Mean Creek

di Jacob Aaron Estes

(USA, 2004)

Sinossi

Sam è un adolescente minuto che subisce le angherie del prepotente George, un ragazzo obeso, antipatico a tutti gli allievi della scuola che frequenta e per questo costretto a stare spesso da solo. Per vendicarsi delle prepotenze di George, Sam ricorre al fratello maggiore Rocky con il quale organizza un piano. Fingendo che sia il compleanno di Sam, i due, in compagnia degli amici Marty, Clyde e Millie, organizzano una gita in barca lungo un fiume dell’Oregon con l’intenzione di gettare nudo in acqua George ed abbandonarlo. Durante il viaggio, però, George, seppur in modo goffo, felice di essere finalmente accettato da dei coetanei, mostra di non essere il mostro a cui tutti hanno sempre pensato e i ragazzi cominciano a considerare l’ipotesi di non vendicarsi più. A questa decisione si oppone Marty, che continua a vedere George come l’arrogante personaggio di sempre. Quando George è informato delle intenzioni di partenza va su tutte le furie perché capisce che anche in quell’occasione il suo desiderio di amicizia si è risolto in una frustrazione e per reazione attacca Marty, ricordandogli il sanguinoso suicidio del padre. Come conseguenza del parapiglia che si origina, George, inavvertitamente spinto da Rocky, cade in acqua e annega. I ragazzi, sconvolti, tentano dapprima di occultare il cadavere, ma poi si rendono conto della loro responsabilità e confessano alla polizia ciò che hanno commesso. Marty invece non accetta di confessare e fugge di casa, garantendosi la fuga con una disperata rapina in un negozio di alimentari.

Introduzione al Film

The Sundance Style

Mean Creek, del regista esordiente nel lungometraggio Jacob Aaron Estes (al suo attivo, in precedenza, soltanto un cortometraggio del 2001, Summoning) è una di quelle pellicole la cui messa in scena, i cui contenuti e i mezzi toni utilizzati per realizzarla fanno riflettere sull’esistenza di uno stile particolare che, secondo parte della critica specializzata, accomunerebbe molti dei film americani indipendenti degli ultimi quindici anni. Tale stile è noto come Sundance Style, lo stile del Sundance, il Festival voluto e diretto da Robert Redford nell’accogliente neve di Park City, Utah. Esistono realmente delle prerogative comuni in virtù delle quali un gruppo di film è perfettamente riconoscibile rispetto ad altre produzioni? Il dibattito è costantemente aperto. È vero, tuttavia, che alcuni di questi lavori, e Mean Creek tra questi, si segnalano per una serie di caratteristiche comuni che forniscono una sorta di “marchio espressivo”. Uno di questi aspetti è rappresentato dalle tonalità minimaliste di una sceneggiatura che non punta sulle cadenze di galoppanti punti di svolta, ma che si nutre costantemente di tempi fenomenologici, direttamente connessi alla realtà e non alle esigenze spettacolari e narrative. I personaggi e gli ambienti diventano preponderanti sulle azioni compiute: l’attenzione cade sulle personalità, sulle superfici, sull’importanza delle parole, non sulla dinamica di un’azione che spesso pare soltanto accennata, implosa, sacrificata allo studio dei caratteri e delle relazioni. Anche il linguaggio cinematografico utilizzato si adegua alla materia trattata e si predispone lungo i binari di una regolarità che assume quasi i connotati della mimesi: la macchina da presa opera secondo due parametri fondamentali, da un lato, in alcune pellicole, tende a nascondersi dietro una pretesa oggettività, limitando al minimo i tagli del montaggio e osservando l’accaduto rigorosamente, aderendo ai personaggi e rispettando l’obiettività del loro agire. Dall’altro, si sforza di mettere in rilievo gli elementi decisivi della rappresentazione, dei personaggi e della messa in scena per permettere la perfetta leggibilità del segmento, operando in virtù del principio della continuità e lavorando sulla trasparenza del racconto, sull’invisibilità dei meccanismi di produzione. Contemporaneamente, sul piano dei temi ricorrenti, uno dei motivi maggiormente trattati è sicuramente quello delle famiglie disfunzionali, i cui evidenti problemi si riflettono sui personaggi che di esse fanno parte (e non è un caso se i protagonisti dei film in stile Sundance siano quasi sempre adolescenti), condizionandoli nel loro agire e nel loro rapporto con gli altri. Situazioni e modalità che in Mean Creek sono facilmente individuabili e non solo perché il film di Estes è in effetti un prodotto presentato al Sundance Film Festival, ma anche perché lo “stile Sundance” è diventato una specie di estetica dell’indipendenza americana.

