Brutti, sporchi… ma non cattivi

La rappresentazione della povertà nel cinema europeo dal neorealismo ai giorni nostri  

Al di là dello schermo: premessa metodologica

Nel farsi portatore delle istanze dei più poveri e degli emarginati all’interno della società il cinema ha spesso scelto in quanto simboli di tale condizione bambini e adolescenti che, come sempre, riescono a riflettere questa condizione con ben più forza drammatica degli adulti. A ben guardare, tuttavia, è molto maggiore il numero dei film nei quali la povertà viene affrontata a partire dalle sue tragiche conseguenze (che, tuttavia, nella realtà non sempre si accompagnano ad essa) anziché in quanto questione sociale di per sé degna d’attenzione. L’immagine del bambino o dell’adolescente povero, infatti, è spesso legata a contesti delinquenziali, microcriminali, di abbandono, nella maggior parte dei casi sullo sfondo di un paesaggio urbano degradato. Rappresentazioni che ricalcano realtà particolari – dato che non esiste un legame diretto tra povertà e criminalità – e che rischiano di rimuovere l’immagine della povertà in quanto condizione che affligge stabilmente la vita di milioni di persone, a vantaggio di rappresentazioni più “drammatiche” soprattutto sotto il profilo spettacolare. Probabilmente si tratta di un tentativo di difesa da un’immagine della povertà certo meno eclatante ma anche più aderente alla verità e, probabilmente, più inquietante. Come nella realtà è più semplice ridurre il problema ai suoi pur gravissimi “corollari”, trovando risposte immediate alle situazioni contingenti senza fermarsi ad analizzarne le cause (e dunque costringendosi a ripensare radicalmente i modelli di organizzazione sociale), allo stesso modo per il cinema è più semplice restituire un’immagine del fenomeno parziale ma molto più scioccante e commovente. Un tentativo di difesa (uno schermo, in fondo) che diviene più evidente se si analizzano le cinematografie dei paesi europei: la questione della povertà in Europa, che ha abbracciato – a differenza di altre realtà – l’idea di stato sociale, trova nel cinema rappresentazioni decisamente contraddittorie, tanto più quando queste ultime si reggono sulle spalle di personaggi bambini o adolescenti. Questi ultimi possono essere tanto le cartine di tornasole dello sconcerto e della paura di fronte ai cambiamenti, spesso troppo repentini, cui viene sottoposta la società, quanto facili grimaldelli emotivi sui quali fare leva per suscitare un generico pietismo che ben poco contribuisce alla comprensione di fenomeni complessi, tanto i portatori di forti istanze di denuncia delle storture di un intero sistema sociale, quanto i simboli vaghi di una speranza di cambiamento, non fosse altro che per la loro natura di figure in divenire, in continua crescita ed evoluzione. Ripercorrere il cammino compiuto dal cinema europeo dal secondo dopoguerra a oggi nel tentativo di rappresentare la povertà e l’esclusione sociale in quanto tali, ovvero svincolate da quei fenomeni violenti ed eclatanti che costituiscono i loro pur tragici effetti, può forse aiutare a comprendere meglio i cambiamenti avvenuti nella stessa società, nel suo modo di guardare alla povertà, passata da problema diffuso a fatto marginale (ma vedremo come ciò sia vero solo in parte) per trasformarsi, infine, in un fenomeno multiforme, forse ancora troppo recente per poter essere definito. Probabilmente non è un caso che i film contemporanei che si limitano a un’attenta osservazione dei fenomeni astenendosi tanto dal dare risposte affrettate quanto dal lanciare accuse o appelli, siano quelli che meglio di altri riescono a cogliere i margini di una realtà tuttora sfuggente.  

