Diritti... al cinema - Diritto ad avere figure e strutture di riferimento

ARTT. 5,9,12,15,17, 18, 20, 24, 26, 28. Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo, 1989

Raramente il cinema riesce a raccontare delle storie davvero ad altezza di bambino, ad avere, cioè, la necessaria sensibilità e sincerità per rappresentare un mondo che inevitabilmente sfugge agli schemi e alle regole degli adulti, spesso incapaci tanto di parlare e informare quanto di ascoltare e accogliere. In fondo è normale che sia così: la settima arte ha sempre rispecchiato (a volte fedelmente, a volte deformandole) le strutture sociali delle quali è il prodotto, i pregi ma anche e soprattutto i difetti della collettività da cui nasce, e questo non solo a livello di soggetti trattati ma anche e soprattutto dal punto di vista delle forme della narrazione e della rappresentazione. Quando l’operazione riesce, spesso è grazie a dei personaggi adulti capaci di portare la propria visione alla stessa altezza dei bambini e degli adolescenti protagonisti, di compenetrarsi realmente con i loro problemi e le loro incertezze, il più delle volte perché accomunati ai loro giovani interlocutori da stati d’animo, condizioni di vita o di lavoro che li pongono in una situazione di vulnerabilità o di smarrimento. I personaggi adulti di questo breve percorso sono comunque figure che si pongono come alternative al potere ufficiale attraverso comportamenti fuori dagli schemi, insomma, a loro volta dei marginali. I tre film scelti sono altrettanti esempi di questa particolare modalità di rappresentazione dell’universo infantile o adolescenziale attraverso lo sguardo di personaggi adulti che, pur essendo delle figure di riferimento istituzionali – un insegnante, un medico, addirittura un carabiniere – riescono a superare difficoltà di approccio, di comunicazione, di interazione per aprirsi ad una reale comprensione delle esigenze dei giovani co-protagonisti. Figure emblematiche perché, tranne che nel caso dell’insegnante (il maestro protagonista del documentario Essere e avere di Nicholas Philibert), gli altri due personaggi (il medico di Il grande cocomero e il carabiniere de Il ladro di bambini) sono rappresentanti di istituzioni solitamente chiuse a un accesso diretto e a un uso attivo da parte di bambini o adolescenti. Isolati dalla vita della comunità non solo da un punto di vista concreto ma anche nell’immaginario collettivo, ospedali e commissariati sono luoghi nei quali si utilizza un linguaggio specialistico, burocratico, al limite della comprensibilità (spesso anche per gli adulti), ai quali ci si avvicina con timore e solo in caso di necessità, dai quali i minori sono solitamente tenuti lontano e ai quali si possono rivolgere solo se accompagnati dagli adulti. È per lo meno significativo che, in una dalle prime sequenze del film di Gianni Amelio Il ladro di bambini, Antonio, il giovane carabiniere incaricato di scortare i due fratelli co-protagonisti del film presso un orfanotrofio, si tolga la divisa preferendo continuare il viaggio in abiti borghesi. Spogliarsi di un’uniforme che, per due bambini cresciuti in un contesto di degrado e criminalità rappresenta un elemento di forte estraneità e distanza – se non addirittura di ostilità – è il primo passo verso un atteggiamento più sollecito e sensibile, nonché il segnale della capacità di adempiere ad una serie di mansioni e ruoli decisamente insoliti per un milite. Liberandosi dalla rigidità imposta dalla divisa (sorta di corazza attraverso cui il giovane sembra più voler difendere se stesso che ergersi a garante della legge), Antonio imbocca un percorso di difficile emancipazione dal proprio statuto di tutore dell’ordine ligio a codici e regolamenti, a vantaggio di un atteggiamento più “flessibile” verso le esigenze – anche affettive – dei due bambini. Un comportamento che si scontra, nel corso del film e del lungo viaggio attraverso l’Italia che il carabiniere dovrà affrontare insieme ai due bambini, con quello di coloro che dovrebbero concretamente tutelarli e che, invece, si trincerano dietro le difficoltà procedurali, i vizi di forma, le scartoffie e il linguaggio burocratico tipici di apparati statali e non. Certo, ad aiutare Antonio nel suo ruolo autonomo e alternativo rispetto alle istituzioni (anche e soprattutto quella che rappresenta adempiendo al proprio dovere), c’è la sua giovane età, la sua provenienza meridionale, il suo carattere ingenuo, caratteristiche simili a quelle dei due bambini che, specie nell’incipit del