Adolescenti e preadolescenti: povertà

Le linee d’ombra: l’incerto statuto di adolescenti e preadolescenti sulla soglia della povertà

di Fabrizio Colamartino*  

Introduzione

Un tempo il cinema poteva trarre spunto per le sue narrazioni da una realtà sociale che vedeva contrapporsi a una piccola élite di ricchi una gran massa di poveri e poverissimi relegati nel degrado delle metropoli e nella miseria delle campagne. Allora era ancora possibile raccontare storie straordinarie di riscatto e di emancipazione da quello stato di povertà in cui languiva la maggior parte della popolazione attraverso il duro lavoro, il successo professionale, l'affermazione personale di individualità che assurgevano allo status di esempi per tutti. Ciò era il frutto di una visione progressiva che trovava i suoi valori fondanti nello sviluppo di una società che ancora non aveva conosciuto il crollo delle grandi ideologie e nell'iniziativa del singolo capace di elevarsi da una condizione di povertà (o comunque di scarsità di mezzi) vissuta dalla maggior parte degli individui.  Di fatto, oggi è sempre più difficile e anacronistico narrare verosimilmente questo genere di vicende e proporre personaggi che riescano realmente a incarnare un'ipotesi di riscatto sociale: la povertà, lungi dall'essere stata totalmente eliminata, si è trasformata in qualcosa di diverso e, forse, di ben più preoccupante che in passato, ovvero nel rischio sempre più concreto per milioni di persone di ritrovarsi ai margini di un mondo le cui principali caratteristiche sono la precarietà del lavoro e la labilità delle relazioni sociali. Talmente difficile che, per ritrovare nella filmografia degli ultimi anni un esempio in questo senso è necessario guardare a un'operazione cinematografica ibrida e sostanzialmente anacronistica come quella compiuta dal regista italiano Gabriele Muccino con la produzione statunitense del suo La ricerca della felicità (2006). Non è un caso che Muccino retrodati la narrazione agli anni Ottanta (forse anche per non correre il rischio di apparire anacronistico per davvero), quelli della presidenza Reagan, e che alla fin fine strizzi l'occhio a modelli decisamente classici: da un lato a Frank Capra, il regista che negli anni Trenta fu il cantore del New Deal roosveltiano, e dall'altro a Vittorio De Sica, richiamando più volte attraverso la coppia padre-figlio protagonista del film il capolavoro neorealista Ladri di biciclette. Non essendo le nuove forme di povertà o di emarginazione legate esclusivamente a una serie di bisogni materiali, sono caratterizzate dal rischio di una progressiva discesa nella "zona grigia" dell'esclusione sociale che in una società basata sul dinamismo, sull'efficienza, sull'istruzione e sul continuo aggiornamento e perfezionamento delle competenze professionali è il vero spauracchio da evitare, specie per i più giovani. Per questo ci è parso più interessante prendere in considerazione dei film che, pur non documentando situazioni di povertà estrema o cronica, tentano di mettere in scena il passaggio spesso impercettibile e apparentemente indolore dalla condizione di benessere proprio a quella zona grigia che rappresenta la soglia della povertà vera e propria.  

