Conversazione con Costanza Quatriglio
CNDA: Ci puoi parlare di come è nato Il mondo addosso?
Costanza Quatriglio: Il mondo addosso è nato dalla volontà precisa di dare un volto a qualcosa che conoscevo soltanto attraverso una formula giuridica, quella dei “minori stranieri non accompagnati”.
Chi sono questi ragazzi? Cosa desiderano? Cosa provano? Nasceva dalla constatazione che pochi sanno del fenomeno della migrazione minorile e soprattutto volevo conoscere e far conoscere delle persone, non delle statistiche. Ho scelto così di raccontare percorsi di formazione che sono anche percorsi emotivi propri dell’età dei ragazzi, che appartengono alla costruzione del sé. E mentre lavoravo mi rendevo conto che le storie dei ragazzi hanno un traino universale, condivisibile: la storia di tutte le storie, quella del bambino che, senza genitori, deve affrontare il mondo e i pericoli sempre in agguato. Ma ripeto, la prima suggestione è stata quella di parlare di un argomento poco conosciuto e di scandagliare le possibili reazioni legislative ai concreti bisogni dei ragazzi.
C.: Che tipo di lavoro c’è dietro un film come il tuo? Quali sono state le fasi della sua preparazione e quali le difficoltà che hai incontrato?
C. Q.: Per quanto riguarda le difficoltà che ho incontrato, quelle sono state tante, sia produttive, sia pratiche, mentre realizzavo il film. Per tutte le difficoltà che ho avuto, sarebbe stato naturale desistere e decidere di fare un altro film. La preparazione è stata lunga: prima ho raccolto storie e testimonianze, poi ho cercato luoghi e persone con cui confrontare le suggestioni che avevo; solo dopo una lunga convivenza nei centri di accoglienza ho cominciato effettivamente a fare le riprese, con un piano di lavorazione che cambiava, si può dire, di ora in ora, rispettando i tempi e le incertezze di chi partecipava, e imparando a gestire il carico di tensione dei luoghi di accoglienza, dove gli operatori hanno paura di sbagliare, dove i ragazzi alternano dolcezza ad aggressività, dove ogni cosa è precaria, ogni traguardo può essere subito messo in discussione.
C.: A ciascuna delle storie dei quattro ragazzi sono stati dati spazio e modalità differenti all’interno del film. Lo stesso dicasi per il modo in cui li hai concretamente ripresi. A che punto della lavorazione hai deciso quanto spazio dare e come darlo a ciascuno dei protagonisti?
C. Q.: Per quanto riguarda le difficoltà che ho incontrato, quelle sono state tante, sia produttive, sia pratiche, mentre realizzavo il film. Per tutte le difficoltà che ho avuto, sarebbe stato naturale desistere e decidere di fare un altro film. Mentre facevo le ricerche per il film non facevo riflessioni stilistiche, non mi domandavo che forma avrei dato ai racconti che, sotto i miei occhi, si delineavano possibili. Ero intenta soprattutto a capire cosa raccontare. Ad un certo punto, durante le riprese, ho capito che il grande scoglio era rappresentare il buio di coloro che per la legge non esistono, e proporre un discorso figurativo in cui la rappresentazione del grado di visibilità per la società di questi giovani, fosse coerente con il grado di visibilità stesso. Per questo motivo ho disegnato una mappa in cui ai volti, prossimi allo spettatore nei primi piani in cui le emozioni dei protagonisti sono tutt’uno con il racconto, si affiancano i ragazzi senza volto, quelli trovati per strada, di notte, che ai colloqui parlano di soprusi subiti nei viaggi durati anni, e ancora il ragazzo afgano che fa da voce narrante, senza mai comparire, per la prima metà del film. A loro infine si aggiunge Josif, che come un’ombra vive e si muove in città, sempre inquadrato a figura intera, ma mai in viso. Un continuo vivere di spalle, così com’è la sua vita dentro la città, prostituendosi in una delle piazze più belle di Roma, e di giorno tollerato nei treni abbandonati sui binari morti della stazione. E’ stato assolutamente naturale assegnare a ciascuno uno spazio proprio, sia in fase di riprese, sia in fase di montaggio. Josif, a cui sembra che sia dedicato meno spazio, in realtà vive negando l’esperienza dei ragazzi che abbiamo conosciuto prima di lui: il numero di scene dedicate a Josif è inferiore, ma la sua presenza lascia il segno tanto quanto quella degli altri.
