ARTT. 17,13,6,29,31 Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo, 1989
Ciò che caratterizza maggiormente alcune tra le più penetranti rappresentazioni cinematografiche dell’infanzia e dell’adolescenza è, probabilmente, la possibilità offerta dallo sguardo dei giovani protagonisti alla macchina da presa (e, ovviamente, alla visione dello spettatore) di aprirsi verso il mondo con ingenuità e senso di sorpresa in una sorta di rinnovata epifania della realtà. Occhi che indagano il mondo circostante con lo stesso smarrimento di chi affronta situazioni e circostanze le cui regole sono dettate da altri – gli adulti – che, immemori del proprio passato, orgogliosi delle proprie illusorie certezze, poco o niente sono disposti a condividere con il mondo infantile o adolescenziale. Che si tratti di conoscere le proprie origini (Io ballo da sola di Bernardo Bertolucci) la storia del proprio Paese (Il buio oltre la siepe di Robert Mulligan), entrambe le dimensioni intrecciate (Diario per i miei figli di Marta Meszaros), famiglia, scuola, società spesso non riescono a rispondere in maniera efficace alle domande di bambini e adolescenti, costringendoli a darsi da soli delle risposte o, peggio, a rinunciare del tutto a interrogarsi sul senso della realtà che li circonda. Come è facilmente intuibile scorrendo i titoli appena elencati, il cinema sceglie quasi sempre di mettere in evidenza questa contraddizione quando tali istituzioni (famiglia, scuola, società) sono attraversate da crisi profonde e tendenze disgreganti, sottolineando come, proprio nei momenti di maggiore incertezza (quelli in cui chi è più giovane cerca delle risposte o, per lo meno, un momento di dialogo e confronto) venga meno la capacità di informare e motivare. Interpretare il presente, ricordare il passato, riflettere sul futuro diventano, così, una serie di urgenze tanto più forti quanto più incerte divengono le coordinate politiche, sociali, storiche al cui interno ci si muove. Esemplare, proprio da questo punto di vista, è Colpire al cuore, uno dei primi film di Gianni Amelio, tra i pochissimi che siano riusciti ad analizzare i comportamenti sociali di quel periodo tragico della recente storia italiana che tutti conoscono con il nome di “anni di piombo”. Ciò che è interessante mettere in evidenza è la capacità del film di legare a filo doppio quelle componenti fondamentali nella vita adolescenziale (affettività, apprendimento, vita di relazione) in un gioco intrecciato di reticenze e complicità che portano il giovane protagonista a compiere delle scelte apparentemente assurde. Emilio, figlio quindicenne di Dario, un docente universitario, è il classico esempio di adolescente che osserva attentamente la realtà che lo circonda ma ne è sostanzialmente escluso, si pone una serie di domande sulla reale natura dei rapporti tra le persone a lui più care ma non riesce ad ottenere risposte. Sospetta che il padre sia il fiancheggiatore di un gruppo terroristico del quale fanno parte alcuni suoi ex allievi, soffre una muta gelosia nei confronti di quei giovani universitari con i quali il genitore si incontra e, di fronte all’atteggiamento sfuggente di Dario, cerca di scoprire una verità che, in realtà, elabora in solitudine come una sorta di ossessione. Paradossalmente, il muro di gomma contro cui si scontra Emilio non è frutto di un rude autoritarismo vecchio stampo, sordo alle richieste dei giovani: Dario è un intellettuale che ha sviluppato scetticismo nei confronti della società, ha deciso di non esprimere giudizi su di essa, e cerca fondamentalmente di proteggere suo figlio dal coinvolgimento troppo diretto con una realtà che ritiene pericolosa. Il risultato è un paradossale rovesciamento dei ruoli che vede un adolescente, sempre più perplesso di fronte a ciò che accade attorno alla sua famiglia, chiedere al padre di rispondere alle sue domande sotto forma di provocazioni (segue il padre e lo fotografa, va dalla polizia a deporre spontaneamente), magari assumendo una posizione autoritaria, e un genitore che, per non correre il rischio di sbagliare, rinuncia a ogni intervento chiarificatore e, più in generale, al proprio compito educativo. Di fronte all’incapacità di comunicare e all’assenza di risposte certe da parte di Dario (che incarna il doppio ruolo di padre e di maestro), nel vano tentativo di penetrare una realtà indecifrabile, Emilio si aggrappa illusoriamente alla presunta oggettività di ciò che vede e fissa attraverso la sua macchina fotografica, quasi a voler compensare con le immagini catturate dall’obiettivo (protesi del suo sguardo) un deficit sul piano della comunicazione verbale. Il nucleo familiare diviene, così, una sorta di modello in scala ridotta della società del tempo, albergando al suo interno delazioni, sospetti, reticenze, doppiezze che, proprio in quegli anni, divennero gli elementi caratterizzanti