Famiglie on the road

Ci pare altrettanto significativo sottolineare un dato che emerge con evidenza passando in rapida rassegna i titoli presi in esame: nella maggior parte dei casi le vicende narrate hanno come protagonisti nuclei familiari monoparentali nei quali spesso (ma non sempre) il capofamiglia è una donna. Il cinema statunitense, in questo caso, non solo è preponderante quanto a numero di titoli, ma anche come capacità di precorrere i tempi, attraverso il rispecchiamento di una realtà sociale che quasi sempre anticipa ciò che in Europa e nel resto del mondo si verifica in seguito. Un'ipotetica carrellata in questo senso si potrebbe aprire con il melodramma di Douglas Sirk Lo specchio della vita (1959) nel quale Lora, una giovane vedova con ambizioni da attrice è costretta a trascurare la figlia adolescente per inseguire il successo sulle scene. Al di là degli aspetti più eclatanti e patetici della storia è interessante portare in rilievo il fatto che Lora riesca a realizzarsi professionalmente e a garantire alla figlia un futuro sereno solo grazie all'aiuto di una donna di colore abbandonata anni prima dal marito che si offre di diventare la sua governante in cambio del solo vitto e dell'alloggio per sé e per la sua bambina. Un vero e proprio sodalizio (che assumerà i connotati dell'amicizia con il trascorrere degli anni) strutturato sul mutuo aiuto di due donne, entrambe in difficoltà, che comprendono come solo attraverso l'unione dei propri pochi mezzi potranno ottenere condizioni di vita dignitose e avere successo. Un'altra figura di madre sola che attraversa l'America alla ricerca di lavoro e sicurezza ma in un continuo stato di incertezza e precarietà è quella descritta mirabilmente in Alice non abita più qui (1975), una delle poche commedie dirette da Martin Scorsese. Nel caso di Alice la morte del marito rappresenta l'occasione per rispolverare il vecchio sogno di diventare cantante e partire alla ricerca di fortuna. Ad accompagnarla nel suo viaggio il figlio preadolescente Tommy, pronto a seguire la madre nelle sue disavventure ma altrettanto pronto a ricordarle i suoi doveri di genitore anche per ciò che riguarda quegli obblighi che nel corso di un viaggio potrebbero saltare come, ad esempio, la scuola. Sospeso tra road movie e commedia il film non mostra mai madre e figlio alle prese con gravi problemi economici, ma fa comunque trapelare quel senso di provvisorietà e indeterminatezza che ha sempre caratterizzato la vita delle fasce più deboli della società statunitense: il sogno di successo inseguito da Alice è più un'illusione coltivata per continuare a sperare in una vita indipendente che una reale possibilità e, quando al termine del film per la protagonista sembra schiudersi un avvenire più che dignitoso a fianco di un uomo che dice di amarla, questa possibilità ha comunque il sapore del compromesso e della rinuncia a una parte di se stessa e dei suoi desideri. Chi non è proprio disposto a rinunciare a nulla (malgrado la realtà della propria condizione sembrerebbe condannarla a molti sacrifici) è Rusty, la protagonista di Dietro la maschera (1985), il film di Peter Bogdanovich sul caso di un ragazzo, Rocky Dennis, colpito da una rarissima malattia degenerativa a causa della quale le ossa del suo cranio si sviluppavano in maniera abnorme. Abbandonata dal marito, in rotta con i genitori, Rusty conduce una vita al limite, dedita com'è all'uso di droghe e alla ricerca continua di partner per soddisfare la propria esuberante sessualità, capace di trovare solo lavori precari e mal pagati. Ciò non le impedisce, tuttavia, di dare al figlio una vita normale e di imporre a chiunque di accettarlo alla stregua di un ragazzo come tutti gli altri: costringe la scuola pubblica ad accoglierlo e ad apprezzarne le doti di studente modello e zittisce chiunque tra i compagni di classe tenti di far leva sul suo aspetto deforme per umiliarlo e deriderlo. In questo caso la precarietà economica e l'emarginazione sociale sono il frutto di una continua trasgressione delle regole, cercata ostinatamente dalla protagonista e lanciata come sfida verso una società che giudica dalle apparenze, proprio come accade a suo figlio. Al di là della caratterizzazione eccessiva data al personaggio di Rusty, il caso estremo narrato in Dietro la maschera mostra come, proprio le situazioni di estremo svantaggio e handicap siano quelle in cui si acuisce la condizione di necessità e isolamento: la donna, abbandonata dal coniuge proprio a causa della malformazione del figlio, si ritrova a far fronte da sola alle necessità di Rocky, trovando conforto solo nella "famiglia allargata" di motociclisti e vagabondi a cui si accompagna nella sua disperata ricerca di una forma d'espiazione da qualche presunta colpa. Il problema che invece deve fronteggiare Dede, la giovane madre interpretata da Jodie Foster in Il mio piccolo genio (1991) è speculare rispetto a quello di Rusty. Suo figlio di sette anni Fred, infatti, è dotato di un'intelligenza superiore al normale e ciò, contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, crea non pochi problemi alla donna: la scuola pubblica lo "rifiuta", dal momento che il bambino è continuamente distratto e annoiato da lezioni che non lo stimolano. In più Dede non gode di una posizione economica e sociale stabile: se la sua scarsa istruzione è compensata da un'intelligenza acuta (anche se essenzialmente pratica) ciò che le difetta è la sensibilità per cogliere i segnali di disagio lanciati dal figlio e la possibilità di stargli vicino con assiduità, essendo costretta a lavorare duramente. Il film, diretto mirabilmente dalla stessa Jodie Foster, ha il pregio di sgomberare il campo da un'equivalenza divenuta pressoché automatica, ovvero che la diversità corrisponda, soprattutto nell'immaginario cinematografico, all'handicap fisico o intellettuale e mai a quello che, a prima vista, può apparire come un indiscutibile vantaggio. Ciò che impedisce a Fred di essere uguale agli altri è la sensibilità, la capacità di penetrare la realtà ben al di là della superficie e delle apparenze, al di là dei confini della razionalità. A sentirsi un po' più integrato non lo aiuta di certo l'ambiente familiare e il fatto di vivere a contatto con persone occupate a "sbarcare il lunario", poco adatte a comprendere le sue preoccupazioni. Per questo, Dede ben presto comprende di non poter essere l'unica a occuparsi del figlio e decide di affidarlo a Jane, ex bambina