Il ruolo del minore e la sua rappresentazione

Un percorso di formazione interrotto brutalmente

Mean Creek è un film in cui le dinamiche di gruppo sono essenziali, perché mostrano come un pregiudizio comune possa mutare di fronte alla rivelazione di una nuova e inattesa verità. In realtà, in questo caso, il gruppo di adolescenti di cui si osservano le reazioni è formato da ragazzi che hanno un obiettivo comune a danno di un solo altro, il corpulento George, odiato da tutti perché aggressivo e violento nei confronti dei compagni di scuola. L’intento del gruppo variamente assortito per età, interessi ed esperienze già maturate, è quello di dare una punizione esemplare a George invitandolo ad una gita in barca per la fittizia festa di compleanno di Sam, l’ultima indifesa vittima in ordine di tempo delle angherie del più prepotente compagno. La dinamica di gruppo serpeggia fra la volontà di un “branco” che ha la sua guida nei ragazzi più grandi, Rocky, fratello di Sam, e soprattutto Marty, irriducibile nella sua volontà di punire George anche quando tutti gli altri si pentiranno di aver ordito l’impietosa finzione. Marty è l’oltranzista della punizione perché il suo dramma personale va a cozzare con quello di George, con gli evidenti problemi mostrati dal ragazzo, dislessico ed incapace di contenere la rabbia quando è messo sotto pressione. Due tipi particolari di solitudine si scontrano ed esplodono: da un lato c’è quella di tipo familiare che investe Marty, dovuta ad un padre assente nel film, di cui si evoca spesso una presenza che non c’è più e che ha lasciato un vuoto incolmabile pronto a sconfinare nel trauma. Tuttavia, fino all’acceso contrasto con George sulla barca, lo spettatore ignora che il padre di Marty sia rimasto vittima di un cruento suicidio che lo ha visto spararsi in bocca per un non ben identificato motivo. È l’orgoglio ferito di George a rivelare ciò che Marty vorrebbe tenere per sempre occultato, nascosto nel dolore personale di una famiglia il cui riferimento è diventato l’irresponsabile fratello maggiore Kile, con cui il rapporto è conflittuale. Ed è il riaffiorare del trauma a generare la tragedia della morte di George, al di là della casualità di una situazione sfuggita a tutti di mano: lo scontro sulla barca è evitato grazie all’intervento del resto del gruppo, ma la confusione generata provoca la caduta di George in acqua e il suo conseguente annegamento. Morte preterintenzionale, ma punizione premeditata. È questa la colpa del branco, che poi si dimostra molto più mansueto durante il viaggio e il contatto diretto con George, la cui violenza da sempre esibita si dimostra soltanto una reazione alla solitudine cui il suo carattere fondamentalmente inadeguato ad affrontare la diversità delle varie situazioni lo ha, suo malgrado, relegato. George, di fatto, è una vittima sacrificale per il branco bisognoso di trovare un diversivo a giornate che altrimenti sarebbero sempre uguali a se stesse. Ma George sorprende piacevolmente, perché a dispetto della fama che lo accompagna, è capace anche di slanci di gentilezza altrimenti sconosciuti, come il presentarsi all’appuntamento della gita con un regalo per Sam, atto che genera sorpresa, perché si reputava George incapace di tanto, ma che origina anche quel serpeggiante senso di colpa che porterà la quasi totalità del gruppo ad abbandonare l’idea della vendetta a freddo. Il gruppo, durante il viaggio, infatti, comincia a comprendere George e le sue modalità di mettersi in mostra per guadagnarsi la stima e l’amicizia degli altri ragazzi: dice di aver fumato anche spinelli per godere dell’ammirazione di Marty e non essere messo, ancora una volta, al bando. Quello raccontato da Mean Creek è un viaggio di formazione che, dopo il disagio iniziale, anzi, proprio in funzione dell’errore di valutazione iniziale, ha le potenzialità per giungere alla piena conoscenza dell’altro, ma che s’interrompe bruscamente come conseguenza di un cortocircuito dovuto a due profondi malesseri che, entrando in contatto, deflagrano. L’errore è quello di non andare oltre le apparenze, le quali, spesso, sono soltanto il segno evidente di un malessere che avrebbe bisogno di ben altre analisi comportamentali per svelarne la reale natura: in George questo aspetto è affidato alla videocamera, compagna fedele del suo viaggio e delle sue giornate trascorse in casa da solo, sorta di diario segreto a cui si dà in consegna la propria natura, quella difficile da decifrare all’esterno, nel rapporto con gli altri. All’esterno, George è un ragazzino sgradevole d’aspetto e nei modi, un adolescente pieno di problemi, così come nota il personaggio della biondissima ed esile Millie, a lungo il più lucido del gruppo, ma all’interno la sua mente è metaforizzata attraverso l’immagine di un prisma bicolore, multiforme e cangiante, senza riferimenti, impossibile da classificare. Un altro aspetto importante della pellicola è quello relativo alle famiglie dei ragazzi che compongono il gruppo, molte delle quali si distinguono per la mancanza di alcuni dei ruoli tradizionali. Della famiglia di Marty si è già accennato, ma anche quella di George pone l’accento su un padre di cui non si fa menzione e su una madre attenta ai suoi esercizi fisici per calare di peso. Curiosa la posizione della famiglia di Clyde, mite ragazzo presente nel gruppo, deriso perché ritenuto non propriamente virile, anche a causa di una famiglia in cui sono presenti due figure maschili come genitori e nessuna donna nel ruolo canonico di madre.

