L’orfanotrofio: un “altrove” inquietante, specchio della nostra società

Dai classici della letteratura vittoriana ai film di genere horror dei giorni nostri l’orfanotrofio ha sempre goduto di un posto di prima grandezza nell’immaginario sull’infanzia e sull’adolescenza. Proprio dall’orfanotrofio diretto dal perfido mister Bumble, Charles Dickens fa partire le avventure di uno dei suoi personaggi più celebri, Oliver Twist<--break->, protagonista del romanzo omonimo dalle innumerevoli versioni cinematografiche (le più celebri, quelle di David Lean nel 1947, di Carol Reed nel 1968, di Clive Donner nel 1982, di Roman Polanski nel 2005). Fin da questo prototipo non solo tematico ma anche formale (vista la capacità del romanziere inglese di restituire per “immagini in movimento” la società del diciannovesimo secolo) emergono una serie di caratteristiche tipiche di un luogo come l’orfanotrofio che, con il passare del tempo, andranno via via aggiornandosi, mantenendo tuttavia una serie di costanti: l’inflessibile disciplina impartita da figure di insegnanti odiosi (si pensi, ad esempio, a tutta la prima parte del romanzo di Charlotte Brontë Jane Eyre, portato sullo schermo da Robert Stevenson con il titolo La porta proibita, 1944), le condizioni di vita al limite dell’umano sopportate dai bambini (si veda, in particolare, la vivida rappresentazione che ne dà Polanski nella sua versione dell’Oliver Twist oppure quella ironica immaginata da John Huston in Annie, 1982), la prepotenza come regola di comportamento e chiave nei rapporti interpersonali tra i ragazzi (come emerge, per esempio, in Les Choristes - I ragazzi del coro di Christophe Barratier, 2004).

Se la descrizione iperrealistica delle condizioni di vita negli orfanotrofi aveva nelle intenzioni di Dickens soprattutto una funzione di denuncia e sensibilizzazione nei confronti dell’opinione pubblica, essa discendeva anche da una tradizione gotica che, a metà dell’Ottocento, era ancora molto forte. L’orfanotrofio si imponeva nell’immaginario collettivo come luogo attraverso il quale la società rispondeva con la crudeltà, la privazione e la violenza all’assenza di una famiglia o a una condizione di estrema povertà, quasi compiacendosene e forse convincendosi, proprio in forza di una rappresentazione tanto eccessiva, che la realtà fosse circoscritta a pochi casi. Questo luogo diventava, con le altre istituzioni destinate all’isolamento di chi, in un modo o nell’altro, era irregolare (dall’ospedale, al carcere, al manicomio) uno degli spazi più frequentati dalla letteratura romantica e tardo-romantica. Di vero e proprio orrore si può parlare nei casi di tutti quei film appartenenti al genere horror (appunto) ambientati all’interno di orfanotrofi trasformati in veri e propri luoghi da incubo nei quali i giovani ospiti sono, di volta in volta, cavie per esperimenti (come nell’estetizzante Saint Ange di Christopher Gans, 2004) o preda di maledizioni demoniache (come in Fragile - A Ghost Story di Jaume Balagueró, 2005).

Verrebbe da chiedersi il perché di tanto accanimento nel cercare una sorta di macabra e spettacolare celebrazione cinematografica dell’accanimento su chi è già stato punito dal destino in tenera età. È probabile che, al di là della semplice persistenza di determinati modelli formali collaudati nel tempo – si veda il recente horror The orphanage di Juan Antonio Bayona (2007), vera e propria summa di stereotipi da racconto gotico – l’orfanotrofio, proprio come accennato, fosse uno dei tanti luoghi dell’immaginario (e sopratutto della realtà) nei quali la società collocava coloro i quali dovevano essere rimossi dal consesso civile perché diversi e che, prima o poi, dal passato o da altre dimensioni paranormali, potevano tornare in forme mostruose. È un modo come un altro per mettere in scena l’irregolarità relegandola al di là di un confine “fantastico” oltre il quale diviene più facilmente rappresentabile, proprio perché collocata in un altrove che ha pochi punti in comune con la realtà.

Ma le derive nell’irrealtà di mondi da incubo possono essere anche l’avvisaglia inquietante di un disagio sociale e politico profondo: è il caso di La spina del diavolo (El espinazo del diablo, 2001) di Guillermo del Toro che narra le vicende di un bambino figlio di un eroe di guerra repubblicano ucciso dai nazionalisti che finisce in un orfanotrofio popolato dai fantasmi di altri fanciulli portatori di annunci di morte. È evidente la metafora del franchismo nella rappresentazione del clima opprimente dell’istituto (nel cortile del collegio campeggia minacciosa una bomba inesplosa) e nell’inquietante raffigurazione dei personaggi adulti. In questo caso l’orfanotrofio con le sue regole rigide e soffocanti si fa simbolo di un’intera nazione “orfana” della democrazia, ossessionata da fantasmi e schiacciata da strutture istituzionali corrotte. Non meno minaccioso per l’atmosfera repressiva e i metodi violenti del suo personale è l’orfanotrofio (in realtà più una struttura simile a un riformatorio) di Crónica de un niño solo (1965) opera prima di Leonardo Favio: qui è la dittatura argentina lo spettro che, neanche tanto velatamente, ispira la rigidissima disciplina dell’istituto e opprime le esistenze dell’undicenne Polin e dei suoi compagni, ansiosi di sottrarsi all’insopportabile “tutela” dei loro custodi.