prodigio e ora brillante scopritrice di talenti precoci. Se a Fred manca un padre ha di certo bisogno di due madri - una naturale e affettiva, l'altra putativa e razionale - che possano riequilibrare l'un l'altra i propri rispettivi ruoli. Ancora una volta a venire in soccorso di una donna in difficoltà è un'altra donna, attraverso un atto di mutuo aiuto, di scambio di esperienze ed emozioni che, al di là del contratto che le unisce da un punto di vista esclusivamente legale, arricchirà entrambe. Il cinema statunitense è estremamente ricco di figure di madri che, a prezzo di enormi sacrifici, cercano di dare ai propri figli una vita dignitosa: La musica del cuore (1999) di Wes Craven, Scoprendo Forrester (2000) di Gus Van Sant, Erin Brockovich (2000) di Steven Soderbergh, Monster's Ball - L'ombra della vita (2001) di Marc Forster, Cuori in Atlantide (2001) di Scott Hicks sono soltanto alcuni esempi molto eterogenei tra loro che presentano situazioni familiari al confine tra povertà e benessere, tra emarginazione e integrazione e che vedono protagoniste donne sole con figli a carico. Anche se decisamente più rari non mancano, tuttavia, i casi di famiglie monoparentali in cui è un padre solo a dover provvedere al benessere dei figli e non solo per ciò che riguarda le necessità materiali, ma anche da un punto di vista affettivo, andando a ricoprire un ruolo tradizionalmente assegnato alle madri. Un chiaro esempio è la commedia di Tamara Jenkins L'altra faccia di Beverly Hills (1998), nel quale Murray, divorziato dalla moglie, tenta in tutti i modi di garantire ai tre figli l'iscrizione a scuole prestigiose e di poter frequentare buone compagnie. Venditore d'automobili fallito, l'uomo si barcamena come può: chiede soldi in prestito al fratello, corteggia una ricca vedova nella speranza di poterla sposare, fugge con tutta la famiglia nottetempo da un alloggio preso in affitto per l'impossibilità di pagare la pigione. Il punto di vista, questa volta è affidato a uno dei figli, a Vivian, in particolare, quindicenne che ha imparato ben presto a guardare la vita con disillusione ma che comunque conserva nei confronti del padre rispetto e affetto. La collocazione delle vicende a metà degli anni Settanta è una scelta funzionale nell'economia simbolica del film: da un lato colloca le vicende della famiglia all'interno di una fase storica molto difficile dal punto di vista sociale a causa di una serie di avvenimenti politici (la sconfitta in Vietnam, lo scandalo Watergate) e di congiunture economiche sfavorevoli (la crisi petrolifera, l'aumento della disoccupazione), dall'altro permette alla regista di sottolineare attraverso una serie di elementi visivi molto marcati (l'arredamento e i costumi caratterizzati da uno stile eccessivo, tipico dell'epoca) gli alti e bassi attraversati da Vivian e dai suoi familiari. Da rimarcare, nel caso di questo film, una difficoltà in più per il padre, figura che per i figli di solito incarna valori come il sostegno economico e il prestigio sociale. Quello di Murray (interpretato da un eccellente Alan Arkin) è un personaggio che anticipa il rimescolamento dei ruoli avvenuto negli ultimi due decenni in seno alla famiglia occidentale: non sono poche le sequenze in cui l'uomo deve farsi carico della doppia funzione di padre garante della protezione e della sicurezza dei figli e di "madre" capace di comprendere e ascoltare i non pochi problemi dei tre figli. È, in particolare, il rapporto con la figlia adolescente Vivian a mettere in evidenza quanto, al di là degli sforzi compiuti da Murray per starle vicino e seguirne i cambiamenti, sia complesso (anche se non impossibile) raggiungere un equilibrio familiare in una condizione di precarietà non solo economica. Anche se le ambientazioni delle due storie sono quasi contemporanee - fine anni Settanta, primi anni Ottanta - L'altra faccia di Beverly Hills ci appare molto lontano da La ricerca della felicità, l'esempio portato in apertura dell'articolo. E ciò non soltanto per la distanza dei rispettivi generi cinematografici di riferimento (commedia e dramma), ma anche e soprattutto per la morale sottesa ai due film: un inno all'arte di arrangiarsi il film della Jenkins, un'ode al successo professionale quello di Muccino. Tra le pellicole che mettono in scena personaggi di padri soli alle prese con il problema dell'educazione dei figli c'è anche Un eroe piccolo piccolo (1993) di Marshall Herskovitz nel quale il protagonista, interpretato da un Danny De Vito insolitamente intenso, rimasto vedovo, deve provvedere all'educazione dei due figli. Anche questa è una figura di padre decisamente anomala: l'uomo, che di professione fa il comico in un programma televisivo, arriva a fatica alla fine del mese ma riesce a dare ai suoi bambini non solo il sostegno affettivo necessario per affrontare con serenità i trasferimenti loro imposti ma anche uno sguardo ironico e demistificatorio su una società statunitense smascherata come conformista e protesa esclusivamente verso il successo. Risulta evidente, a questo punto come in tutti questi film la condizione particolare dei giovani coprotagonisti (disabilità, genialità, estrema sensibilità, transizione dalla pubertà all'adolescenza) rispecchi, amplificandolo, una status generalmente instabile e profondamente contraddittorio vissuto dalla famiglia. Tuttavia, se la dimensione del viaggio - spesso vera e propria linea guida delle narrazioni - la precarietà sociale e lavorativa, il rapporto con spazi sempre diversi - distanti da una vera e propria idea di casa - e con un'articolazione del tempo che non segue l'andamento delle stagioni e i ritmi consueti scanditi dalle festività, dall'apertura delle scuole e dalle vacanze, sono fattori di rischio e decisamente lontani da quell'orizzonte di certezze funzionale per lo sviluppo armonioso della personalità di un bambino o di un adolescente, non si pongono mai come condizioni necessarie di un disagio le cui origini sono da ricercare in altre cause specifiche. In diverse occasioni, semmai, proprio questa condizione precaria stimola nei giovani protagonisti una capacità di organizzare la propria vita che non è da intendere esclusivamente come il frutto di una responsabilizzazione forzatamente precoce, bensì in quanto risultato di un'educazione autonoma, indipendente da schemi familiari, sociali e mentali prestabiliti capace di stimolare uno spirito critico non comune rispetto alla maggior parte dei loro coetanei.  

