Basta guardare il cielo

07/04/2010 Tipo di risorsa Schede film Temi Disabilità Sviluppo psicologico Titoli Rassegne filmografiche

di Peter Chelsom

(USA, 1998)

Sinossi

Cincinnati. Il piccolo Kevin Dillon, affetto da una rara sindrome che lo costringe a camminare ingobbito sulle stampelle, si trasferisce, con la madre Cwen, nella casa accanto a quella dove Maxwell abita con gli anziani nonni. Max ha 13 anni, un probabile ritardo mentale e il fisico gigante di un ventenne. Ha problemi di interazione con i compagni, è un fifone e non riesce ad adattarsi. Max ha inoltre un pesante passato alle spalle. Il padre, ora in carcere, anni prima aveva ucciso violentemente la madre. Solo l’incontro con Kevin lo fa diventare più sicuro di sé e più felice.. Egli dà le gambe a Kevin, mentre in cambio ottiene un cervello. Ispirati dalle gesta di Re Artù e dei suoi Cavalieri della Tavola Rotonda, di cui leggono i racconti insieme, i due vanno alla ricerca della nobiltà d’animo e del bene. In un bar difendono una donna picchiata da un uomo, di notte recuperano una borsa rubata ad un'altra donna. Il padre di Max esce però dalla prigione e rapisce il figlio. Solo Kevin, che conosce bene l’amico, sa ritrovarlo. Grazie a lui il padre viene di nuovo incarcerato. Quando sembra che i due possano finalmente vivere un’adolescenza felice, la malattia di Kevin, come previsto, si aggrava e il ragazzino muore. Per Max è un trauma, un colpo così improvviso e duro, tale da spingerlo a scrivere - lui che fino a pochi mesi prima non sapeva neanche leggere - un libro ispirato alle avventure di re Artù e ai giorni passati insieme a Kevin. Per Max è l’unico modo per trovare una ragione alla scomparsa del suo unico amico.

Presentazione critica

Una frase incorona il film, ne dà il senso ultimo del racconto e la pronuncia il piccolo Kevin seduto sulle spalle del piccolo-grande Max. “Siamo uno storpio”, intendendo che insieme, sommati l’uno con l’altro, i due ragazzi non diventano una persona normale, ma semplicemente sommano i loro handicap. Basta guardare il cielo è uno dei pochissimi esempi, nella cinematografia mondiale degli ultimi cinquanta anni, in cui si racconta l’incontro tra due ragazzi di handicap diverso. Forse per la difficoltà di trattare con la dovuta introspezione profili attoriali complessi, forse per la facilità di cadere nel patetico e nel poco verosimile, forse per la paura di non essere seguiti dagli spettatori, il cinema ha quasi sempre affrontato l’incontro tra il diverso e il normale, tra l’handicappato e il normodotato o piuttosto ha raccontato storie collettive di disabili, preferendo sempre soffermarsi sul contrasto tra diversità e normalità, e sottolineando il più delle volte come sia colui che non è affetto da handicap a dover imparare dal disabile e non viceversa. Basterebbe citare, tra le tante, pellicole come Anna dei miracoli, L’ottavo giorno o Rain man nel caso dell’incontro tra un portatore di handicap e una persona “sana” o La mela e Gli esclusi nel caso di racconti collettivi di disabili. La pellicola invece si basa sullo scontro-incontro tra un ritardato e uno storpio – avventurandosi dunque in territori ancora poco esplorati – sul loro vano tentativo di completarsi, vicendevolmente. Le lunghe sequenze in cui Max e Kevin stanno l’uno sull’altro (quando camminano nel corridoio della scuola, giocano insieme a basket, quando attraversano le strade della città) dimostrano l’attenzione della produzione per il loro rapporto privilegiato che è poi da una parte un’iniziazione all’immaginazione (quando Kevin chiede a Max di immaginare i cavalieri di re Artu) dall’altra un racconto sulla possibilità di essere altro rispetto ai propri genitori (Max si rifiuta di essere come il padre assassino, Kevin non ha nemmeno conosciuto il proprio genitore) e di avere un proprio destino da costruire. Il film purtroppo, come molti titoli che guardano agli adolescenti come pubblico privilegiato e insieme tonto e quindi non come soggetto critico o che sono pensati e studiati per essere gradevoli in una prima serata televisiva, è schematico e alla fine poco coraggioso. Manca di audacia nel non affidarsi completamente al carattere favoleggiante del racconto (splendida, ma malauguratamente isolata, la scena in cui i due ragazzini attraversano un ponte attorniati dai cavalieri medievali), nel consegnarsi a scene di facile e scontato coinvolgimento spettatoriale (la musica è per certi versi assordante, e poi alcune parti, come l’incontro di basket o quella dove Kevin va a salvare Max guidando un furgone, sono francamente eccessive), nel avvalersi di simboli un po’ obsoleti o abusati (come il biplano meccanico che richiama l’idea di libertà, le stampelle abbandonate a terra quando finalmente Max si mette sulle spalle Kevin). Kieran Culkin, Kevin nel film, è uno dei tanti piccoli attori della famiglia Culkin (fratello non solo del famoso Macaulay di Mamma, ho perso l’aereo e L’innocenza del diavolo, ma anche di Rory, co-protagonista di Conta su di me di Kenneth Lonnergan e della piccola Quinn, anche lei attrice in L’innocenza del diavolo), che ha rappresentato il volto dell’infanzia americana negli anni novanta, quasi come Shirly Temple o Mickey Rouney lo erano per gli anni trenta. Tra l’altro il nome del suo personaggio, Kevin, è lo stesso che il fratello Macaulay ha nel ‘sequel’ di Chris Columbus. Appare abbastanza evidente la “contro-citazione” del film. Se il Kevin di Mamma, ho perso l’aereo appariva insopportabilmente infallibile, preciso nella sua capacità di sconfiggere i cattivi, terribilmente fortunato, il Kevin di Basta guardare il cielo, quasi a rivendicare l’autenticità della condizione infantile, spesso precaria, indifesa, ma ugualmente intelligente e abile, è incapace di camminare sulle proprie gambe. Alcune scene riproducono addirittura situazioni filmiche contrapposte: si vedano quelle del Natale, che in Mamma ho perso l’aereo anticipano l’happy-end finale mentre qui precedono la morte di Kevin oppure si veda la discesa sulla neve del Kevin di Basta guardare il cielo che, a differenza di quel che succede all’omonimo ragazzo del film di Columbus, impegnato in avventure pericolosissime ma, in definitiva, innocue, finisce quasi tragicamente con la sua caduta a terra. Tuttavia in Basta guardare il cielo il tentativo di trattare l’infanzia in maniera meno ammiccante e più profonda, pur se ammirevole, non può dirsi però completamente riuscito. Marco Dalla Gassa

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