Dickens

Universo Dickens

di Minua Manca*

Pubblichiamo un ampio resoconto dell’articolo di Minua Manca sulle trasposizioni cinematografiche dei romanzi di Charles Dickens, certamente uno dei più attenti osservatori della condizione dell’infanzia (e di rimando di quella della società) del suo tempo. Si ringrazia la redazione della rivista “Il ragazzo selvaggio” per la disponibilità alla pubblicazione.

Uno scrittore scomodo

Un antivittoriano. Diventato celebre pubblicando a ventisei anni il romanzo umoristico The posthumous papers of the Pickwick club e, successivamente, a di­spense, Oliver Twist, uno dei suoi capolavori. Creatore del romanzo “sociale”, fortemente autobiografico (a dodici anni deve interrompere gli studi e lavorare in fabbrica), Dickens rappresenta una svolta nella letteratura inglese dell'Ottocento, quella del realismo, l'inizio di una profonda indagine sui mutamenti della società con particolare attenzione alla vita del proletariato industriale e della piccola borghesia, fondendo e sviluppando i due grandi filoni della narrativa inglese, quella picaresca di Defoe o Fielding e quella sentimentale di Sterne, apre la stra­da al naturalismo zoliano e ci presenta un quadro capovolto dell'epoca vittoriana e dei suoi fasti, dell'industrializzazione e del progresso. Lo scrittore mette in evi­denza, con sottile ironia e fine umorismo – che nascono anche dal suo lavoro di cronista di tribunali dove aveva assistito a processi di ogni tipo – le contraddizioni del suo tempo segnato da splendori e miserie, da un feroce classismo, dallo sfruttamento economico e dalla crudeltà delle istituzioni sperimentati sulla propria pelle, ma soprattutto ne analizza, con acutezza psicologica, gli effetti sugli individui e sui rapporti sociali. Nei romanzi i valori tradizionali come la famiglia, l'amicizia, la lealtà non si fondano sull'ipocrisia e sul moralismo ma sono frutto di una riflessione più profonda che li rende universali, destinati a rendere l'uomo migliore e i personaggi, straordinariamente vitali che rivestono caratteri unilaterali nella prima fase creativa (il buono, il cattivo, il comico, il patetico), nelle opere successive mostrano una maggior complessità e ambiguità. Così i paesaggi urbani diventano (come gli og­getti e l'ambientazione) parte integrante del racconto, caricandosi di valori simbolici (il carcere, la nebbia, i cumuli di rifiuti) negli scritti più disperati, quando cadono le illusioni nell'azione illuministica della classe borghese e emergono le de­lusioni legate ai modi di un proletariato che tenta di elevarsi su posizioni di ipocrisia e durezza. Quella raccontata da Dickens è la storia di una società capitalistica avanzata dove i più poveri dai giochi passano diret­tamente al lavoro o dall'orfanotrofio al­la corte dei miracoli, alla malavita, al furto: un'infanzia negata, come succede an­cora oggi quando molti ragazzini che si affacciano al mondo degli adulti devono lavorare o afferrare le armi per sopravvivere, vittime della fame e del fucile fino al­la morte. L'Inghilterra ottocentesca co­me la Cina di oggi, dove è massiccia la migrazione dalla campagna alla città e Londra come le metropoli del XXI secolo, op­pressa dall'urbanizzazione di masse fiduciose in una vita migliore che invece significherà disoccupazione, povertà, fame e malattie. Londra metafora di un mondo popolato da individui cinici, burocrati opportunisti, capaci di ogni imposizione e ricatto sulle menti più fragili dei bambini circuiti e trasformati, contro la loro natura, in creature addestrate a delinquere.   