Il cinema europeo: cinema di denuncia tra realismo e grottesco

Le caratteristiche tipiche della società statunitense che si riflettono nelle storie narrate nei film passati in rassegna nel capitolo precedente - forte mobilità sociale, flessibilità del mercato del lavoro e apertura dello stesso alle donne, messa in discussione del concetto tradizionale di famiglia - si affermano pienamente in Europa solo negli ultimi decenni e, conseguentemente, fanno la loro comparsa anche nel cinema. Le narrazioni, in questo caso, hanno un addentellato con la realtà sociale che spesso sconfina nella denuncia esplicita dal punto di vista dei contenuti e nell'uso di tecniche semidocumentaristiche per quel che riguarda lo stile. Scompare la dimensione del viaggio alla ricerca del lavoro che potremmo inquadrare come ultima, nostalgica riproposizione del "mito della frontiera" statunitense. Allo stesso modo scompare il protagonismo assoluto dei personaggi principali presente in alcuni dei film poc'anzi analizzati (magari mitigato da una forte carica ironica come in Alice non abita più qui e L'altra faccia di Beverly Hills) a vantaggio di una raffigurazione della quotidianità più dimessa, nella quale lo spettatore può facilmente riconoscere sé stesso e i propri problemi. Esemplare da questo punto di vista è l'itinerario di Ken Loach, regista britannico da sempre schierato apertamente a sinistra e a favore delle classi meno abbienti: i suoi inizi in televisione - nei programmi sperimentali della BBC, precisamente The Wednesday Play, primo format realizzato con la formula del docu-drama - destano scalpore fin dal 1964 quando con Catherine il regista decide di narrare le vicissitudini di una giovane donna che tenta di organizzare la propria vita in seguito al divorzio e con Diary of a Young Man (in sei episodi) che ha per protagonista una giovane coppia in cerca di alloggio a Londra. Il tema delle problematiche abitative e del rischio di marginalizzazione sociale delle giovani coppie e delle ragazze madri viene ripreso nel 1966 con Cathy Come Home nel quale Cathy e Reg, inizialmente entusiasti del proprio rapporto culminato nella nascita di un bambino, vanno incontro a una progressiva esclusione sociale causata dal licenziamento del giovane in seguito a un infortunio sul posto di lavoro. Allo sfratto segue l'occupazione di un appartamento abbandonato, a questa una denuncia da parte della polizia e il conseguente intervento dei servizi sociali che decidono di togliere il bambino a Cathy. Girato prevalentemente con cineprese 16mm, lasciando agli interpreti un ampio margine di improvvisazione e mescolando parti recitate a interviste a veri funzionari, proprietari di appartamenti, poliziotti, assistenti sociali, disoccupati, il film venne visto da 12 milioni di telespettatori (un quarto della popolazione britannica) e contribuì in maniera significativa a orientare l'opinione pubblica verso una diversa sensibilità nei confronti delle problematiche abitative e dell'assistenza sociale alle fasce più deboli. In questa prima fase del suo percorso Loach indaga ancora quella zona grigia tra benessere ed emarginazione che vede i personaggi scivolare quasi impercettibilmente da una situazione dignitosa a un'altra di necessità e di indigenza, mentre in seguito sarà più alla denuncia delle condizioni disagiate del sottoproletariato dei sobborghi industriali del Paese che si rivolgerà con il consueto piglio battagliero (i titoli più significativi in questo senso sono Poor Cow, girato nel 1967 e poi Riff-Raff, Piovono pietre, Ladybird Ladybird, My name is Joe, tutti concentrati negli anni Novanta). È solo nel 2007 - e non a caso - che il cinema di Loach ritornerà con In questo mondo libero a narrare la storia di un personaggio che si ritrova a cavallo della linea di confine tra prosperità e bisogno: un personaggio imperfetto e contraddittorio, Angie, ragazza madre trentenne con un figlio di dieci anni a carico, che passa da un impiego all'altro in cerca della stabilità. Di fronte all'ennesimo licenziamento si mette in proprio aprendo un'agenzia di lavoro interinale. Sono gli anni della globalizzazione e per chi ha perso troppi lavori è allo stesso tempo aberrante e "normale" decidere di passare dall'altro lato della barricata: senza regole, priva dei permessi necessari, la protagonista organizza il lavoro per operai stranieri mal pagati, di certo sfruttando ma anche rischiando in prima persona. Attraverso una sceneggiatura di ferro, lontana ormai dalle sperimentazioni degli anni Sessanta e Settanta, Loach sembra voler ostinatamente mettere ordine all'interno di un panorama indistinto nel quale è ormai difficile individuare con certezza lavoratori e padroni, oppressi e sfruttatori, vittime e sopraffattori. Ma è probabilmente nei Paesi scandinavi che l'evoluzione della società ha condotto a una serie di mutamenti della sua struttura portante, la famiglia, prontamente riflessi dalle attivissime - ma decisamente poco conosciute - cinematografie del Nord. Börn (2006) dell'islandese Ragnar Bragason è un apologo cupo e fantasioso, tanto nella narrazione quanto nello stile, sulla fragilità di una società che, pure, sembrerebbe offrire ai propri membri sufficienti tutele: protagonista è Karitas, divorziata dal padre delle tre figliolette più piccole (che il tribunale ha affidato al genitore) e madre dell'undicenne Gudmund, nato dall'unione con lo scapestrato Gardar. L'instabilità economica e il senso di emarginazione vissuto dalla donna influisce ovviamente sul suo rapporto con i figli, soprattutto con Gudmund, lasciato a casa spesso da solo, valvola di sfogo delle frustrazioni e delle ansie materne, timido e introverso e per questo vessato dai bulletti del quartiere. Non dissimile