Un dopoguerra ad altezza di bambino

Il Pasquale del secondo episodio di Paisà (1946), Bruno in Ladri di biciclette (1948), i due sciuscià dell’omonimo film di De Sica del 1946, il piccolo Edmund di Germania anno zero (1948) che si aggira tra le rovine della capitale tedesca distrutta dai bombardamenti alleati sono diventati nel nostro immaginario cinematografico non solo l’incarnazione dell’innocenza di fronte alla crudeltà della Storia ma, molto più concretamente, l’emblema della drammatica lotta per la sopravvivenza che la stragrande maggioranza degli europei dovette affrontare negli anni dell’immediato dopoguerra. Guardando in faccia la realtà quegli autori (De Sica e Rossellini su tutti) capirono che aveva le sembianze di un bambino affamato, sporco, solo e cresciuto troppo in fretta: la visione della povertà proposta dal cinema del neorealismo passa anche e soprattutto attraverso gli sguardi dei bambini, si muove seguendoli nel loro affaccendarsi in operazioni poco o per nulla lecite, accompagnandoli per i vicoli delle città da poco liberate dagli alleati, prendendo dalla strada i suoi interpreti in un tentativo di accostarsi a quel mondo nella maniera più fedele possibile. Con questi film i bambini entrarono drammaticamente da protagonisti nella storia del cinema, allo stesso modo in cui lo furono nella realtà, non più semplici figure sullo sfondo, ma veri e propri personaggi che spesso, oltre a rubare la scena ai grandi, provvidero al loro sostentamento, alla loro sopravvivenza. Forse, dunque, non è un caso che nei film del neorealismo, oltre a una raffigurazione dell’infanzia fuori dagli schemi si accompagnasse per la prima volta un fattore nuovo e importante come il modo inedito di concepire il cinema basato su un’idea di immediatezza (o, almeno, sull’impressione di essa), su una visione ad altezza d’uomo (di bambino) della realtà, sull’assenza della figura dell’autore che tendeva a far posto alla descrizione della realtà minuta di tutti i giorni, spesso quella niente affatto facile di quanti dovevano lottare per far fronte a prosaiche necessità. Questa raffigurazione schietta e impietosa metteva in evidenza che quei bambini cresciuti troppo in fretta erano forse migliori degli adulti e che, comunque, da loro si sarebbe dovuti ripartire per ricostruire un Paese distrutto proprio dagli adulti (l’“anno zero” del titolo del film di Rossellini sembra voler alludere e al tempo deludere tale aspettativa). Si pensi all’ultima sequenza del film più celebre del neorealismo, Roma città aperta (1945) di Rossellini, in cui il gruppo di ragazzini le cui storie si sono incrociate con quelle degli uomini e delle donne impegnati nella resistenza si avviano soli e in silenzio alla volta di Roma dopo che tutti gli adulti sono stati giustiziati dai nazifascisti, quasi consapevoli di dover assumere sulle proprie spalle la lotta partigiana. Oppure al ruolo del piccolo Bruno in Ladri di biciclette che, oltre ad aiutare il padre nella ricerca della bicicletta rubata, con il suo lavoro di benzinaio diviene l’unico sostegno economico della famiglia. O ancora a Pasquale e Giuseppe di Sciuscià che, al di là delle difficoltà concrete, della necessità di sopravvivere, conservano ancora la forza per sognare di acquistare un cavallo bianco con il denaro risparmiato. Una “visione corale” che il cinema non avrebbe più conosciuto in futuro, che forse peccava in candore, ma che era compensata dalla buona fede degli autori e, nel caso specifico di De Sica e Zavattini, era sempre a rischio di scivolare in un populismo incapace di testimoniare la realtà e di proporre soluzioni concrete ai problemi. Ne è un esempio Miracolo a Milano (1951), per l’appunto di De Sica e Zavattini, la favola utopica e ingenua in cui i poveri abitanti di una bidonville milanese sono tutti buoni e i ricchi padroni tutti cattivi, che chiude idealmente la breve ma intensa parabola del neorealismo.  