C.: Ci sono stati nel corso della lavorazione degli eventi imprevisti che hanno cambiato i tuoi programmi, la sceneggiatura che avevi scritto o magari, perché no? Anche il tuo modo di guardare la realtà che stavi documentando?
C. Q.: Per quanto riguarda le difficoltà che ho incontrato, quelle sono state tante, sia produttive, sia pratiche, mentre realizzavo il film. Per tutte le difficoltà che ho avuto, sarebbe stato naturale desistere e decidere di fare un altro film. L’imprevisto era ogni giorno, la base del modo in cui ho lavorato. Filmavo posti in cui l’emergenza era ordinaria, in cui un appuntamento slittava in continuazione. Anche all’inizio della lavorazione c’è stato il grande imprevisto: ho realizzato il film a Roma nelle strutture di prima e seconda accoglienza e ho scelto di iniziare il racconto di Cosmin proprio dal giorno del suo diciottesimo compleanno convinta che avrei filmato un percorso che avrebbe portato al rimpatrio e invece, con grande sorpresa, Cosmin è stato inserito in un progetto per “giovani adulti” a cavallo tra la minore e la maggiore età che prevede per i ragazzi l’ottenimento di un contratto di lavoro con cui chiedere la conversione del permesso di soggiorno alla maggiore età, anche in deroga ai restrittivi criteri della legge Bossi Fini in quel momento in vigore. Questo ha condizionato l’andamento del film.
C.: Un aspetto che forse emerge meno degli altri, ma che mi sembra sia decisivo anche per capire come funzionano i flussi migratori, è quello delle aspettative dei ragazzi: solo nel caso di Josif emerge la consapevolezza del divario tra quello che immaginano di trovare e ciò che realmente li aspetta, tra la vita che conducono – fatta di lavoro duro se non addirittura di sfruttamento – e ciò che riferiscono alle famiglie, ai genitori.
C. Q.: Per quanto riguarda le difficoltà che ho incontrato, quelle sono state tante, sia produttive, sia pratiche, mentre realizzavo il film. Per tutte le difficoltà che ho avuto, sarebbe stato naturale desistere e decidere di fare un altro film. Emergono le specificità dei progetti migratori; la differenza tra i ragazzi che vogliono fare un percorso di riscatto economico, come Cosmin e Inga, e coloro i quali sono arrivati in Europa per ricostruirsi una vita, come i ragazzi afgani, che devono ricominciare daccapo, dopo aver perso tutto a causa della guerra.
C.: Mi ha colpito molto anche il divario tra i racconti di alcuni di loro a proposito dei viaggi tragici, drammatici, epici che li hanno portati fino in Italia e la miseria, non tanto delle loro condizioni di vita, ma la banalità dei cavilli legali, delle pastoie burocratiche con cui devono confrontarsi.
C. Q.: Per quanto riguarda le difficoltà che ho incontrato, quelle sono state tante, sia produttive, sia pratiche, mentre realizzavo il film. Per tutte le difficoltà che ho avuto, sarebbe stato naturale desistere e decidere di fare un altro film. Questo è sicuramente un aspetto interessante, come quando il ragazzo afgano, reduce dalle peregrinazioni e ancora traumatizzato e insicuro, riceve dalla Commissione un permesso di soggiorno per motivi umanitari che può essere rinnovato per lavoro o per studio. In un certo senso il film è un continuo rimbalzo tra le emozioni profonde dei ragazzi e la macchina organizzativa dell’accoglienza, con le sue contraddizioni profonde.