della vita, tanto privata quanto pubblica, di molti cittadini. Nel film di Marco Bechis Figli – Hijos siamo ancora di fronte a dei genitori che decidono di tenere nascosta la realtà al proprio figlio anche se, in questo caso, non si tratta di una scelta dettata da principi morali o da ideali più o meno condivisibili, ma della necessità di occultare un passato mostruoso. Anche qui, come già per Colpire al cuore, lo sfondo storico-politico delle vicende è tutt’altro che neutro: Raul e Vittoria, una coppia di origini argentine che vive a Milano, hanno tenuto nascosto al figlio ventenne il loro passato di attivisti del regime militare che oppresse il loro paese durante gli anni Settanta ma, soprattutto, il fatto che la sua vera madre era un desaparecido cui Javier (questo il nome del ragazzo) venne tolto appena nato. In questo caso è addirittura la stessa identità del protagonista ad essere negata, “rifiutata” (nel senso letterale di ridotta a rifiuto, a scarto) dall’atteggiamento reticente dei genitori, trincerati dietro atteggiamenti che paiono ricalcare ora l’autoritarismo becero ora il paternalismo ipocrita del regime a cui avevano aderito. Il doloroso percorso che Javier compie (accompagnato da Rosa, una ragazza che afferma di essere sua sorella) alla ricerca delle informazioni necessarie per ricostruire la propria identità affettiva e biologica lo porta ad acquisire una forte consapevolezza politica e sociale a partire dalla quale decide di allontanarsi dai genitori per riconoscersi in quella “famiglia” cui appartengono i parenti delle migliaia di desaparecido argentini. È significativo che la scelta di abbandonare la famiglia “adottiva” sia dettata non dalla scoperta della propria reale identità (Javier e Rosa scoprono che, in realtà, non sono fratelli) ovvero da una serie di dati oggettivi che, nel corso del film, diventano sempre meno importanti, ma dall’acquisizione progressiva di una coscienza critica verso un periodo storico recente che riguarda da vicino tanto i due ragazzi quanto qualunque altro cittadino argentino. La metafora dello sguardo, quanto mai evidente nel film di Amelio, in questo caso opera a un livello più sottile ma non meno interessante. Javier ha vissuto per tutta la sua vita in una condizione di ignoranza sulle proprie reali origini, avvolto in una nebbia simile a quella nella quale è immersa la casa dei genitori: il suo è uno sguardo che nel corso del racconto si libera dai filtri della routine borghese cui s’era assuefatto per diventare penetrante e critico nei confronti della realtà, proprio come la macchina da presa che, nelle ultime sequenze si apre alla documentazione della realtà, quella di una vera manifestazione dell’associazione HIJOS fondata dai parenti di desaparecidos. Se in Colpire al cuore lo sguardo del protagonista si rivolgeva sospettoso verso il presente e in Figli – Hijos guardava timoroso al proprio passato, con Baba Mandela, una docu-fiction di Marco Milani co-prodotta da alcune associazioni no-profit (Legambiente e Amref), lo sguardo di Kevin, il piccolo keniano protagonista della pellicola, cerca di rivolgersi al futuro, quello del proprio Paese ma anche di tutto il pianeta Terra. Kevin è un vero e proprio testimone che, seguito dalla macchina da presa (e guidato dagli autori del film), prende in carico lo sguardo dello spettatore e lo porta in giro per il continente africano alla scoperta dei mali che lo affliggono. Lungo il suo cammino incontra uomini e donne ai quali rivolge domande su ciò che ha potuto osservare e che gli parlano con semplicità delle grandi difficoltà che quotidianamente sono costretti ad affrontare per sopravvivere: deforestazione, inquinamento, desertificazione, inondazioni, carestie, epidemie, migrazioni di massa, sono le cause e allo stesso tempo gli effetti di una catena di eventi catastrofici innescata dall’avanzare troppo brusco del progresso. È probabile che gli stessi problemi, riportati nelle pagine di un testo scolastico, per Kevin resterebbero dati puramente astratti rispetto alla difficile realtà vissuta quotidianamente dal ragazzino (quella degli slum di Nairobi) così come, documentati da un servizio giornalistico, per gli spettatori occidentali risulterebbero irrimediabilmente distanti rispetto ad una condizione di vita privilegiata ma, allo stesso tempo, troppo facilmente data per scontata. Baba Mandela, dunque, si pone come obiettivo quello di informare i propri spettatori attraverso uno sguardo e un linguaggio il più possibile vicini a quelli dell’infanzia. Il film, certo, in alcuni passaggi si espone anche al rischio di banalizzazioni e ingenuità, proprio come chi cerca di riportare a una dimensione di essenzialità e linearità una serie di problematiche molto complesse. Un rischio che, tuttavia, vale la pena di correre, soprattutto quando è in gioco una posta alta come quella affrontata nel film. (FC)