Il pessimismo di tre autori eccentrici

Gli squarci di reale sulla povertà in cui l’Europa era piombata in seguito al secondo conflitto mondiale proposti dai cineasti del neorealismo e da pochi altri autori nell’immediato dopoguerra, restarono momenti isolati in un panorama che, se da un lato voleva dimenticare in fretta le miserie della guerra, dall’altro si sentiva già proiettato in un futuro di prosperità virtualmente accessibile a tutti soprattutto grazie al fortissimo sviluppo economico a cui il continente veniva sottoposto negli anni Cinquanta e Sessanta. In questi decenni di prosperità, tuttavia, non mancò chi, magari percorrendo un cammino in controtendenza, tentasse di mettere in evidenza che il benessere non aveva coinvolto tutti gli strati della popolazione e, soprattutto, come alle sue manifestazioni più esteriori non corrispondesse quasi mai un analogo progresso culturale, morale, esistenziale. Per Luis Buñuel, emigrato in Messico per sfuggire alla guerra e al franchismo, la storia di Jaibo e Pedro narrata in I figli della violenza (1950) può evidentemente rappresentare la realtà di qualsiasi altra metropoli europea o americana, proprio come la Città del Messico in cui è ambientata la tragedia dei due giovani protagonisti (il prologo, con una voce over che inquadra il contesto delle vicende, mostra infatti un montaggio di immagini di New York, Parigi e Londra, oltre che della stessa capitale messicana). Buñuel rappresenta iperrealisticamente la realtà misera del fatiscente quartiere in cui vivono i due ragazzi, riuscendo a cogliere gli aspetti meno evidenti e più paradossali di quella realtà con la stessa forza del suo documentario del 1932 Las Hurdes sulle condizioni di assurdo sottosviluppo in cui versava l’omonima regione spagnola. La concezione del mondo totalmente pessimista e negativa che Buñuel applica in I figli della violenza vede la condizione umana dominata dalle passioni, regolata dall’ineluttabile coazione a ripetere gli stessi errori.

A differenza dei film degli autori del neorealismo che, pur nel loro profondo pessimismo (si pensi ai finali di Germania, anno zero o di Sciuscià), lasciavano uno spiraglio di speranza in un futuro migliore (e, comunque, si inserivano all’interno di un più generale movimento progressista che vedeva in quei film un primo passo verso la ricerca di soluzioni ai problemi sociali affrontati), Buñuel nega ai suoi personaggi qualsiasi possibilità di riscatto. Tale posizione fu bollata come nichilista non solo, ovviamente, dal governo messicano, ma anche dagli esponenti della critica di sinistra che la giudicarono incapace di adombrare la possibilità di un cambiamento.

Non meno estrema e disillusa (nonché altrettanto criticata, anche da sinistra) è la rappresentazione del sottoproletariato urbano data da Pier Paolo Pasolini in Mamma Roma (1962). Ettore, l’adolescente figlio della prostituta Roma, è il simbolo di una povertà non solo e non tanto materiale quanto soprattutto spirituale e intellettuale, incapace com’è di frapporre qualsiasi filtro critico tra le ambizioni piccolo borghesi della madre e la propria totale ingenuità e impreparazione di fronte all’esistenza. Con Pasolini – intellettuale calato in prima persona nella polemica politica del proprio Paese – si passa a una visione della realtà sociale più precisa, antropologica, che individua nei vecchi e nuovi inurbati delle borgate romane i rappresentanti di quel sottoproletariato abbandonato tanto dalla chiesa quanto dalle organizzazioni politiche, incapace di organizzarsi socialmente, dunque destinato a vivere in un’eterna condizione di subalternità rispetto alla borghesia.

Una dimensione fuori dal tempo (un tempo che, tuttavia, diviene fattore palpabile della rappresentazione) sembra invece caratterizzare Mouchette (1967) di Robert Bresson, tratto da un romanzo dello scrittore cattolico Georges Bernanos. La sua protagonista, l’adolescente Mouchette, vive da emarginata la condizione di miseria della propria famiglia e paga un prezzo altissimo, che ha il sapore di un rassegnato sacrificio. Nel film emergono con puntualità tutti i rischi e i problemi che affliggono i minori costretti a crescere all’interno di famiglie povere: violenze, malattie, emarginazione sociale, scarso rendimento scolastico. Tutto ciò viene descritto da Bresson attraverso uno sguardo che sembra esplorare il mondo circostante con lo stesso timore della sua protagonista, guidata verso il proprio triste destino da una volontà superiore a cui ribellarsi sembra impossibile. Alla visione ad altezza d’uomo, neutra, priva di connotati immediatamente riconoscibili del neorealismo se ne sostituisce un’altra in cui gli sguardi particolari dei singoli autori, pur scevri dalla volontà di giudicare i propri personaggi, incarnano un’idea estranea al concetto di Storia, distante dalla prefigurazione di un possibile, sia pur anteriore, riscatto sociale. Non per niente questi tre film hanno tutti il sapore della parabola, ricchi come sono di significati simbolici profondi, provenendo da tre autori diversissimi, tuttavia accomunati da una medesima attenzione verso gli aspetti più diversi della religione cattolica, da posizioni spesso considerate “eretiche”. Ad accomunare i tre giovani protagonisti è il loro martirio, la loro funzione di icone all’interno dell’economia significante dei film (si pensi all’inquadratura di Ettore disteso su un letto di contenzione, così simile al Cristo in scurto di Andrea Mantegna) e, al tempo stesso, il loro essere corpi e volti attraverso i quali mostrare la miseria di un mondo che ha deciso di emarginarli. A differenza della maggior parte dei bambini protagonisti dei film neorealisti, altrettanto sventurati ma idealmente partecipi di un futuro comune, il connotato essenziale che unisce Pedro, Ettore e Mouchette è, dunque, la solitudine, l’estraneità, l’esclusione da parte di una società della quale, fatalmente, non faranno mai parte.  