per ambientazione e situazioni è il ben più complesso Lasciami entrare (2008) dello svedese Tomas Alfredson. Qui lo sguardo è affidato interamente ai giovani protagonisti della vicenda, Oskar, dodicenne anch'egli figlio di una donna divorziata ed Eli, una sua misteriosa coetanea che trasloca proprio nell'appartamento affianco, accompagnata da un uomo misterioso. Il senso di precarietà economica e di disagio sociale che rimanda il film attraverso situazioni e personaggi ambigui e sfuggenti trova il suo simbolo proprio nella figura di Eli, giovanissima vampira costretta a spostarsi di continuo per non essere scoperta nella sua ricerca di sangue. L'amicizia con Oskar, vittima della precarietà degli affetti che è diretta conseguenza di una instabilità sociale diffusa servirà a dare maggiore stabilità alla vita della ragazzina. Il dato fondamentale che emerge da questi due film scandinavi - anche e soprattutto grazie alle ambientazioni gelide del nord Europa - è soprattutto quello dell'impossibilità di stabilire relazioni emotivamente stabili (al di là della instabilità stessa delle famiglie, spesso segnate da separazioni e divorzi), l'incapacità degli adulti di assumersi responsabilità e farsi carico non solo del sostentamento materiale dei figli ma anche di quello emotivo. In questo caso, a differenza delle pellicole di produzione statunitense, lo sguardo dei giovani protagonisti si posa impietosamente su una serie di figure adulte sostanzialmente immature con una lucidità e una consapevolezza capace di ribaltare gli schemi generazionali, dimostrando una sensibilità ma anche una concretezza decisamente superiori a quelle dei genitori. Non meno segnati da un infantilismo di fondo appaiono tutti quei genitori che guardano ai figli come a una possibile fonte di guadagno per superare difficoltà economiche o, peggio, per avanzare nella scala sociale. Tema più che mai attuale, quello del successo come ultima spiaggia o scorciatoia per l'uscita dall'incertezza economica, è stato più volte proposto al cinema fornendo lo spunto grazie al quale il cinema stesso ha potuto riflettere anche sui propri meccanismi. E questo fin dall'immediato dopoguerra (quando il cinema dominava incontrastato la scena mediatica) attraverso un film come Bellissima (1951) di Luchino Visconti nel quale la popolana Anna Magnani investiva energie e risparmi per lanciare la figlioletta nel mondo dello spettacolo. Un percorso simile è quello compiuto dall'operaio Jean nel film del belga Dominique Derruddere Assolutamente famosi (2000). Ancora un film che pone sotto uno stesso denominatore la trattazione di tematiche sociali particolarmente gravi ai moduli rappresentativi della commedia, venata, tuttavia, da un'ironia amara, che invita alla riflessione anche lo spettatore più distratto. "Con il lavoro ti tolgono tutto, la dignità e il sonno", afferma il protagonista subito dopo essere stato licenziato, spogliato anche della propria identità, visto che il lavoro, anche quello alienante di una catena di montaggio, è un modo per riconoscersi, identificarsi in un ruolo sociale determinato. Il vuoto esistenziale creato da questa nuova condizione lo porta a compiere un gesto disperato alla ricerca della notorietà, del successo (per Marva, sua figlia, ma anche per se stesso, compositore dilettante) a tutti i costi, coerentemente con i modelli ammiccanti dallo schermo televisivo, lontani, tuttavia, anni luce dalla realtà. Se nei Paesi occidentali le politiche liberali, pur mitigate da dispositivi di tutela e garanzia sociale, hanno da sempre esposto gli individui ad alterne fortune, negli stati dell'Est Europa soggetti ai regimi comunisti ciò non era possibile, ovvero non avrebbe dovuto essere possibile. Uno dei primi film a essere distribuiti anche in Europa che illuminarono dall'interno la situazione reale in Unione Sovietica descrivendone gli aspetti più contraddittori attraverso gli occhi di un'adolescente fu La piccola Vera (1988) di Vasilij Pichul. La giovanissima Vera, insofferente a qualsiasi genere di imposizione e autorità, vive con i genitori che, come tutti in città cercano di migliorare le proprie condizioni economiche attraverso piccoli traffici di generi alimentari e carburante venduti sul mercato illegale. Come molte altre famiglie quella di Vera non è realmente povera ma vive nella contraddizione di una condizione in cui i miseri salari di regime potrebbero bastare per vivere appena dignitosamente ma senza potersi permettere quel tanto di superfluo che possa dare l'illusione di accedere a una dimensione piccolo-borghese alla quale tutti guardano con ambizione. In realtà la condizione vissuta dalla famiglia di Vera è aberrante ed esemplare di quella più generale dell'Unione Sovietica nella seconda metà degli anni Ottanta, poco prima della caduta del regime: se l'autoritarismo del padre di Vera rappresenta un regime che vuole ancora imporre il suo potere sulla famiglia, le attività illegali attraverso cui tenta di arricchirsi e l'alcolismo di cui è preda indicano il prezzo da pagare alla caduta degli ideali che informavano la rivoluzione nella sua prima fase. Vera, dal canto suo, attraverso i comportamenti prima ancora che con le parole, si fa portatrice di un moto istintivo di repulsione verso le false apparenze in cui i suoi familiari continuano a vivere. Anche lei vive sulla propria pelle la contraddizione tra nobiltà degli ideali e prosaicità dei bisogni: dovrà scegliere tra Sergei, un ragazzo disoccupato che la ama, e Andrei, un ufficiale dell'Armata rossa che tenta di attrarla a sé con il miraggio di viaggi in Occidente e di una vita agiata. Opterà per il primo, ma il finale aperto del film ipoteca un futuro per niente roseo per la giovane protagonista.  

