A una prima, rapida e superficiale occhiata i documentari di Costanza Quatriglio si potrebbero agevolmente dividere in due tipologie nettamente diverse, quasi opposte: da un lato una serie di film di natura sperimentale, che lavorano più per via di sottrazioni ed allusioni nei confronti del soggetto affrontato e che affascinano il pubblico in virtù della loro capacità di suggestione, dall’altro una serie di prodotti di carattere più scientifico e istituzionale, basati su un approccio razionale al tema studiato, funzionali nel destare l’interesse dello spettatore grazie alla loro profondità e chiarezza analitica. Una divisione semplicistica che vedrebbe la regista alternare ad una ricerca intima e personale, ad un proprio percorso d’autrice sostanzialmente autoreferenziale l’impegno sociale, l’interesse per specifiche problematiche e per un cinema davvero necessario. La realtà è che questi due possibili approcci alla materia da rappresentare si integrano tra loro, completandosi a vicenda all’interno di una concezione del documentario come scoperta, volontà di far emergere dalla marginalità i protagonisti e le protagoniste dei film, usando di volta in volta gli strumenti più idonei Leggere tra le righe dei discorsi, seguire fisicamente i soggetti (in ècosaimale?, Il bambino Gioacchino, Comandare. Una storia Zen) oppure farli parlare e riflettere razionalmente sulla loro condizione (L’insonnia di Devi, Il mondo addosso) diventano, così, due “tecniche” (che inevitabilmente corrispondono anche a due “stili” molto diversi) sovrapponibili e spesso indistinguibili all’insegna di un pragmatismo di fondo che si mette sempre al servizio del soggetto tentando di coglierne gli aspetti meno ovvi. Del resto, il cinema della regista è sempre stato lontano dall’ovvietà: ripercorrendo la sua filmografia emergono le contraddizioni tipiche del nostro Paese ma, alla fine, comuni ormai al mondo globalizzato. È singolare accostare un film come L’insonnia di Devi, con i suoi protagonisti all’apparenza perfettamente integrati, bambini e adolescenti prevalentemente di origine indiana che parlano un italiano senza inflessioni e che si interrogano con estrema serietà sulla propria identità, riuscendo a far emergere riflessioni significative non solo per chi vive una condizione del tutto particolare come la loro ma per chiunque, a Comandare. Una storia Zen, documentario che testimonia una condizione di marginalità, di estraneità rispetto alle dinamiche tipiche dell’adolescenza di un ragazzo palermitano del quartiere Zen capace di riflettere, in dialetto siciliano, ma con altrettanta profondità, sulla propria condizione e sui meccanismi specifici della vita sociale in contesti estremamente degradati. In questi, così come negli altri documentari della Quatriglio, è fondamentale il tema della ricerca dell’identità, sintetizzata proprio da quelle figure di bambini e adolescenti che attraversano costantemente le inquadrature dei suoi film. Identità giuridica, sociale, culturale, affettiva: sono le tessere di un mosaico complesso che riflette solo in parte le difficoltà che i protagonisti incontrano per trovare un proprio equilibrio, una dimensione al cui interno potersi realmente riconoscere, grazie alla quale poter affermare la propria unicità di individui e, allo stesso tempo, sentirsi parte di un insieme più complesso e articolato capace di accoglierli. Una ricerca che, con la sola eccezione di Il bambino Gioacchino, è sempre traumatica, ogni volta in modo diverso: si va dal trauma della separazione dalla famiglia di origine comune ai ragazzini adottati di L’insonnia di Devi e agli adolescenti migranti di Il mondo addosso, fino a quello delle violenze subite dalle bambine di ècosaimale? proprio in seno al degrado di famiglie troppo chiuse; dal trauma dello sradicamento dalla propria cultura di appartenenza (ancora in L’insonnia di Devi e in Il mondo addosso) fino a quello determinato dalla volontaria rinuncia alla violenza e alla sopraffazione proprie di una certa cultura di stampo mafioso in Comandare. Una storia Zen. Il cinema della regista siciliana è sempre pronto a registrare i faticosi e necessari percorsi di ricostruzione identitaria dei ragazzi e delle ragazze, a mettere loro a disposizione la macchina da presa come strumento di rispecchiamento e riconoscimento, di esplorazione “guidata” di se stessi e, soprattutto, delle proprie emozioni Il tema dell’identità e delle scelte ritorna anche nell’unico film a soggetto girato finora dalla regista, L’isola. Anche in questo caso la base da cui parte la Quatriglio è fortemente antropologica e documentaria, essendo il film girato interamente sull’isola di Favignana, estremo confine occidentale della Sicilia, in parte con attori non professionisti e affidando una parte importante del senso della storia narrata al rapporto tra individuo e natura. Il tema principale è, ancora una volta, la dialettica tra una tenace memoria storica, una cultura apparentemente ineludibile, che lega gli individui al territorio vincolandone le scelte, e la necessità da parte dei giovani protagonisti di rompere i limiti di quella tradizione per crescere, differenziarsi dalle scelte dei padri. Si tratta di scelte necessarie, traumatiche, anche se non obbligate da fattori contingenti come quelli con i quali si confrontano i protagonisti degli altri documentari: in questo caso, infatti, è la natura con tutto il suo portato di simboli a costituire una sorta di specchio riflettente dei comportamenti dei ragazzi e a stemperare in un orizzonte più accettabile e “naturale” le asprezze della vicenda narrata.