Spostamenti e rimozioni

Se nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta i film sulla povertà in Europa hanno i caratteri non solo dell’eccezione (sono pochi) ma anche dell’eccezionalità (quelli ora analizzati sono tre capolavori della storia del cinema), forse anche in virtù di un’idea di progresso che nutre la certezza illusoria di uno sviluppo che non conosce confini e barriere, in quello stesso periodo la rappresentazione cinematografica della povertà subisce uno spostamento (in senso freudiano) verso degli altrove il più possibile lontani culturalmente e geograficamente dall’Occidente. Tantissimi sono i film di quei due decenni e dei successivi che, documentando la condizione di povertà e arretratezza di tante aree del Terzo mondo attraverso la descrizione realistica di vicende che hanno per protagonisti dei bambini, sono stati prima scoperti da critici e spettatori dei festival europei e poi distribuiti in sala spesso riscuotendo un buon successo di pubblico. Si va dall’India dei due primi episodi della cosiddetta “Trilogia di Apu” (Il lamento sul sentiero, 1955, e L’invitto, 1956) del maestro Satyajit Ray a quella sconvolgente e iperrealista descritta da Mira Nair in Salaam Bombay! (1988), dalla San Paolo di Pixote, la legge del più debole (Hector Babenco, 1981) alla Rio de Janeiro di Walter Salles in Central do Brasil (1997), dalla Cina rurale di Non uno di meno (Zhang Yimou, 1999) alla Pechino dai contrasti stridenti del film di Wang Xiaoshuai Le biciclette di Pechino (2001), dal Kurdistan freddissimo di Il tempo dei cavalli ubriachi (Bahman Ghobadi, 2000) all’Iran infuocato di Il corridore (Amir Naderi, 1985), e così via… Una risposta polemica a questa specie di “visione presbite” è possibile coglierla in Proibito rubare (1948) di Luigi Comencini. La storia di don Pietro, un giovane missionario giunto a Napoli dal Nord e che, prossimo a imbarcarsi per l’Africa, decide di rimanere a prestare la propria opera nella città perché colpito dal grave stato di bisogno e di abbandono in cui versano i fanciulli partenopei, è anche una risposta alla visione cupa e pessimista sull’infanzia proposta dai contemporanei film neorealisti di De Sica e Rossellini. Tuttavia, “delocalizzare” la rappresentazione della povertà trasferendola geograficamente non è l’unico modo in cui il cinema ha rappresentato una realtà così scomoda che diviene più accettabile se collocata in un contesto per così dire “esotico”. Un’altra soluzione è, infatti, quella di spostarsi nel passato, più o meno remoto, attraverso una serie di riferimenti il più possibile prossimi a situazioni storiche, tipi sociali e, soprattutto, atmosfere e suggestioni già individuati e sfruttati in letteratura. Se l’Oliver Twist (2005) di Roman Polanski è solo l’ultima (e forse non la migliore) di un’innumerevole serie di trasposizioni dei romanzi di Charles Dickens – l’intellettuale che per primo scelse il punto di vista dei bambini per descrivere povertà, degrado ed emarginazione sociale della nascente società industriale – nella stessa scia sono film che, pur non collocando le vicende narrate a metà del diciannovesimo secolo, si avvicinano per atmosfere e personaggi a quei prototipi e fanno riferimento, in definitiva, a strutture narrative di carattere letterario. Due esempi per tutti (non a caso entrambi di provenienza anglosassone) possono essere Le ceneri di Angela (1999), tratto dal celebre romanzo omonimo di Frank McCourt e portato sul grande schermo da Alan Parker, e Liam (2000) di Stephen Frears. I due film, apparentemente simili perché ambientati negli anni Trenta (durante il periodo di crisi economica che seguì il crack finanziario del 1929), il primo in Irlanda, l’altro in Gran Bretagna, sono in realtà portatori di due visioni della povertà molto diverse. Le ceneri di Angela descrive con malcelato compiacimento la spirale di indigenza e stenti in cui piomba la famiglia del piccolo Frank, indugiando in una ricostruzione paradossalmente ridondante e accademica della miseria e ignorando il tono sarcastico e scevro dall’autocommiserazione del romanzo. Liam, al contrario, ha il tono mesto (e onesto) di chi ha voluto raccontare la povertà e gli stenti prodotti dal dramma della disoccupazione da una prospettiva davvero a misura di bambino. Non è un caso se Frears (a differenza di Parker) sia sempre stato sensibile ai problemi degli emarginati (gli immigrati di My Beautiful Laundrette, gli omosessuali di Prick Up, i disoccupati di Due sulla strada o la famiglia proletaria di The Snapper) senza mai cadere, tuttavia, nel pauperismo compassionevole e di maniera che caratterizza molti altri film inglesi. Emerge da questi esempi la tendenza a proporre – e persino ad esibire – la povertà come un problema vecchio, da relegare all’interno di dimensioni geografiche (l’altrove sottosviluppato e per fortuna lontano) e temporali (un passato che si dà per lasciato definitivamente alle proprie spalle) dalle quali lo spettatore si sente al riparo proprio grazie a quelle immagini che, come vedremo in seguito, possono invece contribuire alla conoscenza del problema.  