Riferimenti ad altre pellicole e spunti didattici

È opinione della maggior parte della critica che un film come Mean Creek sia per molti versi simile a Stand by Me – Ricordo di un’estate di Rob Reiner (Stand by Me, Usa, 1986). Molti gli elementi in comune: un viaggio di formazione di un gruppo di adolescenti (anche se violentemente interrotto nel film di Estes), un cadavere come punto di non ritorno (nel film di Estes come lacerazione profonda di una situazione gestita erroneamente, in quello di Reiner in qualità di simbolo di una definitiva perdita d’innocenza), rapporti difficoltosi o completamente assenti con i propri padri, entrambi ambientati in Oregon. Diversi invece i toni assunti dalle due pellicole: drammatico, coerentemente con la claustrofobia generata prima da un errore di valutazione e poi dall’opprimente senso di colpa, Mean Creek; avventuroso e nostalgico, in relazione anche al regime di racconto in flashback a distanza di parecchi anni, Stand by Me. Uno spunto didattico comune ai due film è il percorso di formazione estremamente diverso, per certi versi addirittura opposto, condotto dai due gruppi di adolescenti, l’esito costruttivo e teneramente nostalgico di uno, il condizionamento dovuto all’eventualità tragica non contemplata nelle ipotesi di parte dell’altro. Una riflessione potrebbe originarsi proprio dalla divaricazione di intenti che uno stesso viaggio, condotto da persone della stessa età, può inevitabilmente produrre se il principio che lo motiva non è spingere oltre il proprio limite (come in Stand by Me), quanto l’accanimento di gruppo contro uno stesso soggetto ritenuto in qualche modo diverso e quindi degno di essere punito. Giampiero Frasca  

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