C.: Rispetto a un film come Cose di questo mondo di Michael Winterbottom, che mescola documentario – meglio, tecniche e stilemi documentaristici – con una gran parte di finzione, come ti poni tu che sembri legata in maniera maniacale all’aderenza al reale, ad una fedeltà verso il vero?
C. Q.: Per quanto riguarda le difficoltà che ho incontrato, quelle sono state tante, sia produttive, sia pratiche, mentre realizzavo il film. Per tutte le difficoltà che ho avuto, sarebbe stato naturale desistere e decidere di fare un altro film. Il film di Winterbottom racconta il viaggio dal Pakistan all’Inghilterra di un giovane afgano attraverso la recitazione degli attori, un copione, dei sopralluoghi, tutto ciò che la macchina cinema prevede per la realizzazione di un film di finzione. Il mio film registra la normalità crudele della vita quotidiana di ragazzi abituati a parlare di trafficanti di vite umane, di viaggi sotto la pancia del camion, di compagni di viaggi morti o dispersi lungo il tragitto, come la scena in cui Mohammad Jan mostra la foto di un uomo disperso, caduto dal camion in corsa in un’autostrada chissà dove. La forza di quella scena è la realtà che si offre davanti la macchina da presa e, nell’evocare quei viaggi tremendi, pone lo spettatore in modo naturale all’inizio di un viaggio: il viaggio dentro quel mondo abituato alla morte e alla privazione dei diritti fondamentali.Parlando più propriamente di cinema, io amo trovare la narrazione dalla realtà stessa, comporre la realtà trovando il filo del racconto, delle storie, mi piace la sfida che si vince quando l’ascolto si compie e allora da frammenti di vita si può trarre l’intimo senso delle cose e restituirlo in una trama, come scritta naturalmente da uno sceneggiatore invisibile.
C.: Alla fin fine i ragazzi più “normali”, quelli con meno problemi, che appaiono in un tuo film sembrerebbero quelli adottati di L’insonnia di Devi che, in realtà, vivono forse la condizione più contraddittoria.
C. Q.: Per quanto riguarda le difficoltà che ho incontrato, quelle sono state tante, sia produttive, sia pratiche, mentre realizzavo il film. Per tutte le difficoltà che ho avuto, sarebbe stato naturale desistere e decidere di fare un altro film. L’insonnia di Devi è un film molto diverso, sia stilisticamente, sia nei presupposti. Lì in qualche modo, pur partendo da una conoscenza giuridica e pur volendo dare voce e volto alle persone adottate sulla questione del diritto all’identità, c’è un approccio totalmente diverso: attraverso le diverse testimonianze di ragazzi di varie età si compone un discorso sulla problematicità delle adozioni internazionali, e sono loro, con il loro parlato, con le loro riflessioni ad alta voce, a dare suggerimenti e indirizzo al film. Lì il punto di vista forte coincide con il punto di partenza del film, cioè la mia domanda a tutti loro: definiamo insieme l’identità di una persona.Rispondendo alla tua osservazione, dico che sulle adozioni internazionali c’è un grande tabù. Ed è quello di non voler mai giustapporre una riflessione sulla condizione dello straniero a quella dell’adottato, perché l’adottato è figlio e quindi nel senso comune la condizione di figlio elimina automaticamente la problematicità della diversità, che spesso è consistente, soprattutto nei ragazzi adottati già grandi. E il film, uscito nel 2001, allora fu un veicolo per i protagonisti stessi, che si sentirono liberi di esprimere anche le inquietudini e i tormenti. A distanza di sei anni da quel film aggiungo che bisognerebbe fare la stessa cosa con i genitori adottivi, fare uscire le grandi paure, perché quando le paure si guardano in faccia, quello è il primo passo per una riflessione che può contribuire a migliorarsi.
C.: Al di là delle condizioni di vita oggettive, secondo te cosa accomuna e cosa davvero separa i giovani protagonisti di Il mondo addosso e di L’insonnia di Devi?