film, sembrano capaci di contestare e sottrarsi – se non proprio fisicamente almeno idealmente – alla sua tutela ma che, poco a poco, incominciano a vedere in lui un alleato e persino un complice. Ma ciò che conta maggiormente evidenziare, all’interno di questa prospettiva di lettura, è il valore concreto e allo stesso tempo simbolico dei gesti – anche piccoli – del protagonista, tutti orientati a proteggere e sostenere soprattutto moralmente i due bambini, magari abdicando alla propria maschera istituzionale in virtù di una maggiore comprensione delle loro esigenze. Non è un caso se abbiamo parlato di “complicità”, termine ambiguo e rischioso quando si parla di minori, ma che diviene comprensibile se letto come capacità di mettersi in gioco e in discussione al di là delle rigidità e degli schemi imposti da ruoli spesso dati troppo facilmente per scontati. Quello della malattia – e della malattia mentale in particolar modo – è un altro ambito in cui l’immediata accessibilità ai servizi da parte dei minori diviene uno dei requisiti essenziali per ottenere risultati apparentemente minimi ma in realtà importanti. Arturo, il giovane neuropsichiatra protagonista del film di Francesca Archibugi Il grande cocomero, è un altro dei personaggi fuori dagli schemi che tentano di andare oltre il proprio ruolo per mettere a disposizione della comunità di giovani pazienti assistiti nella struttura in cui lavora, non solo competenze e professionalità ma anche la capacità di avvicinarsi al mondo della malattia mentale con la dovuta sensibilità. Nel corso del racconto, imperniato sul rapporto tra Arturo e l’adolescente Valentina (sofferente per una grave forma di epilessia) assistiamo alla progressiva sostituzione di prassi cliniche consolidate come l’uso degli psicofarmaci con altre – di più difficile attuazione ma di maggior efficacia – come la psicoterapia, nonché alla trasformazione della struttura in cui opera: all’ospedalizzazione dei pazienti si sostituisce una gestione degli spazi e dei tempi più moderna, aperta verso l’esterno, una sorta di day-hospital che non isola il malato ma lo segue, che non impone obblighi ma offre un’assistenza costante e discreta. Il terzo film scelto per il percorso diverge nettamente dai due precedenti e, allo stesso tempo, li completa: laddove Il ladro di bambini e Il grande cocomero mettono in scena con schietto realismo carenze, lacune ed errori di istituzioni e strutture solo in parte compensate dall’azione coraggiosa di individui straordinariamente volenterosi, Essere e avere è la documentazione di un’esperienza scolastica che dovrebbe fungere da esempio per qualsiasi altra realtà. Anche in questo caso, certo, siamo di fronte a qualcosa di straordinario, il caso di George Lopez, un maestro che per due decenni ha insegnato in un villaggio sperduto dell’Alvernia ai bambini del posto. L’impegno richiesto da questa attività è grande e, data l’eccezionalità della situazione, esige non solo molta professionalità ma anche una forte carica umana che possa compensare fattori come la differenza d’età (oscillante tra i quattro e gli undici anni) degli allievi che compongono la classe, l’isolamento del villaggio durante i mesi invernali, la solitudine degli alunni che spesso abitano in fattorie molto distanti tra loro, la carenza sul territorio di altre strutture cui poter fare riferimento per piccoli e grandi problemi. A differenza di altri film di fiction (si prenda, ad esempio, Ricomincia da oggi di Bertrand Tavernier), che descrivono i guasti di un sistema scolastico eccessivamente burocratizzato e al tempo stesso carente in fatto di strutture, personale, finanziamenti, Essere e avere è un documentario su una realtà priva di grandi problemi ma solo apparentemente rosea. Il film ce ne mostra progressivamente la vera natura rivelando che, soltanto grazie a una gestione dei tempi e degli spazi della didattica molto diversa dal normale, ad un forte coinvolgimento da parte del docente nella vita quotidiana degli alunni e ad una sua forte dedizione verso l’insegnamento basata su una ricerca continua condotta insieme ai e grazie all’apporto dei ragazzi, è possibile fare della scuola il necessario punto di riferimento all’interno di realtà povere di stimoli e risorse, raggiungendo anche risultati di eccellenza come quelli documentati. Gli stessi risultati di eccellenza raggiunti dal regista Nicholas Philibert in questo film, buona parte della cui riuscita si deve ad un metodo di lavoro analogo a quello compiuto da Lopez con i bambini. (FC)