Prospettive rurali Mentre i film finora analizzati, collocando l’azione dei propri personaggi sullo sfondo urbano o suburbano delle nascenti città industriali (o delle megalopoli del Terzo mondo) puntano il dito contro i mali tipici dell’inurbamento, altri affrontano il problema della povertà e dell’arretratezza nelle campagne. Il punto di vista si fa meno scontato, il conflitto si sposta dall’asse individuo-società (e dalla ricerca di forme di integrazione sociale o economica) a quello individuo-natura, riportando i termini del discorso sulla povertà su un piano più originario e, dunque, anche più interessante, specie quando la rappresentazione non si limita a rievocare un passato pre-industriale, ma riesce a far emergere squarci di realtà contemporanea a dir poco sconcertanti. Se Pelle alla conquista del mondo (1987) di Bille August, ispirato al primo volume della trilogia di Martin Andersen Nexö, riproponendo il dramma dell’emigrazione all’interno di un ambiente poco consueto (quello agricolo) attraverso le vicissitudini del piccolo Pelle e di suo padre, immigrati in Danimarca dalla Svezia sul finire del diciannovesimo secolo per cercare scampo dalla povertà, non è privo di una serie di elementi di critica sociale riconducibili alle istanze progressiste che, all’inizio del Novecento, portarono alla nascita dei primi movimenti sindacali in Scandinavia, quasi tutti gli altri film affrontano il tema dell’indigenza nelle campagne come fatto da accettare e con il quale convivere. L’esempio più importante è L’albero degli zoccoli, il film vincitore della Palma d’oro al festival di Cannes nel 1978, di Ermanno Olmi che guarda alla società contadina alla fine dell’Ottocento in maniera opposta rispetto a quella di ogni altro autore: il sentimento dominante è l’accettazione di uno status quo che, pare voler suggerire l’autore servendosi di una messa in scena sobriamente realistica (a tratti minuziosamente filologica) e al tempo stesso attraversata da momenti di profondo lirismo, deriva dall’alto, da un ordine superiore rispetto al quale ogni giudizio sulla società diviene relativo. Molto meno noto del film di Olmi ma simile nei toni è Gli ultimi (1963) di Vito Pandolfi, tratto non a caso da un testo di padre David Maria Turoldo: ambientato durante il fascismo (ma pervaso da un’atmosfera sospesa, fuori dal tempo), il film si fa portatore di una morale del sacrificio e della dignità conquistata soprattutto attraverso il lavoro nei campi, durissimo in una terra dalla natura ostile. Il giovane protagonista, emarginato dai compagni di classe perché troppo povero, trova parziale riscatto alla sua condizione di esclusione entrando nel ciclo produttivo del mondo contadino, riconciliandosi con quella natura che, solo in questo modo, riuscirà a vedere non più come matrigna. Decisamente più complessa è, invece, la prospettiva scelta dai fratelli Taviani, che in Padre padrone (1977), dall’omonimo romanzo autobiografico di Gavino Ledda, sollevano la questione del legame degli umili con la terra e le sue tradizioni ancestrali. Il protagonista, figlio di un pastore sardo, dovrà compiere un percorso duplice, di liberazione dall’influsso di una cultura atavica attraverso lo studio e, successivamente di riscoperta di quella cultura alla luce di un’emancipazione intellettuale caparbiamente cercata. Ma il film che meglio riesce a calare il tema della povertà rurale nella contemporaneità, facendo emergere contraddizioni e prospettive inedite (o per lo meno trascurate) è Ci sarà la neve a Natale? (1996)della regista francese Sandryne Veysset. Qui la povertà è lo strumento attraverso il quale un uomo tiene incatenati alla terra i suoi sette figli illegittimi e la donna che glieli ha dati, costretti a coltivare i campi per sopravviere. Il film porta alla luce una situazione che risulta del tutto credibile anche all’interno di un contesto contemporaneo, e questo proprio grazie ad una rappresentazione sempre in bilico tra un realismo minuto, mai appiattito su convenzioni naturalistiche, e uno sguardo ancora capace di provare stupore di fronte alla bellezza della natura o di indignarsi davanti ai soprusi del protagonista maschile. A venire in primo piano in questi film non è, dunque, lo sradicamento dei protagonisti dal proprio contesto d’origine, bensì il legame con tradizioni troppo forti o radicate, l’isolamento all’interno di una condizione lavorativa inumana, scandita dal trascorrere delle stagioni, dal tempo della natura e non da quello dell’uomo. E se tanto in Ci sarà la neve a Natale? quanto in L’albero degli zoccoli la dimensione familiare riesce almeno parzialmente a risarcire l’orizzonte di desolazione nel quale sono costretti a muoversi i giovani protagonisti, negli altri film, da Gli ultimi a Padre padrone a Pelle, i personaggi devono affrontare un percorso solitario, probabilmente ancora più duro di quello dei propri omologhi urbani, perché destinato ad allontanarli da un orizzonte culturale eccessivamente forte e coeso.  