C. Q.: Per quanto riguarda le difficoltà che ho incontrato, quelle sono state tante, sia produttive, sia pratiche, mentre realizzavo il film. Per tutte le difficoltà che ho avuto, sarebbe stato naturale desistere e decidere di fare un altro film. Questa domanda già da sola viola il tabù. Sarebbe molto politicamente scorretto dire che sono entrambi stranieri che hanno in qualche modo subito lo strappo dell’abbandono, ma sarebbe anche superficiale, perché la diversità tra loro è enorme: i giovani migranti hanno una volontà di ferro, hanno scelto di partire, anche se costretti dalle circostanze, hanno un progetto migratorio specifico e le istituzioni, gli educatori dei centri di accoglienza, il tutore, non potranno mai sostituire le figure genitoriali di cui hanno bisogno, a causa dell’abisso che c’è tra un genitore che si dedica a te e uno che lo fa a stipendio e a tempo determinato. In più le persone a stretto contatto con i ragazzi, gli educatori, quasi sempre cambiano e non c’è neanche il tempo di instaurare dei rapporti di fiducia o certamente non di intimità. Per i figli adottivi è totalmente diverso, il più delle volte qualcuno ha deciso per loro quando loro sono molto piccoli e si ritrovano a vivere una vita nell’amore di una famiglia e ad amare i propri genitori adottivi, e la questione si incentra più sull’accettazione o meno di ciò che accadde in origine, l’abbandono da parte dei genitori naturali.
C.: Racconti storie di bambini che sono o radicati fortissimamente sul territorio, all’interno della loro realtà (fin troppo, come ad esempio in ècosaimale?) oppure che sono sradicati dalla propria e trapiantati in un’altra completamente diversa. Si tratta di due facce della stessa medaglia, di due aspetti di uno stesso problema?
C. Q.: Per quanto riguarda le difficoltà che ho incontrato, quelle sono state tante, sia produttive, sia pratiche, mentre realizzavo il film. Per tutte le difficoltà che ho avuto, sarebbe stato naturale desistere e decidere di fare un altro film. Sono due modi di essere al mondo, di formare sé stessi, di costruire la propria storia, che spesso è la storia di una comunità, come nel caso delle giovani protagoniste di ècosaimale? chiuse nel quadrato di un quartiere in un momento storico ben preciso, in una Palermo confusa ed estranea a sé stessa, del cambiamento fine anni novanta, del risanamento del centro storico, delle accuse reciproche e delle immobilità politiche trasversali. Nel caso de Il mondo addosso parlerei piuttosto di un viaggio di formazione nello smarrimento che è la condizione globale di un’epoca in cui libertà di circolazione e spostamento di flussi migratori non coincidono.
C.: Come è nato ècosaimale? Come hai affrontato le riprese?
C. Q.: Per quanto riguarda le difficoltà che ho incontrato, quelle sono state tante, sia produttive, sia pratiche, mentre realizzavo il film. Per tutte le difficoltà che ho avuto, sarebbe stato naturale desistere e decidere di fare un altro film. ècosaimale? l’ho realizzato nell’estate del 2000. Era il mio primo documentario, ed è nato dalla volontà di vivere un certo periodo di tempo tra i ragazzi e le ragazze del quartiere di Palermo in cui ho realizzato le riprese. Volevo riappropriarmi di qualcosa che sentivo fortemente mio, perché quello è un luogo che ho cominciato a frequentare da ragazzina, facendo doposcuola ai bambini. Avevo quindi dentro la volontà di ritrovare gesti, suoni, odori, voci di quei bambini, la cui infanzia è troppo spesso disturbata dal clima non sereno in cui vivono. Non sapevo che avrei anche incontrato la terribile contingenza, cioè gli arresti di molte persone per violenza e abusi nei confronti di molti bambini del quartiere. Fu un duro colpo per Palermo, e ancora oggi se ne parla con un misto di vergogna e incredulità. Io ho raccontato tutto questo senza puntare il dito su nessuno, ma vivendo con le ragazze e le bambine superstiti dalle retate della polizia che avevano portato via i bambini dal quartiere chiudendoli negli istituti.
