che registrano, in campo lungo, i suoi sforzi per trovare la via del ritorno. Oltre a tutta una serie di riflessioni metacinematografiche relative al presunto statuto realista dei film, Lo specchio è affascinante perché rivela quanto sia difficile per un minore sfuggire ad una logica di crescita già impostata da altri: qualsiasi decisione o presa di posizione che sembra autonoma, altro non è che un protagonismo non originale, perché già sperimentato mille altre volte da mille altre persone, eppure pur sempre essenziale e necessario. Mina vuole andare a casa sia quando recita nel film (allegoria di una società che spinge i più piccoli ad avere un “ruolo” ben prestabilito), sia quando rifiuta la logica del “burattino” e sceglie autonomamente di scappare. Cambia la distanza della macchina da presa (lo sguardo adulto) dalla protagonista, ma non le prove che la bambina deve superare per arrivare fin sull’uscio di casa. Panahi, tuttavia, non perde la fiducia nelle possibilità del singolo, permettendosi un finale “dispettoso”: Mina, una volta tornata dai genitori, dopo aver più volte rifiutato l’invito del regista a tornare sul set, gli chiude la porta di casa in faccia. Come se esistesse, comunque, uno spazio personale che nessun altro individuo può violare e influenzare. Ne La frattura del miocardio, commedia leggera e intelligente di Jacques Fansten, è un intero gruppo di amici che si raccoglie intorno ad un compagno di classe che ha appena assistito alla morte della madre. Per evitare di finire in orfanotrofio, Martin e i suoi compagni decidono di tenerne il decesso all’oscuro degli adulti, organizzando una sorta di funerale per rendere omaggio alla salma, inventando scuse e menzogne per fingere una qualche forma di normalità famigliare. Nel poco tempo in cui i compagni di classe si rendono protagonisti di un’organizzata e partecipata simulazione – ben presto gli insegnanti si accorgeranno dello stato d’animo di Martin – essi vogliono attestare il proprio diritto a costituire forme di aggregazioni sociali alternative a quelle già istituite dagli adulti (l’orfanotrofio). Una forma-famiglia libera da leggi e da condizionamenti, costruita attorno ad un sistema di comunicazione paritario e condiviso, ben rappresentata, a livello di stile, da una forma-film primitiva, dilettantesca, infantile (si veda la fotografia sgranata, la messa in scena povera, l’alfabeto cinematografico semplificato), eppure estremamente efficace. Anche in questo caso, nonostante tutto, il mondo degli adulti, lungi dall’essere aprioristicamente occludente per la crescita dei bambini, prende il sopravvento e impone al piccolo Martin il trasferimento in un istituto per minori. Saranno ancora una volta i compagni di classe, attivi e attenti nel non lasciare mai solo il protagonista, a consentirgli di superare quest’importante e delicato passaggio esistenziale senza sentirsi abbandonato. Il terzo film scelto, invece, si muove lungo un itinerario di crescita più comune, eppure altrettanto illuminante per comprendere il conflitto che si impone tra desideri di autodeterminazione dei più piccoli e confini sociali determinati dagli adulti. La trama scelta da Luigi Comencini per il suo Un ragazzo di Calabria assomiglia a quella di molti altri film, sportivi e non, che descrivono come nasce e si sviluppa un talento, una predisposizione, una capacità speciale. A differenza di altri colleghi, il cineasta milanese evita di aggiungere pathos al percorso di emancipazione del protagonista. Mimì è un ragazzo che ama correre e che vuole diventare maratoneta sia per reazione all’ottusità della famiglia (il padre lo vorrebbe vedere dietro i banchi di scuola) sia come risposta ad un ambiente ancora troppo retrogrado (nella Calabria degli anni Sessanta non si concepisce il podismo come attività professionistica). Tuttavia le sue aspirazioni nascono prima di tutto da esigenze intime, dal piacere del movimento, dalla sensazione di libertà provata, dal desiderio di semplice e naturale espressione del sé. A ben vedere, le aspettative “per interposta persona” dei grandi non sono prive di logica: il padre, custode di un manicomio, vorrebbe che Mimì studiasse per guadagnare una certa rispettabilità sociale e avverare un futuro di agiatezza economica; Felice, il suo allenatore zoppo, vorrebbe che Mimì sapesse valorizzare una capacità fisica a lui preclusa dall’handicap. Anche lo sport più individuale ed economico possibile, più vicino alla terra e al nostro passato ancestrale (ben rappresentato dal suo correre a piedi scalzi), subisce i dettami di un convitato di pietra sempre presente anche quando si corre da soli, la comunità. La maggior colpa di Mimì è proprio quella di aver scelto una forma di emancipazione anti-sociale, non incasellabile dalla mentalità del paese. Solo la vittoria ai giochi della gioventù spazza il campo da illazioni, malelingue paesane, incertezze paterne; tuttavia ciò avviene non perché Mimì è arrivato primo, ma perché è stato ripreso dalla televisione (strumento principe di rappresentazione sociale) e mostrato in tutta la penisola. (MDG)