Dickens in immagini Ejzenstein in un saggio Dickens, Griffith e noi individuava nello scrittore ingle­se il padre del cinema moderno e citava come cinema 'ante litteram' la descrizione della città operaia nel romanzo Hard Times (Tempi difficili). Così si spiega che fin dagli albori del cinema le pagine del­lo scrittore inglese abbiano attirato l'at­tenzione dei registi per il contenuto socia­le e il tipo di storie che si addicono ad un pubblico eterogeneo di ogni epoca (è del 2005 l'ultima edizione di Oliver Twist firmata Polanski). Nel muto due adatta­menti, tra i meglio riusciti, di David Copperfield (il più autobiografico dei roman­zi): quello del 1911 per opera di Theodore Marston, un film rarissimo1, è la prima versione cinematografica del romanzo dell'infanzia reietta, offesa e maltrattata nella Londra del XIX secolo dove vive Da­vid con la madre e il patrigno, l'odioso Mr. Murdstone che alla morte della moglie non esita a mandare il bambino a lavora­re in uno squallido magazzino dove il ra­gazzo stringerà una profonda amicizia con il barbone Micawber. E quello del 1922, del fotoreporter danese Anders Sandberg, che dirige una delle migliori tra­sposizioni per le splendide scenografie, una messa in scena semplice, di stile tra­dizionale, che conserva la vivacità dei personaggi e lo spirito dello scrittore in­glese. Altre due versioni degne di nota: quella di George Cukor che nel 1934 a Hollywood, con gli straordinari attori Lionel Barrymore e Margaret O'Sullivan, co­struisce un perfetto film inglese in cui ri­salta la cura maniacale per il dettaglio e quella di Delbert Mann, girato in Gran Bretagna nel 1970, un'edizione per la TV una decorosa ricostruzione e rievocazione ambientale dove accanto a Michael Redgrave e Richard Attenborough, spicca Laurence Olivier nella parte di Mr. Creakle. In Great Expectation (1946) David Lean mette in scena una delle più significa­tive tra le opere dickensiane per l'analisi sociale e l'approfondimento psicologico dei personaggi, la vicenda dell'orfano Pip (John Mills) che vive insieme alla sorella nella campagna inglese, preparandosi a diventare il fabbro del villaggio. Una storia d'amore travagliata con l'affascinan­te Estella (la giovanissima Jeans Simmons), che si concluderà molti anni più tardi con un matrimonio, e una cospicua rendita donata da un benefattore miste­rioso condurranno Pip a coronare i suoi sogni d'amore e di ascesa sociale. Premiato con l'Oscar nel 1941 per la migliore sceneggiatura e per la migliore fotografia in b/n (ricordiamo la sequenza dell'incontro tra l'orfanello e un galeotto al ci­mitero, al tramonto nello straordinario incipit gotico e trasfigurato), il film effettivamente si distingue per la scelta di un bianco e nero prossimo al linguaggio del cinema muto e per le sintesi visive di ti­po espressionistico. Esce nel 1998 il rarefatto remake di Alfonso Cuaron Paradiso perduto con Robert De Niro nel ruolo di Finn (Pip), un povero pescatore della Flo­rida che può dedicarsi alla pittura, diven­tare ricco e famoso grazie a un misterioso benefattore, un galeotto da lui soccorso quando era bambino. Liberamente tratto dal famoso romanzo e ambientato ai giorni nostri, il film tradisce l'opera let­teraria riducendone i forti contrasti socia­li a un edulcorata storia. Un melodramma di stampo televisivo. Un altro orfano, Nicholas Nichleby, protagonista del romanzo omonimo, compare sullo schermo col titolo I misteri di Londra nel 1947 per la regia di Alberto Cavalcanti, un brasiliano cosmo­polita che, seguendo la tendenza del cinema britannico postbellico al revival dickensiano, compone un'opera illustrativa, fedele al testo letterario, efficace nel­la ricostruzione puntigliosa del periodo, degli ambienti (Londra degli anni Trenta, un durissimo collegio) e dei temi cari allo scrittore inglese: l'infanzia violata, l'ingiustizia sociale, la malvagità, la cupidigia