C.: In ècosaimale? lo spazio dell’inquadratura diventa spesso lo spazio di una lotta e di una competizione tra i bambini: mi pare che la forza del film sia proprio quella di una forma che riesce a ricalcare perfettamente i discorsi fatti dai protagonisti.
C. Q.: Tu vuoi dire che la violenza e l’ambiguità di alcune situazioni ricalcano la violenza evocata da certi discorsi delle bambine, che a volte sono anche ambigui, come quando prendono in giro una coetanea o alludono, giocando, a prevaricazioni e sofferenza. Il film percorre anche visivamente il progressivo avvicinamento tra me e le giovani protagoniste del film; all’inizio la presenza della macchina da presa come elemento con cui le ragazzine si confrontano: per esempio, quando le più piccoline fanno a gara a chi parla per prima con me, poi, pian piano, la prossimità fa sì che loro si dimentichino del tutto della presenza della telecamera e a volte anche della mia presenza.
C.: Premesso che ècosaimale? è il tuo film che ritengo più interessante e riuscito, c’è una parte di sottinteso e non detto riguardo alle violenze che può dare l’idea che il documentario sia guidato da una sorta di gratuità e di gioco. Il discorso sulle violenze è volutamente lasciato “incompleto”?
C. Q.: Sicuramente. Volevo far emergere il clima di ambiguità e di sotterranea paura: nessuno parlava chiaramente degli abusi in famiglia ma tutti sapevano… così le ragazze parlano della loro amica dicendo che è stata violentata, ma non ci sono prove, non c’è un’inchiesta, c’è il fluire tremendo di una normalità fatta di frasi a metà, di accenni, di domande. In questo senso il film non è un film di denuncia, perché non punta il dito contro nessuno, ma di fatto registra comportamenti e fissa immagini di un mondo che di violenza si nutre.
C.: Quanto ha contribuito la presenza della telecamera in ècosaimale? e in Comandare. Una storia Zen a scatenare le varie esplosioni di violenza e a determinare ciò che viene detto e fatto dai ragazzi?
C. Q.: C’è sempre una volontà di rappresentazione, o meglio, di auto-rappresentazione. Ma sia in Comandare. Una storia Zen, sia in ècosaimale? questa volontà è superata dalla verità assoluta delle emozioni dei protagonisti. I due film comunque sono molto diversi, e diversa ero io quando li ho realizzati. ècosaimale? è un film di strada, che vive e si nutre di incoscienza e di istinto, il mio, quello delle bambine, della violenza dei discorsi, delle paure tremende là dove la telecamera non arriva, dove c’è il taciuto. Comandare. Una storia Zen è invece un film dove tutto accade a causa della presenza della telecamera. Mi spiego: se non fossi andata a trovare Anthony dopo tre anni dal nostro primo incontro durante i provini per L’isola e se non gli avessi chiesto di mostrarmi i cavalli di cui aveva parlato tre anni prima, non saremmo andati in quel maneggio. Il dato interessante, per chi analizza il film, è che l’emozione di Anthony nel rivedere i cavalli e il suo percorso di scelta della non violenza è talmente autentico e sorprendente, che spiazza. Questo è il documentario: l’intenzione era quella di sapere cosa ne era stato di un ragazzino che voleva comandare, la scoperta è stata che lui non vuole comandare più; il tutto raccontato attraverso la giustapposizione di accadimenti “fenomenologici” come la scoperta che in quel luogo che lui credeva ormai disabitato è stato costruito un maneggio, e accadimenti emozionali, interni a lui, autentici, che fanno vibrare il racconto e che ci fanno guardare con fiducia anche alle possibilità straordinarie che i film documentari hanno di raccontare in modo non superficiale, o non per forza solo antropologico, l’anima delle persone.