Italiani: tutti casa e famiglia

La società italiana, ancorata fino a poco tempo fa a un'idea tradizionale di famiglia e a meccanismi di organizzazione del lavoro non ancora globalizzati, conosce relativamente tardi fenomeni come quelli descritti. Forse è proprio partendo da questa visione che la maggior parte dei film che tentano di fotografare quella marginalizzazione sociale scelta come linea guida per questo percorso sembrano descriverla in quanto frutto quasi esclusivo della disgregazione stessa del nucleo familiare. È il caso, ad esempio, dell'esordio dietro la macchina da presa dell'attore Kim Rossi Stuart che in Anche libero va bene (2006) ritrae i problemi di una famiglia monoparentale a capo della quale si trova Renato, giovane padre di due figli adolescenti abbandonato anni prima dalla moglie. Con il suo stipendio da operatore cinematografico l'uomo fa di tutto per non fare mancare nulla ai figli, anche se il suo carattere ansioso e aggressivo lo porta spesso a eccedere, accollando ai ragazzi mansioni e ruoli troppo grandi per la loro età, addossando loro la responsabilità di una situazione che di certo non hanno creato loro. Lo stesso brutto carattere ha progressivamente bruciato attorno a Renato il terreno professionale: estremamente orgoglioso e testardo, indisponibile alla critica è visto come il fumo negli occhi da colleghi e registi che lo evitano. Renato addossa molto del suo nervosismo alle troppe responsabilità, ai troppi ruoli che è costretto a ricoprire dato che, a causa delle ristrettezze economiche, non può permettersi aiuti esterni e, proprio per questo, tenta la strada dell'indipendenza, mettendosi in proprio, cercando di incominciare quella scalata sociale che fino ad allora non gli è riuscita. Nel corso del film il richiamo al denaro come metro di misura del valore delle cose e delle persone è continuo da parte dell'uomo: lo stesso rapporto con i figli si struttura essenzialmente su questa direttrice (si veda tutta la parte in cui l'uomo si oppone alla possibilità che il figlio partecipi alla settimana bianca), andando a occupare anche lo spazio che dovrebbe essere lasciato all'affettività o a un confronto scevro da ricatti e condizionamenti di sorta. Il ritorno improvviso della moglie Stefania completa un quadro che per un attimo sembra diventare positivo: il sogno piccolo borghese di una famiglia normale, completa in tutti i suoi elementi e senza preoccupazioni economiche. Ma l'immaturità della donna dopo poco tempo si manifesta un'altra volta quando decide di abbandonare nuovamente la famiglia, anche perché schiacciata dal carattere di Renato, mai soddisfatto di lei, dei figli e forse neanche di se stesso. È a questo punto che tutto precipita: l'attività in proprio di Renato non decolla, i creditori si fanno minacciosi, il rapporto con il piccolo Tommi va a rotoli quando il ragazzino fa capire al padre di essere stanco del suo autoritarismo. Non meno drammatica è la vicenda di Mavi, la giovane madre protagonista di Nelle tue mani (2007) di Peter Del Monte, afflitta dai fantasmi di un'infanzia negata (nel film si allude a una violenza subita dal padre), legata morbosamente a Teo, suo marito, dal quale ha avuto una bambina. Costretto a viaggiare per lavoro (Teo è un valente astrofisico in attesa di un posto da ricercatore che deve barcamenarsi come rappresentante di enciclopedie), l'uomo scopre ben presto che Mavi ha verso di lui un attaccamento morboso che la porta a sospettare tradimenti in realtà inesistenti. Quando Mavi giunge al punto di attentare alla vita di Teo finisce in carcere, mentre l'uomo giunge alla dolorosa ma necessaria scelta del divorzio. Nuovamente in libertà, sola e priva di una professione che le permetta di vivere dignitosamente, sempre in bilico tra lo stato di bisogno e la vera e propria povertà, la ragazza tenta invano di ottenere l'affidamento della bambina, anche se Teo, dal carattere ragionevole e comprensivo, pur