degli adulti2. E Scrooge, avaro londinese protagonista del primo dei cinque racconti natalizi di Dickens Christmas books, personificazione dell'avidità dì denaro, ha trovato molti ammiratori tra i registi. Filippo Ralli nel 1953 gira in bianco & nero Non è mai troppo tardi con un intenso Paolo Stoppa nei panni dell'usuraio Antonio Trabbi, cuore di pietra, divorato dalla cupidigia dell'oro, che la vigilia di Natale rivive in sogno la sua dannata vita e al risveglio, pentito, si dedica alla beneficenza. Così Clive Donner e Brian Henson, autori rispettivamente di Una favola fantastica (A Christmas Carol, 1984) e Festa in casa Muppet (The Muppet Christmas Carol, 1992), due appropriati adattamenti dello stesso racconto. Il primo, girato interamente in Inghilterra per la TV, risulta apprezzabile per l'interpretazione dì George C. Scott, uno straordinario Scrooge ben affiancato da David Waener e Susanna York. L'opera di Henson si distingue per l'originalità della sceneggiatura con l'introduzione di pupazzi e marionette (create dal padre del regista) accanto a un misurato Michael Caine che sa fondere umorismo e melodramma, per l'elegante scenografia e per l'equilibrio tra animazione e fiction. […] L'altra faccia dell'infanzia Oliver Twist, il romanzo prediletto dai registi cinematografici e televisivi (sceneggiati e serial) annovera almeno una ventina di trasposizioni a significare il successo e la popolarità del personaggio. Nel 1922 esce Oliver Twist per la regia di Frank Lloyd, […] . Il film si avvale dell'interpretazione di due mostri sacri Jackie Coogan3 (Oliver) che all'apice della popolarità venne definito "il più grande attore bambino del mondo" e un mefistofelico Lon Chanej (Fagin), uno dei più istrionici cattivi del cinema. Un classico del muto che traduce fedelmente il testo letterario a partire dall'incipit dove la madre di Oliver, povera e emarginata, muore dandolo alla luce: di qui le vicende tetre e tristi del bambino che viene allevato in un orfanotrofio da cui fugge incontrando nel suo percorso una serie di personaggi biechi e squallidi, apprende l'arte del furto, conosce la prigione. David Lean gira nel 1946 Oliver Twist modificato nella traduzione italiana in Le avventure di Oliver Twist, forse per rendere più suggestivo il racconto? Rimasto a lungo incerto sull'incipit, il regista, dopo la lettura di una pagina suggeritagli dalla moglie Kay Walsh, decide la sequenza iniziale di grande impatto emotivo: una giovane sconosciuta, al culmine della gravidanza, sorpresa da un furioso temporale in mezzo alla campagna, si trascina al cancello di un ospizio dove viene accolta e assistita durante il parto per lei fatale. Nonostante alcune differenze dal romanzo (nel libro Monks risulta essere il fratellastro di Oliver e il signor Brownlow un uomo di buon cuore e non il nonno naturale) il film ruota su tre elementi fondamentali della narrativa dickensiana: la famiglia, la città, i bambini abbandonati. Oliver sperimenta vari tipi di famiglia, squallidi surrogali del nucleo caldo e accogliente dei suoi sogni: l'orfanotrofio gestito dal becero signor Bumble, la casa del signor Sowerberry, piccolo impresario di pompe funebri che acquista Oliver per cinque sterline, dove i maltrattamenti e gli avanzi del cane sono di rito, infine Londra, la miseria e lo squallore dei "borghi putridi" di storica memoria che non presentano caratteristiche di speranza o miglioramento e che le immagini in bianco e nero rendono efficacemente. Nella città lo attende un nuovo nucleo pseudofamiliare formato da una banda di abili borsaioli capeggiati dal losco Fagin. nel romanzo un ebreo, nel film un magnifico avido Alec Guinness dal lungo naso e dal cipiglio arcigno, di origine non