Conversazione con Saman Salur, regista di From Land of Silence

28/04/2009 Tipo di risorsa Notizie Temi Condizione dell'infanzia e dell'adolescenza Titoli Le notizie

Abbiamo incontrato Saman Salur subito dopo la proiezione di Sakenine sarzamine sokoot ( From Land of Silence), uno degli otto lungometraggi presentati all'interno della 19esima Settimana internazionale della critica. Il giovane regista iraniano ha risposto alle nostre domande con rara disponibilità e cortesia.

camera - Come hai iniziato a interessarti di cinema? Qual è la tua formazione?

Saman Salur - Ho incominciato scrivendo racconti e interessandomi di critica letteraria e cinematografica ai tempi del liceo. Sono originario di un piccolo centro del Lorestan, una regione a sud-ovest di Teheran, e ho sempre desiderato trasferirmi nella capitale per tentare di inserirmi nell'ambiente culturale. Mi sono iscritto a medicina all'Università di Teheran, ma era un pretesto per trasferirmi là, e infatti ho frequentato la facoltà soltanto per un anno. Successivamente, mi sono iscritto al Sureh College e mi sono diplomato in cinema, ma non ho continuato la carriera accademica (lo ammetto, non sono un buon studente) e ho preferito tentare di lavorare fin da subito come aiuto regista.

c. - Hai trovato subito lavoro in campo cinematografico?

S.S. - No, per alcuni anni sono stato aiutoregista in alcuni serial televisivi, un lavoro utile ma non fondamentale. Solo dopo un bel po', nel 2001, ho avuto l'occasione di lavorare con un grande del cinema iraniano, Bahram Beizai: sono stato suo assistente in Sagkoshi (t.l. Tormento). È stata un'esperienza importantissima: in un mese di lavorazione ho imparato più di quanto avessi fatto in quattro anni come aiutoregista. Soprattutto ho potuto colmare le mie lacune in fatto di fotografia.

c. - Ci puoi parlare di questa esperienza?

S.S. - Prima di girare Sagkoshi, Beizai è stato fermo per ben dieci anni, durante i quali ha pubblicato diverse opere di narrativa. Io sono stato sempre molto appassionato di letteratura e questa è stata la base della nostra intesa. Inoltre, il film aveva per protagonista un giovane scrittore che, alla fine della guerra con l'Iraq, torna a Teheran per rintracciare la moglie abbandonata anni prima. Anche la storia, dunque, aveva degli elementi per me molto interessanti.

c. - Successivamente hai girato dei cortometraggi.

S.S. - Sì, sette in tutto. Ho alternato documentari a storie di finzione perché penso che siano due aspetti complementari dello stesso lavoro. Eightieth Minute e The Wind Will Comb Your Tresses sono stati presentati in alcuni festival internazionali. Il secondo, in particolare, venne presentato a Venezia 59, due anni fa, e prende spunto dalla stessa poesia di Forugh Farrokhzad che ha ispirato Il vento ci porterà via di Abbas Kiarostami. Anche se il mio cortometraggio è successivo al film di Kiarostami, in effetti la sceneggiatura era pronta da diversi anni: quando ho saputo che il lungometraggio sarebbe stato presentato a Venezia con quel titolo sono rimasto un po' interdetto, ma poi ho deciso di girare ugualmente il mio corto e di intitolarlo quasi allo stesso modo.

c. - E dei documentari cosa ci dici?

S.S. - Ce n'è uno in particolare al quale tengo. L'ho intitolato It's a Sony , proprio come la pubblicità della nota marca di prodotti per l'entertainment. È su un gruppo di profughi afghani che vivevano nei pressi di un'autostrada sotto un enorme cartellone della Sony. Si tratta di un'immagine molto forte, che sintetizza in maniera stridente il divario tra povertà e ricchezza che ancora esiste, e come ci siano larghissime fasce di popolazione per le quali un cartellone pubblicitario che reclamizza prodotti di elettronica può avere la sola funzione di riparo dalle intemperie. Probabilmente, nessuno dei protagonisti del documentario avrà mai un reddito tale da permettergli di acquistare uno dei prodotti reclamizzati sul cartellone sotto il quale si riparano. Il film, presentato in un festival tenutosi a Marsiglia nel 2002, è stato molto apprezzato.

c. - Sakenine sarzamine sokoot è una pellicola che si distingue dalla maggior parte dei film iraniani distribuiti nelle sale in questi ultimi anni. Puoi dirci come è nato?

S.S. - Anche in questo caso lo spunto del documentario è stato fondamentale. In realtà c'erano tre idee che da un po' di tempo avevo in testa: la prima era di girare qualcosa sui ragazzini della periferia di Teheran che sniffano benzina per avere effetti allucinogeni, la seconda sui cammelli che trasportano la droga ai quali viene dato da mangiare l'oppio, la terza riguardava un uomo di città che gira per il deserto cercando una struttura alla quale potersi impiccare. Tuttavia ci ho messo un po' prima di capire come avrei potuto collegare le tre storie.

c. - Puoi spiegarci meglio come funzionano questi cammelli drogati?

S.S. - È un fenomeno presente soprattutto in Beluchistan, la regione al confine tra Iran, Pakistan e Afghanistan: i trafficanti di oppio, che ovviamente non vogliono correre rischi, danno da mangiare ai cammelli per lunghi periodi piccoli quantitativi di droga; poi fanno loro attraversare il confine con l'Afghanistan, li caricano di oppio e li abbandonano nel deserto. Le bestie attraversano nuovamente il confine e tornano da sole alla base, ovvero dove sanno che verrà dato loro altro oppio, né più né meno di un essere umano drogato che torna ogni volta dal suo spacciatore.

c. - Il tuo film ha molti punti in comune con due film di Amir Naderi, Il corridore e Acqua, vento e sabbia, soprattutto l'idea del cinema come confronto “fisico” tra la macchina da presa e la realtà.