pretendendone la potestà, permette a madre e figlia di incontrarsi spesso. In questo caso, anche se il sogno borghese di una famiglia (che al termine del film sarà coronato con la riunificazione della coppia) è ostacolato da problemi e difficoltà economiche (la precarietà del lavoro di Teo che lo porta lontano da casa, la mancanza di qualifiche di Mavi che è costretta a lavori umili e, in un'occasione, quasi a prostituirsi), la totale disgregazione del nucleo familiare, causata essenzialmente dal comportamento di Mavi, madre incapace di entrare pienamente nel proprio ruolo, viene evitata solo grazie alla capacità di uno dei membri della coppia - Teo - di farsi interamente carico della sofferenza dell'altro. È grazie al lavoro di una regista che il personaggio di una donna sola alle prese con i problemi tipici del lavoro nella società contemporanea fa capolino nel cinema italiano: Mobbing - Mi piace lavorare (2004) di Francesca Comencini è il primo film che affronta il tema delle angherie sul posto di lavoro volte a far sì che un impiegato abbandoni da sé il posto di lavoro senza che l'azienda debba ricorrere a un licenziamento in seguito al quale potrebbe subire vertenze. La vicenda di Anna, giovane donna separata dal marito con la figlia a carico, è emblematica di una condizione vissuta da moltissimi lavoratori che, come abbiamo più volte evidenziato nel corso dell'articolo, impercettibilmente scivolano da una condizione di piena occupazione e di benessere (economico ma anche psicologico) a una progressiva perdita di mansioni e potere contrattuale, che vanno ad annullarsi in seguito al licenziamento. La progressiva marginalizzazione sul posto di lavoro, tuttavia, mina anche la quotidianità, gli affetti, l'unità della famiglia - spesso basata sul riconoscimento dei ruoli dei rispettivi membri - e la salute, mostrando quanto siano fragili gli equilibri che regolano il funzionamento del nostro corpo e della nostra mente. Nel caso di Anna è in particolare il rapporto con sua figlia Morgana a soffrirne, dato che il difficile equilibrio all'interno di un menage familiare per sua stessa natura sottoposto a forti tensioni (magari sotterranee ma comunque presenti) a causa dell'assenza del padre, viene meno. La casa come ambientazione principale delle vicende (sede dei conflitti tra i suoi membri o rifugio nel quale rifugiarsi lontano dalle brutture del mondo esterno) e la ricerca di una stabilità lavorativa (o, in alternativa, di una possibilità in più di guadagno) sono dunque i due leitmotiv che caratterizzano i film italiani: se in quelli statunitensi la provvisorietà abitativa e la precarietà lavorativa potevano essere oltre che spunto per narrazioni on the road anche per l'uso di toni da commedia, i film italiani sono film drammatici, di denuncia e testimoniano la grande difficoltà che incontra nel nostro Paese un cambiamento di mentalità, di approccio nei confronti di un mondo del lavoro e verso forme di organizzazione familiare che sono indubbiamente mutate. Da notare l'atteggiamento dei personaggi più giovani di fronte a tali trasformazioni: se nel caso di Tommi, protagonista di Anche libero va bene, domina la rassegnazione verso la propria condizione e il timore di fronte a mutamenti troppo repentini (si veda l'atteggiamento del ragazzino in occasione del ritorno a casa della madre oppure quando il padre annuncia di essersi messo in proprio), Morgana (altrettanto responsabilizzata quanto lo è Tommi ma da un genitore molto più equilibrato) ha una funzione di campanello d'allarme verso i lievissimi ma inesorabili cambiamenti cui sta andando incontro la vita lavorativa della madre e, in seguito, si dimostra un valido sostegno nei suoi confronti. Elemento ancora estraneo alle logiche adulte ma già sufficientemente maturo per poter aiutare Anna, la ragazzina rappresenta per la madre e, più in generale, nell'economia significante del film la speranza in un domani forse meno spietato.  

