Adolescenti nel cinema: anime sofferenti

Cause senza ribelli

di Emiliano Morreale*

 

Pubblichiamo integralmente l’articolo di Emiliano Morreale sulla rappresentazione dell’adolescenza e della ribellione nel cinema statunitense a cavallo tra gli anni Ottanta e i Duemila inserito nello speciale di SegnoCinema “Filming (in) America. Raccontare gli Stati Uniti dopo il 9/11”. Si ringrazia la redazione di SegnoCinema per la disponibilità alla pubblicazione del materiale.

1. II cinema americano ha una posizione fortunata nel raccontare l’adolescenza, che gli deriva da una solidissima tradizione letteraria. Quella tradizione lontana che, come mostrava Leslie Fiedler, per motivi tutt’altro che candidi, fa si che i grandi classici della letteratura nordamericana siano anche “libri per ragazzi” (Huckleberry Finn, Moby Dick); quella tradizione, che nel Novecento ha dato non solo Il giovane Holden, ma anche James Purdy e Barthelme. Dopo le ubriacature speculari del minimalismo e dell’ironia postmoderna iperletteraria, a partire dagli anni Novanta, una nuova generazione ha affondato le radici del proprio immaginario in una rivisitazione dell’infanzia, spesso violata, sommersa di oggetti, in una desolazione sarcastica di uno stile che si potrebbe definire “neotragico”: David Foster Wallace, A. M. Homes, Donald Cooper, Jeffrey Eugenides, Rick Moody, Denis Johnson, Jonathan Lethem, Donald Antrim, Aimee Bender. Alcuni di questi romanzi, di valore anche diseguale, sono diventati film (La sicurezza degli oggetti,Il giardino delle vergini suicide, Jesus’ Son, Ogni cosa è illuminata), ma più interessante ancora è la consonanza tra questi scrittori e molti registi coetanei o di poco più giovani. E forse più ancora della letteratura, negli ultimi anni i risultati più interessanti sono venuti dalla graphic novel con un capolavoro come Blankets di Craig Thomson (il più bel “film” sul Midwest degli ultimi decenni) o David Boring e Ghost World di Daniel Clowes, o certi lavori di David Mazzucchelli (Big Man e l’adattamento di Città di vetro). Se in Italia il pubblico non compie magari questo collegamento, è certo invece che il dialogo con narrativa e fumetto è centrale nelle ultime generazioni di registi, nella imagery di registi come Sheinberg o Wes Anderson, per non dire di quelli che più esplicitamente s’ispirano al fumetto come Terry Zwigoff di Ghost World (e a proposito, ricordiamo anche molte locandine “fumettistiche”, fino a quella di Palindromes di Todd Solondz). Ed è questo uno degli elementi stilistici più interessanti. Il confronto con la narrativa e tutt’altro che prono, e nei casi migliori riflette, proprio nel caso di racconti crudeli della giovinezza, una serie di affinità trasversali che rappresentano il meglio di una, o più, generazioni. (Non che in Italia non si potesse fare lo stesso, i fumettisti o gli scrittori, per non dir dei teatranti, non sono certo inferiori a quelli statunitensi, ma la questione e un blocco produttivo e culturale, una strettoia di immaginario di questi anni dalla quale chissà se e quando si passerà). Nel cinema, insomma, paradossalmente raccontare gli adolescenti significa confrontarsi con modelli alti, rielaborare tradizioni gloriose. II gioco sta appunto nel rimando da questa tradizione sedimentata alla freschezza del racconto dei giovani, al livello di trasporto, empatia, transfert che il raccontare i giovani comporta.