Percorsi opposti nel cuore dell’Europa

Chi sono gli autori contemporanei che con maggiore coerenza hanno affrontato il tema della povertà e dell’emarginazione sociale nell’Europa di oggi? Si tratta di registi che a questi temi hanno dedicato buona parte della propria opera e che, pur ispirati da una medesima necessità di denuncia, spesso lo hanno fatto da posizioni diametralmente opposte. Due esempi per tutti: il regista inglese Ken Loach, fautore di un cinema militante, appassionato, coinvolto e coinvolgente e i fratelli belgi Luc e Jean-Pierre Dardenne, che hanno proposto una visione fredda, razionale, distaccata (eppure così prossima ai propri personaggi) del problema della povertà. Quello di Ken Loach è un cinema votato alla rappresentazione delle realtà più scomode e marginali e che per farlo si avvale di tutti i mezzi (classici e non) della narrazione cinematografica, anzi di ogni possibile espediente (drammatico e/o melodrammatico). Quasi tutti i suoi film sono incentrati sul problema della disoccupazione, della povertà e del degrado e in alcuni casi, come in Piovono pietre (storia di un disoccupato che cerca di mettere insieme i soldi per la prima comunione della figlioletta) oppure in Ladybird Ladybird (nel quale una madre considerata incapace di assistere i suoi quattro bambini, se li vede sottrarre dai servizi sociali) è ancora l’universo familiare il punto di partenza della sua accusa verso una società incapace di assistere adeguatamente e con sensibilità i più bisognosi. La rappresentazione delle povertà nel cinema inglese, del resto, sembra dover passare sempre e comunque attraverso una forte rielaborazione della realtà in chiave drammatica ed espressiva come, ad esempio, in due film le cui storie sono di tono e di senso opposti: da un lato Billy Elliot (2000) di Stephen Daldry, campione di incassi alcune stagioni fa, capace di raccogliere con abilità i modi e i temi del cinema della cosiddetta British Renaissance per metterli al servizio di un apologo ottimista sulla speranza di uscire dalla povertà esclusivamente grazie al talento e alla passione, dall’altro Ratcatcher (1999), di Lynne Ramsay, cupa parabola di morte e desolazione ambientata durante gli anni Settanta in una Glasgow invasa dai rifiuti, nel quale la narrazione frammentaria e decostruita offre allo spettatore una visione totalmente pessimista dei guasti causati da disoccupazione e degrado. Della capacità di rinnovare e ridiscutere temi già affrontati che caratterizza il cinema dei fratelli Dardenne non si può non stupirsi, considerando, inoltre, la semplicità dei mezzi utilizzati, il modo diretto di affrontare le vicende, basato su una descrizione meticolosa, fenomenologica di azioni quotidiane e comportamenti minuti dei protagonisti. Un cinema che dichiara la sua vicinanza al documentario sociale (i due fratelli hanno per anni testimoniato attraverso la macchina da presa i più diversi aspetti della vita operaia nella regione della Vallonia) la cui forza risiede nell’assenza di ogni giudizio morale sulle vicende narrate, paradigmatiche in virtù della loro semplicità e schiettezza e non grazie a esplicite scelte di regia che facciano leva sulle emozioni degli spettatori. Dai loro film (La promesse, Rosetta, L’enfant – Una storia d’amore) emerge un universo sociale niente affatto scontato: i personaggi, anzitutto, dal primo fino all’ultimo, non si lamentano mai, non si proclamano vittime della società (forse perché non saprebbero neanche come fare), ma lottano silenziosamente per guadagnarsi da vivere, in maniera più o meno lecita; a sua volta la società non li giudica allo stesso modo in cui non li compatisce. Un cinema militante, certo, ma capace anzitutto di avvicinarsi alle cose per comprenderle e per “sentire” i problemi da vicino, più di quanto il cinema non abbia mai fatto. Grazie ai Dardenne la macchina da presa – rigorosamente a spalla – scende nuovamente ad altezza d’uomo (impegnando fisicamente lo spettatore nella visione) e in