Documentare la precarietà, una sfida possibile

Che i nuovi assetti nel mercato del lavoro e le inedite dinamiche interne ai nuclei familiari abbiano colpito la società italiana come poche altre lo testimoniano non solo film pregevoli come Mobbing ma anche e soprattutto una serie di documentari d'autore che, soprattutto nell'ultimo decennio non solo hanno portato allo scoperto tali fenomeni, ma hanno in qualche modo seguito da presso il loro evolversi e, in alcuni casi, anticipato le conseguenze sul tessuto sociale. Del resto, è nella natura stessa del documentario testimoniare ciò che è provvisorio, precario, in mutamento, proprio per meglio comprenderlo e inquadrarlo all'interno di un processo sociale in rapido divenire: i documentari, qui analizzati in ordine cronologico, danno un'idea ben precisa dell'evoluzione delle tematiche lavorative e dell'impoverimento del ceto medio. Partendo da L'uomo flessibile di Stefano Consiglio, documentario del 2003 che percorre l'Italia da Nord Sud per raccontare nove storie che hanno per protagonisti una serie di lavoratori che, per scelta o per necessità, hanno un impiego cosiddetto flessibile. C'è il tecnico specializzato con un alta retribuzione che ha cambiato più volte azienda, ottenendo ogni volta un compenso più alto ma a prezzo di enormi sacrifici e di una sensazione di sradicamento e ansia generalizzata. Ci sono marito e moglie impiegati come operai in una fabbrica del Nord-est che hanno scelto di fare i turni opposti per non lasciare mai i propri figli da soli con il risultato di non vedersi quasi mai e di non avere praticamente una vita sociale (davvero preziosa la testimonianza del figlio dodicenne della coppia che non riesce mai a vedere i genitori insieme). C'è la studentessa che lavora in nero come barista per pagarsi gli studi ma che non riesce a pianificare la sua vita. C'è un operaio che si sobbarca ogni giorno cinque ore di viaggio per recarsi dalla Basilicata a Melfi per lavorare in fabbrica e tornare a casa la sera per passare un po' di tempo con la moglie e i figli. Un dato unisce tutte le storie, diversissime tra loro, quello della qualità della vita: paradossalmente, l'espressione "lavoro flessibile", utilizzata per indicare forme di occupazione che avrebbero dovuto permettere a tutti di poter gestire il proprio tempo sottraendosi alle rigide logiche che avevano caratterizzato il mondo del lavoro fino alla fine del secolo scorso, diviene uno strumento che si ritorce contro i lavoratori, spesso privi di tutele, dunque esposti ai mutamenti del mercato. Chi sono i nuovi poveri? Qual è la soglia che si definisce "di povertà"? Da queste domande prende il via Porca miseria un documentario di Armando Ceste girato a Torino nel 2006 a partire da un'inchiesta che, proprio a ridosso di un evento di risonanza mondiale come le Olimpiadi invernali, rivelò come 40.000 nuclei familiari nell'area metropolitana della città vivessero al di sotto o immediatamente nei pressi della cosiddetta soglia di povertà. Oltre alle forme di povertà classica (come, ad esempio, il pensionato minimo che non arriva a fine mese), i nuovi poveri sono coloro che "vorrebbero ma non possono" accedere a un vero lavoro ben retribuito - o magari a forme di sostegno e agevolazione così come ne esistono in altri Paesi - perché considerati troppo anziani, troppo giovani e privi di esperienza, perché operano in un settore come quello della cultura poco o per niente considerato in Italia. Utilizzando come location i supermercati, i cancelli delle fabbriche, le strade notturne popolate dai senzatetto, Porca miseria documenta tutte queste situazioni e raccoglie le testimonianze anche di coloro che, lavorando per le associazioni che forniscono assistenza e aiuto ai poveri della città, hanno assistito al progressivo impoverimento anche delle famiglie di quello che un tempo si definiva ceto medio e che oggi, sempre più spesso, sono in fila per mangiare presso le mense o per ricevere beni di prima necessità. Debito d'ossigeno (2009) di Giovanni Calamari esce nel circuito indipendente del documentario proprio nell'anno in cui esplode la crisi economico-finanziaria globale di inizio millennio: il regista, che aveva incominciato a lavorare al progetto fin dal 2007, può ben dire di aver avuto intuito, dato che molte delle situazioni e dei temi individuati per il film hanno poi trovato una drammatica conferma nelle statistiche della più stringente attualità. Grazie a un lavoro di banalizzazione della macchina da presa (vivere con i soggetti per un tempo congruo affinché la troupe diventi un elemento "neutro", passando inosservata) Calamari si immerge nella drammatica realtà che le famiglie italiane hanno vissuto a cavallo tra il 2008 e il 2009. Alcune famiglie appartenenti al ceto medio che, a causa della crisi economica si sono trovate in "debito d'ossigeno", una lavoratrice precaria e ragazza madre con un contratto in scadenza che in tale condizione si trova da molto tempo, questi sono i protagonisti del film. Le loro domande, dalla più banale - come arrivare a fine mese - alla più "astratta" - come sarà la mia vita se non riesco a reinserirmi nel mercato del lavoro - sembrano prive di una risposta che solo la politica potrebbe fornire. Piace infine ricordare Uno virgola due (2005) di Silvia Ferri, un documentario non più sulle famiglie italiane (che siano esse monoparentali, in debito d'ossigeno, a rischio, sulla soglia di povertà o povere nel senso proprio del termine), ma sulle famiglie che in Italia non ci sono. Uno virgola due è, infatti, il numero medio di figli per ogni donna italiana, il più basso (o uno dei più bassi) al mondo: il film si interroga sulle cause di questa situazione dialogando soprattutto con le dirette interessate, le donne. Si scopre che la ragione principale di questo dato è che l'Italia non è (soprattutto politicamente) pronta a sostituire alla figura della madre quella della madre lavoratrice e che, forse proprio per questo, più di altri Paesi è esposta a un impoverimento non solo economico ma anche culturale e sociale.  

*pubblicato in Rassegna bibliografica, 3/2009, pp.27-40

 

I film del percorso

  • Lo specchio della vita, Douglas Sirk, usa, 1959
  • Cathy Come Home, Ken Loach, gb 1966
  • Alice non abita più qui, Martin Scorsese, usa, 1975*
  • Dietro la maschera, Peter Bogdanovich, usa, 1985*
  • La piccola Vera, Vasilij Pichul, urss, 1988*
  • Il mio piccolo genio, Jodie Foster, usa, 1991*
  • Un eroe piccolo piccolo, Marshall Herskovitz, usa, 1993*
  • L’altra faccia di Beverly Hills, Tamara Jenkins, usa, 1998*
  • Assolutamente famosi, Dominique Derruddere, Belgio, 2000*
  • L’uomo flessibile,  Stefano Consiglio, Italia, 2003
  • Mobbing - Mi piace lavorare, Francesca Comencini, Italia, 2004 
  • Uno virgola due,  Silvia Ferri, Italia, 2005
  • Anche libero va bene, Kim Rossi Stuart, Italia, 2006*
  • Börn, Ragnar Bragason, Islanda, 2006
  • Porca miseria, Armando Ceste, Italia, 2006
  • La ricerca della felicità, Gabriele Muccino, usa, 2006*
  • In questo mondo libero, Ken Loach, gb, 2007
  • Nelle tue mani, Peter Del Monte, Italia, 2007
  • Lasciami entrare, Tomas Alfredson, Svezia, 2008
  • Debito d’ossigeno,  Giovanni Calamari, Italia, 2009

I film contrassegnati con l'asterisco sono disponibili presso la Biblioteca Innocenty Library "Alfredo Carlo Moro"

(Crediti foto)