Il silenzio

di Mohsen Makhmalbaf

(Iran, 1998)

Sinossi

Tagikistan. Il piccolo Khorshid è cieco. Vive, insieme alla madre, in una condizione di estrema povertà ed è sotto sfratto. Se entro cinque giorni la famiglia non pagherà l’affitto, il proprietario della casa li caccerà. Khorshid, che mantiene la madre facendo l’accordatore di strumenti musicali presso un liutaio, ha poche ore per chiedere lo stipendio al proprio padrone. Lo stesso liutaio è però deciso a licenziarlo perché arriva sempre in ritardo al lavoro. Infatti il piccolo Khorshid, dall’udito finissimo e curioso, si fa distrarre e rapire dai mille rumori e suoni che incontra sulla strada per andare al lavoro, dimentico di qualsiasi orario e appuntamento. La voce di una donna, il rumore dell’acqua, il dolce suono di un musicista, la melodia di una radio, il ronzio di un’ape sono suoni troppo intensi per non farsi trasportare da essi. Nemmeno Nadereh, giovane protetta del liutaio, che va a prendere il ragazzino alla fermata del bus, riesce a dissuadere il padrone della bottega dal suo intento. Alla fine del quinto giorno, Khorshid viene allontanato dal lavoro mentre la madre viene cacciata di casa. Quando torna indietro, il bambino incontra però un suonatore errante, la cui musica lo incanta totalmente. Sulle note del musico, Kharshid recupera la propria libertà, scappando dalla madre e tornando nella strada del liutaio. Lì diventerà finalmente compositore dirigendo gli artigiani che ‘suonano’ i loro strumenti di lavoro sullo spartito della quinta sinfonia di Beethoven.

Presentazione critica

Come molti altri film che provengono dall’est del mondo, l’aspetto più significativo de Il silenzio non è l’intreccio narrativo o il suo sviluppo progressivo da un particolare dato di partenza, ma piuttosto la ricercatezza degli elementi raffigurativi, l’accumulo di immagini e elementi simbolici, la geometria creata dalle relazioni tra i personaggi, l’interdipendenza con altre arti, come la filosofia, la poesia e la pittura, i richiami sottovoce fatti alla realtà e alla cultura della società contemporanea iraniana. La pellicola di Mohsen Makhmalbaf è, quindi, più un trattato di natura estetica che un racconto ‘verosimile’. La cecità di Khorshid è il primo elemento metaforico presente nel film: se da una parte rappresenta l’ottenebramento di chi vive in situazioni precarie (la povertà della sua famiglia ritorna costantemente in auge ogni giorno che passa e ogni qual volta il padrone bussa alla porta), dall’altra simboleggia la possibilità di un punto di ‘vista’ diverso sulle cose. Lo confermano le scene in cui il ragazzino consiglia di chiudere gli occhi alle coetanee che incontra sul bus (facendo però perdere loro la fermata giusta), in cui si fa guidare dalle proprie orecchie in mezzo ai mille rumori della città, o in cui sente meravigliosi suoni laddove gli altri non sentono niente (l’acqua che scorre, il ronzio dell’ape, i battiti degli strumenti artigianali). La cecità non è dunque un handicap ma è uno strumento – adottato per esempio dalla stessa Nadereh per trovare Khorshid in mezzo ad un mercato – che conduce in un universo, buio e colorato insieme, dove è plausibile immaginarsi una vita alternativa a quella a cui ognuno si sente vincolato. La fuga di Khorshid dove finalmente, affrancato dal lavoro e dai legami parentali soffocanti, può seguire il suo destino di compositore, stabilisce così la reale possibilità di trovare un’altra identità, di scegliere una strada nuova, di conquistare una libertà insperata rispetto alle costrizioni del quotidiano. Di tutte le arti, quella che meglio riproduce l’idea di libertà è la musica, in quanto è linguaggio universale e ha uno spazio di propagazione quasi illimitato, senza barriere e confini. E Makhmalbaf affida a essa la forza liberatoria del film, una forza che è quella degli Ashîk, musicisti e cantastorie erranti dell’antica Persia, e che appartiene alla natura e ai brani che ne imitano i suoni (come il componimento del cavallo, il canto che ripete le tonalità delle pecore, la pioggia che crea una splendida musica colpendo il liuto caduto dalle mani del ragazzo). Ancora più significativa è la scelta della Quinta Sinfonia di Beethoven come leit-motiv del film: l’incipit dell’opera, il famoso Sol-Sol-Sol-Miii, noto col tema del ‘destino che bussa alla porta’ – si dice, tra l’altro che Beethoven abbia tratto ispirazione per il tema musicale dalle picchiate del proprio padrone di casa che veniva a pretendere l’affitto, così come avviene anche nel nostro film – restituisce allo spettatore l’idea dell’ineluttabilità del fato attraverso una versione dell’opera arrangiata con gli strumenti tradizionali iraniani, il târ, il setâr, il ney e il santûr, e suonata con veri utensili artigianali con cui si forgiano i vasi. Il film è costruito attorno ad un forte valore etico ed estetico dell’esperienza umana che fa da base alle possibilità emancipative dell’individuo. Bellezza e bontà sono le facce della libertà: lo proferisce Khorshid quando afferma che il ronzio dell’ape è più armonioso se si posa sui fiori belli invece che sulla spazzatura, lo proferisce la pioggia che suona, in una delle scene più affascinanti della pellicola, il liuto con una dolcezza e bravura che gli uomini non sanno raggiungere, lo proferiscono i versi del poeta Omar Khayyâm (pronunciate dalle due studentesse sul bus), che teorizza la necessità di cogliere l’attimo. La proliferazione del colore, della luce e delle immagini simboliche (le foglie, il pane e le ciliegie, gli specchi) diventa così la trascrizione visiva delle sensazioni provate da Khorshid all’accenno di una musica affascinante, la riproduzione di quel fascino che ogni uomo prova davanti alla bellezza irraggiungibile del mondo. Il silenzio riesce ad essere quindi un film su un cieco e insieme un film sul colore e sull’immagine. Di questa contraddizione ne è stata data anche una lettura politica. Il regista non nasconde velate critiche alla società iraniana: le donne senza velo del Tagikhistan e i colori sgargianti dei loro vestiti si contrappongono al velo e ai vestiti grigi delle donne iraniane, le grandi stonature della banda di ragazzini nel parco raffigurano una sorta di discrepanza sociale. La cecità di Khorshid può raffigurare non tanto la cecità di un popolo (che ha ancora la forza dell’immaginazione), quanto l’ottusità delle prescrizioni rigide che vietano di assaporare i colori e la bellezza del reale. Marco Dalla Gassa

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