specificata (troppo fresca e bruciante la ferita della Shoa?). Nel 1968 esce Oliver! diretto da Carol Reed che traspone il libretto musicale di Lionel Bart del I960, un "libero adattamento" del romanzo dickensiano. La sequenza iniziale ci mostra un vivace coro di bambini che stanno per consumare il misero pasto nell'orfanotrofio dove vige una durissima disciplina ma sulla parete del refettorio troneggia la scritta a caratteri cubitali "God is Truth". Gli avvenimenti si susseguono secondo gli schemi conosciuti, anche se le scene di musica e danza attenuano le atmosfere tetre e gli avvenimenti drammatici del testo letterario. la musica e lo spettacolo prevalgono e mettono in secondo piano la denuncia e l'aspetto morale delle pagine dickensiane, ma ciò non nuoce alla riuscita del film perché la coreografia brillante e colorata, la scenografia e le musiche sempre "dentro" gli avvenimenti e le azioni lo rendono gradevole e valido sul piano delle scelte estetiche. Due sequenze particolarmente coreografiche e musicalmente riuscite, quella del mercato di Londra e il risveglio mattutino di Oliver nella casa del nonno mentre nella piazza sottostante che si va popolando cresce progressivamente il canto dei venditori e della gente. Un grande salto al 2005 (da due generazioni Dickens è cinematograficamente assente) e Polanski presenta il "suo" Oliver Twist, un ricordo autobiografico, il rivivere di un'epoca nell'intreccio tra Storia e storie individuali (v. Il Pianista) una metafora della realtà del mondo in cui viviamo, un racconto stupendamente illustrato già dai titoli di testa che scorrono sulle incisioni di Doré e gli acquerelli di Scharf, una nota di fiabesco fantastico. A differenza dei suoi predecessori il regista polacco inizia la narrazione in medias res, quando Oliver, trovatello dal carattere forte e puro (il piccolo professionista Barney Clark, molto bravo e ben diretto) ha nove anni e vive nell'orfanotrofio dove con i suoi compagni di sventura dipana le funi (twist / torsione / torcimento / filo) della Marina reale: un lavoro duro e faticoso per le piccole mani già doloranti per i geloni. Attraverso lo sguardo di Oliver, Polansky si sofferma particolarmente sui temi del pauperismo, i suoi effetti e l'annientamento del candore fanciullesco. Le vicende ormai a tutti note dell'orfanello si snodano sullo sfondo di atmosfere cupe e tristi di una Londra povera e ricchissima, perfettamente ricostruita e fotografata nelle penombre di interni ed esterni dei vicoli malfamati o nella luce splendente delle dimore dei ricchi borghesi. Oliver, protagonista testimone, errabondo solitario, attraversa una società opulenta ed egoista popolata da individui come il laido Fagin (eccezionale Ben Kingsley), vittima e strumento, ingranaggio di un sistema da cui è difficile uscire. Oltre all'happy end si apre uno spiraglio più profondo nel film del regista polacco nella sequenza in cui Oliver visita Fagin in carcere alla vigilia della sua impiccagione, il bambino versa una lacrima sulla sorte di colui che è slato uno dei suoi persecutori, sottintendendo che il modo giusto ili guardare il prossimo non è quello di dividerlo in buoni e cattivi e le parole di Fagin "che il peccato più grande al mondo non è il furto ma l'ingratitudine" ci fanno riflettere.

* tratto da <<Il Ragazzo Selvaggio>>, n. 56, Marzo/aprile 2006, pp. 46-51  

------------------------------------

Note

1 La copia restaurata è reperibile al Museo del Cinema di Torino, coll. Prolo
2 Un'altra edizione dal titolo originale del romanzo esce nel 2002 per la regia di McGrath.
3 Tra le trasposizioni e cinematografiche del romanzo è la prima versione in cui Oliver viene interpretato da un bambino e non da una giovane attrice.