C.: Nei tuoi documentari dimostri una straordinaria capacità di far emergere le storie dalla realtà e, al contrario, ne L’isola c’è una sorta di rifiuto del racconto, del narrare: sembrerebbe quasi che il caos del reale sia ciò che riesce realmente a spingerti nel trovare una direzione narrativa certa, mentre invece quando ti viene offerta l’occasione di raccontare ci sia una sorta di smarrimento di fronte a quella ricchezza che comunque la realtà offre.
C. Q.: La verità è che ne L’isola la storia è solo un pretesto per immergermi e immergere lo spettatore nel corso delle stagioni in un isola che amo molto, Favignana. La trama è leggera: un solco tracciato nella vita di due ragazzi che hanno un’isola per casa, una barca per madre e un porto per padre, pronto ad accoglierli, ma anche a respingerli, quando il mare si infuria e loro due, fratelli, devono imparare a crescere e a farcela da soli. Un solco tra la spensieratezza e le preoccupazioni, la vitalità energica delle corse in bicicletta e la compostezza dei vestitini sotto il ginocchio. Nulla in confronto alla meraviglia della natura e all’aspetto del lavoro, su cui il film si sofferma molto, il lavoro come elemento fondante di un luogo, che offre appartenenza e identità.Ne L’isola il rapporto tra il racconto che viene dalla scrittura (la finzione) e il racconto che viene dai luoghi (la realtà) è dialettico. Ci sono nel film dettagli di realtà in scene di finzione, ad esempio l’emozione della nonna di fronte a Teresa; il suo pianto è vero, in una scena scritta in un copione, e, viceversa, ci sono scene in cui i dettagli sono finti in scene di verità assoluta, come la scena della calata delle reti o della mattanza in cui ho inserito i protagonisti del film tra i veri pescatori dell’isola. Dov’è il confine tra ciò che è vero, e ciò che non lo è? Quando la messa in scena è realizzata in punta di piedi, come succedeva a volte: creavo le situazioni e poi - idealmente - me ne andavo, per registrare le conseguenze e restituirne il sapore nel film, come ad esempio la scena in cui i due ragazzini dimostrano di non sapere scrivere: la scena è che il meccanico Erri De Luca detta loro l’indirizzo del meccanico, il resto l’hanno messo i ragazzi. L’isola è comunque un film sui generis, devo dire che a me piace molto anche il racconto di fiction, quello scritto punto e basta, a casa, senza neanche guardare fuori dalla finestra. Dipende dai film e dalle storie che si vogliono raccontare.
C.: La scelta di un’isola per il tuo film è stata orientata dalla necessità di circoscrivere l’universo narrato, di analizzare una realtà certa, non caotica e virtualmente aperta alle possibilità come quella di un grande centro come Palermo?
C. Q.: Era piuttosto l’isola, quell’isola, non un’isola qualunque. L’isola che poteva contenere tutti i significati del film, l’isola di un isola, la Sicilia, ( in spagnolo il film è uscito con il titolo: La isla de la isla...) in cui c’è un’isola (l’insieme delle reti in cui si raccolgono i tonni per la mattanza), insomma: una realtà chiusa, un mondo dove il rapporto con il mare è fondamentale, un luogo preciso. Non mi è mai passato per la testa che Turi e Teresa potessero appartenere ad un altro posto.
C.: Ho trovato L’isola un film delicato nel descrivere e seguire, quasi contemplare i suoi personaggi: è un modo come un altro per “risarcire” la realtà siciliana e quella infantile della sua ingenuità e bellezza a fronte di un documentario impietoso come ècosaimale?