2. I giovani americani dagli anni Novanta in poi, inutile negarlo, sono spesso molto simpatici, complessi, profondi e curiosi. Niente a che vedere con quelli degli anni Ottanta, tutti monodimensionali e baldanzosi, reazionari fin dalla nascita in contrapposizione con la generazione dei padri (chi si ricorda il Michael J. Fox di Casa Keaton e poi di Ritorno al futuro?). Alcune sensibilità, a meta anni Novanta, ci hanno fatto tirare un sospiro di sollievo. Ricordo la boccata d’aria che sembrò, a molti della mia generazione cresciuta negli anni Ottanta, perfino la generazione grunge o un piccolo film come Clerks (1994). Una decina d’anni fa, alcuni registi sono stati pionieri insuperati nell’investigazione (e nella creazione) di nuovi modelli di sensibilità legati profondamente a sguardi giovani. Nel decennio precedente, il giovanilismo era stato anzitutto una chiave per sciogliere il dilemma tra un “ritorno all’ordine” stilistico dopo gli azzardi dei registi degli anni Settanta, andati incontro a emblematici fallimenti a cavallo del decennio (1941 - Allarme a Hollywood, I cancelli del cielo, Re per una notte, Un sogno lungo un giorno...). La Amblin di Spielberg era stata il modello più astuto ed efficace di un cinema esplicitamente regressivo, con i suoi goonies e i suoi giovani Sherlock Holmes, i suoi ritorni al futuro e gli horror edulcorati per adolescenti. Mi piace pensare che invece il regista più rappresentativo del meglio degli anni Novanta sia, in questa direzione, il Tim Burton di Edward mani di forbice e Beetlejuice, e alcuni bei modelli di divi, poi variamente infrantisi, come Christian Slater (ricordate Pump Up the Volume e Schegge di follia?) e soprattutto Johnny Depp, un divo che di nuovo nel cinema attuale non pare avere altro spazio se non quello di simpatico buffone nei film di pirati.

3. Ma l’affondo più duro, a fine decennio, e stato quello di Todd Solondz, con Fuga dalla scuola media, Happiness e Palindromes, il più radicale e insieme il più interno alla tradizione. Indicativo anche nel suo nichilismo e nella sua non-volontà di essere un ribelle, nell’essere quasi più filosofo che “politico”: i risultati migliori del cinema americano che ha raccontato adolescenti e giovani sono venuti quando questi sono stati assunti fino in fondo come sfide, protagonisti e punti di vista, come vero e proprio centro, metafora, come qualcosa che mostri cosa non tiene nel sistema. Il rigore di Solondz può essere contrapposto al modello, intelligente ma ormai scontato, dei film Sundance, festival diventato un marchietto di qualità indipendente per titoli che in fondo mettono in circolo un immaginario innocuo e di seconda mano. Eppure, va detto che molto spesso nei film “stile Sundance” c’e qualche osservazione sensibile, uno sguardo sincero su famiglie disastrate, o anche l’assunzione di quel punto di vista intrinsecamente d’opposizione di cui si diceva sopra: si pensi a film come Me and You and Everyone You Know (un Solondz molto edulcorato), Il calamaro e la balena o il meno convincente Schegge di April. Ma prima ancora di Solondz, e con un senso di maggiore continuità con l’eredità della controcultura (del resto, e nato nel ‘52), il percorso più interessante era stato quello di Gus Van Sant, specie con il suo esordio Drugstore Cowboy. Ma se Belli e dannati rischiava già la maniera e alcuni suoi film mainstream volgarizzavano qualcosa che rimaneva pur sempre il nucleo profondo di un’ispirazione vera (Scoprendo Forrester, Will Hunting – Genio ribelle), il suo ritorno a Portland e all’adolescenza con Elephant ha avuto il sapore di un ritorno adulto. Per valutare appieno quanto la freddezza di Van Sant fosse in realtà una dolorosa lucidità, quanto il suo raffinato manierismo fatto di piani-sequenza fosse la messa in gioco della propria dolorosa impossibilità di artista ad amare quei giovani, basta confrontare il suo film con il lepido cinismo di Election di Alexander Payne, film efficace ma tutto di testa con al centro una “ragazzina cattiva”, o con il superficiale e brioso Le regole dell’attrazione di Roger Avary, regista talentuosissimo ma privo di una vera temperatura morale, e in fondo estraneo al mondo che racconta. In questa direzione, molto più dei sensazionalismi di Larry Clark (Kids, Ken Park), colpiscono alcuni tentativi, variamente falliti ma generosi, di trasformare dall’interno sottogenere del film da college erede dei Porky’s, quello di American Pie per intenderci: una commedia malinconica come Orange County di Jane Kasdan, ad esempio, o Napoleon Dynamite e lo stesso Thumbsucker – Il succhiapollice. Ed è curioso che in quest’ambito, mentre al cinema americano risulta sempre più inapplicabile la nozione di autore, ci siano stati dei percorsi intelligenti, coerenti, dei registi che hanno cercato di crescere o di non deperire: come Sofia Coppola, il cui risultato più ingenuo e più bello continua a sembrarmi Il giardino delle vergini suicide, e che si è fatta più ambiziosa e furba man mano nel blakedwardsiano Lost in Translation e nel cool Marie Antoinette, ma che ha un rapporto coi propri personaggi non scontato, appassionato. Ugualmente à la page era stato, a inizio Duemila, I Tenenbaum di Wes Anderson, unico erede diretto della scrittura dei Barthelme e dei Cheever, e godibile quasi solo come raffinata divagazione letteraria in stile “New Yorker”, creazione di un mondo colorato e artificiale che cela in fondo la nostalgia per una commedia e una letteratura degli anni ‘60 e ‘70, che potevano permettersi ordinariamente certe libertà che oggi sembrano incredibili.

