L'estate di Giacomo

29/07/2012 Tipo di risorsa Schede film Temi Disabilità Titoli Rassegne filmografiche

regia di Alessandro Comodin

(Italia, Belgio, Francia, 2012)

 

Giacomo è un diciottenne affetto da ipoacusia, cui hanno da poco inserito un impianto cocleare che gli consente un più ampio plesso uditivo. Trascorre una vacanza estiva con Stefania, sedici anni, sul Tagliamento, in Friuli, quasi al confine con la Slovenia, la prima in cui i suoni e i rumori dell’ambiente circostante entrano a far parte, con maggior nitidezza, della sua vita. Sono giornate, momenti, ore di banale quotidianità, quelle che ci vengono narrate nel film, dedicate per lo più al rapporto amicale, intimo, forse amoroso, che si stabilisce tra i due adolescenti. Le mattinate trascorse in un angolo isolato e incontaminato della vallata, a mangiar panini e immergersi nelle acque fredde del fiume, i pomeriggi in casa ad ascoltare musica, una sera a ballare in una festa popolare. Piccoli micro-eventi, molte parole (di Giacomo), molti silenzi (di Stefania), sensazioni tattili e sonore che si mescolano tra loro, forse per la prima volta, con una nuova intensità.

Ultimo titolo di un insieme composito di film che collocano le esperienze di crescita dei ragazzi nella stagione estiva e in contesti vacanzieri (in quanto tra questi ultimi e certe peculiarità dell’adolescenza esistono evidenti affinità - che trattiamo nel percorso didattico Cinema, adolescenza, estate -  nonché ennesima opera che si occupa di raccontare storie di disabilità giovanile (qui una filmografia sul tema), L’estate di Giacomo riesce nell’impresa di condurre uno sguardo nuovo, anti-conformista, persino incantato su un soggetto e su argomenti ormai rappresentati decine di volte sul grande schermo. Per prima cosa affievolisce l’intensità della narrazione e la portata drammatica degli eventi che coinvolgono il protagonista, eventi che non sono altro che piccoli sommovimenti, leggere frastagliature, impercettibili alterazioni in un placido susseguirsi di giochi, camminate, chiacchierate, mutevoli stati d’animo. Una narrazione che, come se non bastasse, vive di un profondo disequilibrio tra una prima, lunga e indolente parte dedicata al rapporto tra Stefania e Giacomo, e una seconda, breve, ellittica e più intensa porzione dedicata al rapporto tra Giacomo e Barbara, una coetanea audiolesa. In seconda battuta, il film si costruisce attorno al rapporto esclusivo che s’instaura tra i due ragazzi e che coinvolge un ulteriore protagonista, ovvero l’ambiente circostante (un Friuli strappato alla modernità e al mondo adulto). Niente ci viene detto del contesto famigliare, sociale, culturale di Giacomo. Nulla sappiamo dell’operazione che egli ha appena subito (la si può dedurre, ma non è dichiarata). Né informazioni ci vengono fornite circa la possibile sofferenza che egli ha conosciuto nel corso della sua giovane vita. Non vi è, insomma, possibilità alcuna, per lo spettatore, di cadere nel patetico, nel sentimentale, né tantomeno nei facili “sociologismi”. Tale esclusività – e siamo al terzo elemento innovativo del film – si traduce in una attenzione viscerale della macchina da presa per il suo personaggio, che viene seguito, anzi accompagnato pedissequamente, per cercare di cogliere le coloriture di un linguaggio dissonante e disarticolato a causa dell’handicap, le sollecitazioni che la foresta, l’acqua o il corpo sensuale di Stefania impongono ai suoi sensi (un’iniziazione alla congiunzione di sguardo, udito e tatto), i pensieri reconditi e i non detti che l’adolescente, come ogni altro ragazzo della sua età, custodisce in sé e lascia trapelare negli sguardi, nei tic, nei cambi di umore.

L’impianto complessivo dell’opera ne esce, in qualche misura, frastornato. Lo squilibrio accennato tra prima e seconda parte (determinato da un’inaspettata ellissi), la brevità del racconto (dura solo 78’), la verbosità di Giacomo contrapposta ai silenzi di Stefania (quando ci si attenderebbe il contrario), l’impossibilità di discernere il registro della finzione e quello del documentario, l’uso continuo della macchina a mano, di articolati ma non affettati long take, le frequenti riprese di spalle del protagonista o addirittura la sua collocazione in fuoricampo in alcuni significativi passaggi, fanno dell’opera prima di Alessandro Comodin un oggetto prezioso perché grezzo, scarno, goffo. Di un’ineleganza propria, però, di quelle esperienze cinematografiche vitali, sperimentali, vigorose che, di tanto in tanto, si affacciano nella storia della Settima arte. L’estate di Giacomo riesce, in qualche modo, a conservare l’irriverenza di certi esperimenti surrealisti (penso a Zero in condotta, naturalmente), la freschezza e la radicalità di certe folgorazioni nouvelle vague (citazione d’obbligo va a I quattrocento colpi o a Jules et Jim), la simbiosi con l’ambiente naturale che già era presente in un altro grande debutto, L’infanzia di Ivan di Andrej Tarkovskij, la necessità propria del cinéma-vérité di Jean Rouch (come annota puntualmente Simone Moraldi su filmidee), l’urgenza dei primi film dei Dardenne (in Giacomo c’è più Rosetta o più L’enfant – Una storia d’amore? Domanda oziosa…), persino la “castità” formale di certi titoli del collettivo di cineasti danesi conosciuto come Dogma 95.

Al di là di più o meno pertinenti filiazioni, quello che crediamo non sia opinabile in L’estate di Giacomo è la ricerca, attraverso la messinscena di una storia per molti versi banale e monocorde (ma solo sul piano narrativo), di una qualche profonda verità dell’essere umano, e la fiducia che questa verità possa farsi largo grazie all’aderenza e alla curiosità reciproca che si stabilisce tra una videocamera e un personaggio. Anzi tra un videomaker e la persona che, per caso o per forza, entra per qualche tempo nel suo campo visivo. È l’epifania di un incontro. È il tempo precario ma prezioso di una vacanza. E non è poco.

 

Marco Dalla Gassa