C. Q.: Probabilmente. La Sicilia è fatta di tante realtà, diverse e contraddittorie fra loro, e nello stesso tempo, quello che racconto in entrambi i film è universale, anche se legato all’identità di un luogo. Ne L’isola c’è una Sicilia che non è mafiosa, ma fatta di lavoratori, un’infanzia che ha ancora paura del buio o dei primi tremori d’amore, un’infanzia che a bassa voce dice: noi abbiamo il diritto di non essere adulti, di non fare gli adulti, di essere come siamo, fuscelli al vento d’estate, fresco sulla pelle accaldata dal sole, pronti a essere meraviglia e stupore, ma anche scelte difficili e confronti. Pronta però a diventare adulta all’improvviso, imparando un mestiere e le regole dei grandi.
C.: Anche il personaggio di Turi suggerisce una lettura di questo genere: si comporta da ragazzo normale, da “adolescente tipo”, chiuso, taciturno, un po’ scontroso, apparentemente privo di interessi e passioni, insomma un personaggio che si lascia poco raccontare. Invece i ragazzini dei tuoi documentari sono infinitamente più interessanti, e non solo in senso strettamente antropologico, anzi proprio dal punto di vista della capacità di affabulare, di raccontarsi allo spettatore: esprimono desideri, coltivano ambizioni, raccontano i propri sogni, dimostrano di possedere un’insospettabile saggezza…
C. Q.: Un giorno, dopo una proiezione, un giovane spettatore mi si è avvicinato e mi ha detto: “questo film mi ha fatto sentire a casa”. Si riferiva al silenzio di Turi, alla sua semplicità, al suo essere non eroe, non vincente, non il primo, ma uno dei tanti ragazzi che, come lui, non sa dare una risposta alla domanda più difficile: qual è il segreto di quel solco invisibile eppure netto tra la vita che era e quella che verrà.
C.: L’identità è una questione che torna in tutti i tuoi film, nel modo più forte ne Il mondo addosso e in L’insonnia di Devi, ma anche in Comandare. Una storia Zen o in ècosaimale? Un’identità che si costruisce attraverso percorsi spesso molto diversi: attraverso il sopruso – subito e perpetrato – ma anche attraverso una lenta, paziente opera di integrazione in una realtà estranea. Al di là di facili generalizzazioni, sembra quasi che per chi è costretto a partire da zero (gli immigrati, gli adottati) sia paradossalmente più semplice costruirsi un’identità…
C. Q.: E’ un tema ricorrente, è vero. Ho parlato di questo anche nel film di tre parti per RaiTre Raìz. Radici a Capoverde, che racconta la saga di una famiglia matriarcale di origine capoverdiana che vive a Roma. Lì il problema delle seconde generazioni è enorme e bisogna non sottovalutarlo, come dimostrano i fatti francesi…
C.: Hai incominciato con la finzione e poi sei passata prevalentemente al documentario: cosa ha determinato questa (parziale) conversione?
C. Q.: Ho scelto di fare ogni mio film documentario, e ho realizzato questi film con lo stesso orgoglio e la stessa determinazione che avrei messo in un film di finzione. Questa è stata la mia strada, anche se riconosco che molti registi considerano il documentario una forma di ripiego, se non riescono a fare un film… ed è lì che poi assistiamo allo scempio del documentario, come genere cinematografico che può avere tante facce, tante forme, terreno interessantissimo da esplorare.
C.: C’è sempre nei tuoi film la volontà di far emergere il lato migliore delle cose, quello più positivo: comunque mai quello rassegnato. È come se la documentazione della realtà costituisca già un passo avanti, una presa di coscienza e d’atto della condizione che, per questo, diventa così più accettabile. Condividi questa analisi?
C. Q.: Un film è un punto di partenza, non di arrivo. Un film pone domande, non ha soluzioni o certezze da proporre, ed è questo che mi piace, offrire strumenti di riflessione, non slogan e basta. La sfida più grande è poi fare questo nel rispetto degli altri: è facile trovare il lato brutto delle cose, in un mondo in cui le storture sono così tante e dolorose; quello che cerco è il lato migliore, quello su cui si può fare un ragionamento, su cui si può lavorare, per una soluzione possibile, uno sguardo possibile su questo nostro paese.