The Breakfast Club

di John Hughes (USA, 1985)

Sinossi

Cinque studenti di un liceo dell’Illinois (tre ragazzi e due ragazze) sono costretti a trascorrere per punizione l’intera giornata di un sabato nella biblioteca della scuola, sorvegliati da un professore dispotico e da un bidello. Dovrebbero scrivere un componimento sulle proprie aspirazioni ma non fanno altro che farsi dispetti e insultarsi, ognuno chiuso nelle proprie angosce. Diversissimi l’uno dall’altro ma tutti accomunati da problemi familiari più o meno gravi, riescono progressivamente a conoscersi e ad aprirsi in una sorta di terapia di gruppo. Al termine della giornata nasceranno nuove amicizie e nuovi amori all’insegna di una diversa consapevolezza dell’irriducibilità del proprio mondo a quello degli adulti.

Presentazione Critica

Vero e proprio specchio della società e, naturalmente, dei suoi problemi, la scuola ha avuto sempre nel cinema statunitense largo spazio, grazie anche alla possibilità che offre di riunire in una medesima situazione caratteri e tipologie sociali profondamente diversi, e di mettere così in evidenza i conflitti e le tensioni di attualità. Gli anni Cinquanta hanno visto le aule scolastiche diventare lo scenario di uno scontro tra l’autorità costituita, rappresentata dai docenti, e ribelli più o meno senza ideali, avanguardie di un malessere giovanile che sarebbe esploso un decennio più tardi nelle contestazioni della fine degli anni Sessanta. Il cinema d’oltreoceano degli anni Ottanta non smette di interessarsi alla scuola ma, nella maggior parte dei casi, la utilizza come palcoscenico per farse più o meno sboccate e dirette essenzialmente a un pubblico adolescente e goliardico, privo, forse solo in apparenza, di quei problemi che affliggevano le generazioni precedenti. Ecco perché Breakfast Club presenta alcuni elementi di originalità e si distingue dalla tendenza generale del periodo con il suo tentativo di mettere in scena pensieri, confessioni, incertezze di una generazione a prima vista spensierata. L’assortimento dei cinque personaggi rappresenta una svolta notevole rispetto ai drammi scolastici di alcuni decenni prima: non è tanto il conflitto tra classi sociali diverse a dominare la scena quanto quello tra caratteri differenti, differenti atteggiamenti nei confronti della vita. La contestazione, quando c’è, non è più contro un sistema di valori o una morale autoritaria (gli unici adulti che compaiono nel film, del resto, sono un professore ipocrita e isterico, declassato a sorvegliante, e un bidello nichilista che, atteggiandosi a filosofo, ruba la scena all’insegnante), ma ricalca stancamente gli stereotipi, per lo più cinematografici, di un ribellismo solitario, datato e decisamente sterile. È su un altro piano che il film gioca le sue carte migliori: ben presto, infatti, il gioco al massacro iniziale, che pare non contemplare la possibilità di alleanze tra i membri del gruppo, lascia il campo aperto ai toni della confessione intima e dell’introspezione psicologica. A ben vedere (e l’andamento drammatico fa di tutto per dimostrarlo) se i cinque protagonisti partono da posizioni specularmene opposte, con il passare del tempo dimostrano di avere molti più punti in comune di quanto non si potesse supporre: l’estrazione sociale non conta, dicevamo, anche perché alla base dell’infelicità della ricca e viziata Claire ci sono i medesimi problemi che affliggono il povero e ribelle John (e i due, non a caso, faranno coppia nel finale). Non è più la società ma la famiglia (quasi tutti i ragazzi sono vittime dei conflitti tra i genitori) a essere assolutamente impreparata di fronte a giovani che cercano più certezze che libertà. La difficoltà più grande, del resto, è quella di definirsi, di dare un nome fosse anche soltanto al proprio disagio, e l’elaborato che è stato loro assegnato per punizione (scrivere un componimento su ciò che vorrebbero diventare) sarà emblematicamente assolto da uno soltanto di loro a nome di tutti, un segno ulteriore della sostanziale interscambiabilità dei ruoli all’interno del gruppo. Ciò che emerge è il ritratto di una generazione che teme tanto di affrontare alla radice i propri problemi quanto di soddisfare i propri desideri (il sesso, ad esempio, è sbandierato ma solo a parole) ma che forse, più della generazione precedente, è disposta a mettersi in gioco realmente e al di fuori da schemi e sovrastrutture ideologiche. John Hughes scrive e dirige un film che, rifacendosi direttamente agli stilemi del teatro da camera del secondo dopoguerra (Harold Pinter sembra essere il suo referente più diretto), tenta di scavare nella realtà psicologica dei personaggi attraverso i dialoghi, apparentemente naturali ma in realtà abilmente costruiti. Il risultato purtroppo è inficiato dal finale che, frettolosamente, vede nascere coppie improbabili dai caratteri opposti, quasi a titolo di risarcimento tanto estremo quanto posticcio di una descrizione che, solo a tratti, riesce a essere realmente impietosa. Fabrizio Colamartino