4. In generale, il ritratto dei “figli” nel cinema americano è abbastanza preciso, e come si diceva anche vitale, in fondo centrale come sfida continua, spostamento di sguardo. Non ribelli, ma sofferenti, questi ragazzi ci appaiono figli dei dark, in alcuni casi hanno la saggezza e la pulizia che manca ai loro padri, e il loro esserci silenzioso, senza sbocco è spesso una critica radicale, spiazzante. Questi ragazzi patiscono non solo i drammi della crescita (intesa come fine dell’innocenza), ma anche le sirene, ben giustificate, di un nichilismo radicale, di un rifiuto muto e complessivo dell’America com’è oggi. Non stupisce che in questa chiave introflessa diventi fondamentale il ruolo del sesso, della sua dolorosa, inquieta esplorazione; un sesso che non ha più niente di liberatorio ma che è uno dei percorsi fra i tanti in cui destreggiarsi senza perdersi. Circondati dalle merci, i ragazzi dei film americani ne sanno tutta l’infinita tristezza e non hanno nessuna voglia di ribellione frontale, ma nemmeno di giocarci. Tutto quello in cui possono sperare e un contro-uso della società e delle merci, dei percorsi spontanei che si costruiscono man mano spiazzando quel che la società si aspetta da loro. Si pensi alla quieta tristezza che torna nello stile di un regista che ha appunto formato il proprio occhio sull’osservazione dei “fratelli minori”, poco più che trentenne David Gordon Greene di George Washington, Physical Pinball, All the Real Girls, con i suoi ragazzi di provincia. (Spesso l’adolescenza è legata alla provincia, e viene il sospetto che a little town o il sobborgo siano spesso il correlativo oggettivo di un’innocenza sul punto di perdersi). E comunque, per i più intelligenti degli autori americani, guardare i giovani e guardarsi nei giovani significa anche prendere di petto gli anni Ottanta, tornarci su: è cosi per due film molto belli e diversissimi come Donnie Darko (uno dei film che più bisognerà tornare a vedere per capire i nostri anni) e Mysterious Skin di Araki (anche questo tratto da un bel romanzo, di Scott Heim), o come il Jarmusch di Broken Flowers, che i figli li tiene giustamente fuori campo per tutto il film e ne mostra due possibili, verso la fine: uno che è quello che tanto vorremmo e un altro ciccione e ottuso che forse è quello vero (e infatti è il vero figlio del regista). La verità è che, per capire davvero il punto in cui rappresentazione e autorappresentazione, modelli della cultura di massa e adesione s’incrociano al meglio, non bisogna guardare al cinema ma alla Tv, e non a quella “di qualità” e di massa, di ricerca e popolare, alla 24 o Lost, ma a quei prodotti più bassi e seriali che mostrano invece una forte continuità con il finto-moralismo, rampantismo e il giovanilismo che potremmo pensare di esserci lasciati alle spalle. Comunque, nel cinema giovanilista e nell’interesse dei registi americani per i loro figli e fratelli minori, mi pare si possa vedere tranquillamente uno dei maggiori segni di vitalità del cinema americano oggi, che per il resto, nella sua struttura produttiva complessiva, non ha davvero niente di appassionante.

 

* pubblicato in SegnoCinema n.146, Luglio – Agosto 2007, pp. 29-31