strada, ma ciò che emerge con tutta evidenza è che, proprio quelle strade che nei film del passato erano il luogo dove chi era povero poteva incontrarsi per tentare di condividere con altri un sentimento di solidarietà, per sentirsi meno escluso, oggi sono il luogo in cui, sempre più spesso, i tragitti dei personaggi si dividono. Ci pare significativo che, al di là delle scelte particolari dei governi dei rispettivi Paesi in materia di stato sociale, un cinema di pura e semplice “testimonianza” come quello dei fratelli Dardenne sia riuscito a produrre cambiamenti reali nella politica del lavoro in Belgio (le cosiddette “leggi Rosetta” a tutela dell’occupazione giovanile che hanno preso il nome dall’omonimo film), mentre quello di militanza e “opposizione” di Loach, a volte affetto da un’ansia dimostrativa apprezzabile dal punto di vista della passione ma eccessivamente caricata nei toni, continui a rivolgersi in maniera pressoché esclusiva a un pubblico a sua volta militante. A metà strada tra i Dardenne e Loach sembra fermarsi Bertrand Tavernier con il suo Ricomincia da oggi (1999). L’ottica adottata è quella frontale e volitiva del protagonista, un direttore scolastico che opera in un piccolo centro nella provincia di Lille, tenta in tutti i modi di supplire alle carenze delle strutture assistenziali del proprio dipartimento e si scontra, oltre che con il degrado e la povertà che affliggono le famiglie dei suoi alunni, anche e soprattutto con l’incomprensione e i rifiuti dei politici e degli amministratori locali. Ispirato alle esperienze di un vero insegnate (Dominique Sampietro, autore del soggetto) il film adotta una prospettiva di impegno civile che vede anzitutto nel ruolo (più o meno positivo) dei rappresentanti delle istituzioni il fattore determinante per la soluzione dei problemi sociali. Se il film trae forza dall’onestà e dalla schiettezza con cui denuncia una condizione di rara arretratezza nel cuore di uno dei paesi più ricchi dell’Unione europea, lo fa anche grazie all’uso di volti presi dalla strada e alla quasi totale eliminazione di una linea drammatica a favore di una narrazione punteggiata da notazioni minime sulle piccole e grandi difficoltà del quotidiano. Ambientato anch’esso a Lille come il film di Tavernier, ma legato per ciò che riguarda la tematica del lavoro al cinema dei Dardenne (curioso notare quanto sia vicina al confine con il Belgio la località francese), è La vita sognata dagli angeli (1998) di Erick Zonca: la storia di due ragazze che per un breve periodo mettono insieme le proprie solitudini e affrontano una vita grama costellata di occupazioni non qualificate e mal retribuite, scopre quell’orizzonte fatto di precarietà e incertezze che connota l’esistenza di tanti giovani d’oggi. Se una delle due sembra possedere la stessa forza d’animo della Rosetta dei Dardenne con un pizzico di ottimismo e di sensibilità in più, l’altra si lascerà trascinare fino al suicidio dalla piega di indeterminatezza presa dalla sua vita. Infatti, com’è più volte emerso durante questo excursus, ciò che distingue le vecchie povertà dalle nuove è l’impossibilità di trovare un terreno comune di incontro con chi vive la medesima condizione: se nei film di Loach e di Tavernier emerge l’assenza delle istituzioni (sindacati, assistenza sociale, eccetera) e si esalta il ruolo positivo della solidarietà spontanea nella soluzione dei piccoli e grandi problemi connessi alla disoccupazione e alla povertà, in quelli dei Dardenne e di Zonca si evidenzia la marginalità sociale in cui vivono i protagonisti, la precarietà lavorativa che si riflette negativamente sulla vita quotidiana, sulle amicizie, sugli affetti. Così, se in passato le carenze del sistema venivano supplite da una rete sociale che spesso riusciva a garantire almeno la mera sopravvivenza, soprattutto per i più giovani, oggi è quello stesso tessuto comunitario a venire meno sotto la spinta di un modello di società che esige sempre maggior dinamismo e mobilità.  