S.S. - Sono due capolavori e mentirei se dicessi che non ne sono stato influenzato. Tuttavia, più che in termini di storia narrata (anche se è vero che in entrambi i film i protagonisti sono bambini o adolescenti), sento di aver “rubato” soprattutto per quanto riguarda questo rapporto tra l'immagine e una serie di elementi primari come la terra, il vento, il paesaggio desertico, i liquidi (come il gasolio rubato da uno dei protagonisti del film). Naderi è uno dei registi iraniani che ammiro maggiormente anche se non ho mai potuto conoscerlo dato che sono molti anni che vive e lavora negli Stati Uniti. Mi piacerebbe molto incontrarlo.

c. - Il Museo del cinema di Torino organizzerà tra qualche mese una retrospettiva completa su Naderi: potrebbe essere una buona occasione per incontrarlo.

S.S. - Grazie dell'invito [sorride], ma purtroppo o, meglio, fortunatamente, appena tornato in Iran incomincerò le riprese del mio prossimo lungometraggio.

c. - Di che si tratta?

S.S. - È la storia di due uomini innamorati della stessa donna: uno dei due spedisce alla ragazza delle lettere ma il guaio è che l'altro è proprio il postino che dovrebbe consegnarle.

c. - Sembra una commedia.

S.S. - Sì, ma in realtà è una commedia nera. C'è molto humour, molto sarcasmo e alla fine la storia ti lascia con l'amaro in bocca.

c. - Torniamo a Sakenine sarzamine sokoot : è l'ennesimo film iraniano che ha per protagonisti i bambini. Come mai?

S.S. - Non lo so, forse in passato poteva essere un buon sistema per aggirare la censura, per trattare dei temi che, vissuti sullo schermo dagli adulti, non sarebbero stati permessi. Forse a poco a poco è diventata una moda: probabilmente non esiste un solo regista iraniano che non abbia girato un film con dei bambini. Non posso parlare per gli altri colleghi, come ad esempio Marzieh Meshkini che è qui a Venezia con il suo film (Piccoli ladri, incentrato sulle vicende di due bambini afghani, n.d.a.), ma io ho scelto di raccontare la storia di due bambini perché sono gli unici che non hanno scelta, che spesso vivono le situazioni in maniera assoluta perché non conoscono alternative alla propria condizione. Questo, da un punto di vista drammatico, riesce a dare una forza straordinaria a un film.

c. - Dove hai trovato i due interpreti, entrambi giovanissimi e molto bravi?

S.S. - È una storia molto divertente: abbiamo cercato i due interpreti principali - i due bambini - nella zona in cui abbiamo girato, dove ci sono solo pochi villaggi al margine del deserto. Volevamo che gli “attori” fossero del luogo, che si trovassero a loro agio in un ambiente così ostile, come se avessero vissuto lì da sempre. L'unico posto dove potevamo trovare facilmente diverse decine di ragazzini e fare la nostra scelta era la scuola del luogo. Alla nostra richiesta il preside si è messo a disposizione e ci ha portato alcuni degli studenti migliori della sua scuola: dei bambini molto beneducati, dai lineamenti delicati, che non facevano certo al nostro caso. Gli ho chiesto, allora, di portarci alcuni dei peggiori studenti dell'istituto e proprio tra quelli abbiamo trovato i nostri interpreti. Mi sembra che il risultato finale sia ottimo.

c. - I bambini sono un forte grimaldello emotivo e si prestano egregiamente per presentare una serie di simboli molto ingenui, molto forti. Nel tuo film c'è una sequenza in cui uno dei fratelli cammina sul crinale di una duna, in equilibrio precario, ma sembra che sia l'unica concessione al simbolismo un po' facile che affligge i film iraniani degli ultimi anni.

S.S. - È vero che negli ultimi anni molti registi iraniani hanno puntato tutto su questo genere di linguaggio, ma non è il mio caso. Amo raccontare storie attraverso la descrizione della vita quotidiana delle persone, la realtà, e mi piace che se lo spettatore deve trovare un significato nelle immagini che vede questo scaturisca spontaneamente. Non mi piace quel genere di film che suggerisce troppo esplicitamente il senso della storia, che mette una serie di segnali che indicano qual è la lettura corretta del film. I simboli, se proprio ci devono essere, devono stare “sotto il film”, devono venire dopo la storia narrata. In Sakenine sarzamine sokoot non avevo intenzione di parlare esplicitamente dei problemi dell'Iran: tuttavia, due dei maggiori problemi del mio paese sono la droga e il legame indissolubile tra economia e petrolio. Non so cosa sia arrivato agli spettatori ma questi sono due elementi fortemente presenti nel film e spero che diano degli spunti di riflessione.

c. - Comunque nel tuo film abbiamo notato che c'è una scelta accurata delle inquadrature che lascia ben poco al caso: spesso la costruzione del quadro sembra voler guidare la visione dello spettatore verso una lettura di un certo tipo.

S.S. - Polanski dice: “Se vuoi fare il regista devi essere un fotografo”. L'inquadratura deve parlare di per sé e, in un film nel quale i dialoghi iniziano dodici minuti dopo i titoli di testa, questo è ancora più vero. È necessario saturare l'inquadratura, nel senso che bisogna essere consapevoli di quanto spazio si vuole dare agli elementi che la compongono: il soggetto, il cielo, la terra, la strada. L'inquadratura deve essere espressiva, originale, deve attirare lo spettatore al suo interno, guidarlo nella visione della storia, ma questo non significa che debba dare un significato immediatamente leggibile a quella storia. Per la traduzione dal farsi si ringraziano Elena Zamborlini e Stefano Pellò