di Nina di Majo
(Italia, 1999)
Sinossi
Nella cornice della Napoli contemporanea, il film narra tre storie all’apparenza molto diverse. Matteo, sedici anni, cresce nell’opprimente atmosfera alto-borghese della sua agiata famiglia, frustrato da una madre nevrotica e possessiva, ignorato da un padre che pensa solo al proprio lavoro. Costanza, figlia di un intellettuale che la vorrebbe avviare alla carriera universitaria, vive sotto il peso delle aspettative del padre: interrotti gli studi per paura degli esami, sfoga la sua mancanza di autostima nella scrittura di un racconto, ma perde anche l’unico legame affettivo, quello con il suo fidanzato. Betta, zia di Costanza, ha quarant’anni e vive nell’illusione di mantenere in piedi il suo rapporto con un uomo che la tradisce con una donna più giovane di lei.
Presentazione critica
Il dato di più evidente interesse in quest’opera prima di Nina di Majo è la capacità che il film ha, nonostante l’ambientazione e i personaggi (soprattutto quelli di Matteo e Costanza) scelti per rappresentare il microcosmo esplorato, di sottrarsi a una serie di stereotipi. Napoli e i giovani sono stati, forse per troppo tempo, due elementi ampiamente sfruttati dal cinema italiano, specie se poi abbinati e calati in un generalizzato contesto di degrado sociale e delinquenza. All’altrettanto comune e opposta tendenza a mettere in evidenza estroversione e vitalità tipiche del mondo partenopeo, la giovanissima regista risponde attraverso una serie di scelte che si rivelano fondamentali per la riuscita del film. I personaggi principali di Autunno; infatti, fanno tutti parte di un ambiente alto-borghese, colto e raffinato, nei confronti del quale è difficile cedere a un vero e proprio sentimento di compassione: pur essendo portatrici di un male oscuro dell’esistenza sicuramente straziante e degno di rispetto, le figure del racconto sono segnate – prima fra tutte quella di Costanza, interpretata dalla stessa autrice – da una freddezza così poco meridionale che spiazza lo spettatore alla ricerca di facili e conosciuti appigli cui aggrapparsi per orizzontarsi in un film che, intelligentemente, smentisce le proprie origini senza, tuttavia, tradirle. È in particolare dalla capacità di mettere in relazione i personaggi con lo spazio domestico e urbano – che la giovane regista sembra aver acquisito attraverso le collaborazioni a diversi film del regista napoletano Mario Martone – che emerge, con maggior evidenza, il senso di solitudine e sconfitta caratterizzante il racconto. Girato quasi tutto in interni, il film riesce a comunicare un senso di claustrofobia che è prodotto non tanto dall’angustia degli spazi abitati dai personaggi, quanto dall’ordine maniacale che vi regna, quasi a smentire la presenza della vita di persone reali. La casa dei genitori di Matteo, in particolare, è una sorta di piccolo museo all’interno del quale il ragazzo si aggira annoiato, vero e proprio corpo estraneo in uno spazio inagibile perché sottratto, dalle mille suppellettili presenti, alla possibilità di una fruizione quotidiana. L’incapacità di esprimere i propri sentimenti e le proprie emozioni emerge proprio dal rapporto ambivalente che Matteo intrattiene con lo spazio domestico: egli passa il suo tempo a spiare con un cannocchiale i suoi dirimpettai o a nascondersi sotto i mobili antichi che arredano la casa alla ricerca di un rifugio dall’ossessiva presenza della madre. Questi due atteggiamenti – osservare senza essere visti, nascondersi alla vista degli altri – sono entrambi la realizzazione simbolica di una nevrosi che costringe Matteo a mettere una distanza spaziale, che è anche emotiva, tra sé e gli altri, tra sé e le proprie sensazioni, una sorta di meccanismo di autocensura che gli impedisce di prendere contatto con il mondo. I suoi reali sentimenti nei confronti della realtà possono, così, emergere solo attraverso l’immaginazione: in una delle prime sequenze del film egli dice a un suo compagno che i genitori sono stati rapiti da alcuni malviventi; nell’ultima lo vediamo colpire sua madre e poi fuggire a perdifiato per le vie della città. Si tratta, in tutti e due i casi, di invenzioni, di proiezioni dei desideri più reconditi e inconfessati, inesorabilmente destinati a restare privi di realizzazione: al termine della fuga ritroviamo Matteo, come al solito, rannicchiato sotto un mobile, in un estremo e disperato tentativo di difesa da una realtà opprimente. Pur se prive di qualsiasi legame narrativo con la storia di Matteo, quelle di Costanza e Betta sembrano invece ritrovare il proprio senso all’interno del racconto proprio come proiezioni future delle nevrosi del più giovane tra i protagonisti: la loro incapacità di comunicare con gli altri, l’impossibilità di gioire delle proprie conquiste (Betta potrebbe dare una svolta alla sua vita sentimentale attraverso il rapporto con un vecchio conoscente dal quale, però, si allontana) e dei propri successi (Costanza riesce a vincere un concorso letterario, ma neanche questo serve a risollevarla dalle proprie insicurezze) sono il segno di una condizione all’interno della quale c’è solo la possibilità di “raffinare” il proprio male di vivere sublimandolo, come fa Costanza attraverso la scrittura del suo racconto, o estenuandolo, com’è nel caso di Betta, in una condizione di perenne frustrazione affettiva e sessuale.
Fabrizio Colamartino