In fuga dalla povertà?

La questione problematica della quasi totale assenza di rappresentazioni della povertà in Europa che abbiamo tentato di chiarire avvicinandola al termine psicoanalitico dello spostamento trae forse ulteriore validità nell’atteggiamento miope con cui la politica e la società europea hanno affrontato il problema dell’apertura delle frontiere all’immigrazione dai paesi del Mediterraneo e dall’Est Europa. Allo sguardo gettato dal cinema al di là degli oceani per mostrare situazioni di degrado e povertà lontane spesso non ha corrisposto una reale presa di coscienza della portata del dramma e della sua successiva evoluzione. È una responsabilità che l’Occidente ha ritenuto di non doversi assumere, malgrado abbia sfruttato anche e proprio il cinema come cassa di risonanza per ostentare quel benessere a caccia del quale tanti disperati bussano alle sue porte. Eppure, come abbiamo visto, moltissimi sono stati i film che hanno documentato non solo le realtà del Terzo mondo, ma anche quelle emerse all’indomani della caduta della cortina di ferro e che, dopo anni di propaganda, hanno messo in evidenza proprio quelle situazioni di povertà e sottosviluppo che i vari regimi avevano tenuto nascoste: si va dalla scioccante situazione di povertà dell’Unione Sovietica all’indomani della seconda guerra mondiale descritta attraverso gli occhi del dodicenne Valerka protagonista di Sta’ fermo, muori e resuscita (1989) di Vitali Kanevskij, all’ironia con cui viene descritto il “percorso di formazione” di Penhan, adolescente rom che si ritrova coinvolto in un traffico di bambini tra Jugoslavia e Italia in Il tempo dei gitani (1989) di Emir Kusturica, alla spontaneità lontana dal realismo di regime di un film che descrive frustrazioni e ambizioni dei giovani sovietici come La piccola Vera (1988) di Vasilij Pičul. L’immagine svela, così, la sua natura duplice e ambivalente (se non addirittura ambigua): quegli “atti di denuncia” (di accusa?), rivolti soprattutto al pubblico occidentale dei festival e delle sale d’essai, se hanno messo gli spettatori in comunicazione con le realtà mostrate, allo stesso tempo hanno creato una distanza con quelle immagini relegandole in quell’“irrimediabile alterità” che lo schermo del cinema sembra favorire quando si fa schermo protettivo e non più proiettivo. Un rischio, questo, sempre in agguato, ma che forse vale la pena di correre, magari con l’aiuto di una maggiore consapevolezza.  

Filmografia

I film contrassegnati con l’asterisco sono disponibili per la visione presso la biblioteca Innocenti.