Tuttavia, l’esempio più inquietante di rappresentazione metaforica della Storia attraverso le vicende legate a un orfanotrofio e alle figure che vi gravitano intorno è quello di Evilenko (Italia 2004) di David Grieco. È la storia romanzata di Andrej Romanovic Cikatilo (nel film ribattezzato Evilenko), il serial killer più spietato del ventesimo secolo, autore di 52 infanticidi, attivo in Unione Sovietica fino al 1992, quando venne arrestato per poi essere condannato a morte nel 1994. Preside e docente nell’orfanotrofio di cui era stato ospite dopo la morte del padre internato in un gulag, Evilenko deve dimettersi dopo aver tentato di stuprare un’allieva. Da qui si dipana una lunga catena di omicidi che, nell’abile ricostruzione di Grieco, vengono motivati proprio dai soprusi subiti dal “mostro” durante l’infanzia trascorsa in istituto e, soprattutto, dall’idolatria verso la figura di Stalin, al tempo stesso “padre putativo” e assassino del suo vero padre. Anche in questo caso le vicende storiche sono filtrate attraverso la vita “esemplare” di un individuo che, privato degli affetti familiari, viene educato da un’istituzione capace di corromperne irrimediabilmente l’animo, diventando il simbolo di un intero popolo per decenni educato al disprezzo verso la famiglia vista come primo simulacro della vita borghese.

Del resto, che l’orfanotrofio incuta nell’immaginario collettivo un istintivo timore anche in contesti non connotati da particolari rivolgimenti storici si evince da film come Tutte le sere alle nove (Our Mother’s House, Gran Bretagna 1967) di Jack Clayton, Il giardino di cemento di Andrew Birkin o La frattura del miocardio di Jacques Fansten (1990): i giovani protagonisti di questi lungometraggi sembrano aver imparato dai loro antesignani e, rimasti orfani a loro volta, lottano strenuamente per sottrarsi a un destino che pare ineluttabile. In entrambi i film, pur diversissimi, ciò che i ragazzi cercano è di sfuggire al controllo di insegnanti, assistenti sociali, poliziotti, dunque a un’“istituzionalizzazione” che per gli adulti sembra l’unica soluzione possibile al venire meno della struttura familiare originaria: il minore, ancora una volta, più che individuo da proteggere, in mancanza della tutela genitoriale appare come un soggetto “irregolare” da isolare e riportare a una condizione di normalità.

Che l’orfano rappresenti una sorta di contraddizione in seno a una società basata sulla famiglia concepita come nucleo indissolubile, l’oggetto di una rimozione che rischia di tornare a galla non solo nelle forme eclatanti del mostruoso fantastico ma anche in quelle più concrete di un mostruoso che potremmo definire “storico”, risulta chiaro da film come Inno di battaglia (Battle Hymn, usa 1957) di Douglas Sirk nel quale un aviatore in crisi di coscienza, dopo aver involontariamente provocato una strage bombardando un orfanotrofio tedesco nel corso della Seconda guerra mondiale, diventa pastore protestante e si arruola volontario nella guerra di Corea dove ha modo di salvare degli orfani coreani e di costruire per loro un istituto. Alla struttura narrativa del classico film di guerra si sovrappone quella del melodramma esistenziale, in un tentativo di risarcire a posteriori non solo la propria cattiva coscienza per una guerra del passato prossimo sicuramente giusta, ma anche quella per un conflitto appena conclusosi e dal carattere decisamente più ambiguo.

Apparentemente molto diverso da questo esempio, ma in realtà aggiornato solo nelle forme allo spirito politically correct degli anni Novanta è Benvenuti a Sarajevo (Welcome to Sarajevo, Gran Bretagna/USA 1997) di Michael Winterbottom. Significativo che, in questo caso, sia un giornalista a industriarsi per salvare degli orfani ricoverati in un istituto della capitale bosniaca: la presenza di questa figura professionale ci ricorda che oggi le guerre si combattono anche e soprattutto su un fronte mediatico, che non sempre funge da semplice specchio della realtà, assolvendo spesso a un ruolo di cassa di risonanza del reale, al servizio di questa o di quella ideologia.

La guerra è ancora protagonista nel capolavoro di Andrzej Wajda Dottor Korczak (Korczak, Polonia 1990) ambientato nel ghetto di Varsavia durante la Seconda guerra mondiale: il protagonista eponimo è un medico e scrittore ebreo che dirige con dedizione e passione un orfanotrofio nella capitale polacca, prima durante l’occupazione russa e poi sotto la tremenda repressione attuata dagli invasori nazisti. Il suo rapporto con gli orfani è basato sull’amore, la fiducia, il reciproco rispetto, in contrasto e in opposizione a uno spirito del tempo dominato dalla violenza e dal sopruso. Alla squallida e abbrutente quotidianità che circonda i bambini l’uomo oppone, oltre che il suo amore e la sua dedizione, soprattutto la capacità di reinventare la realtà attraverso il ricorso frequente al gioco, alla fantasia, all’immaginazione. Si tratta di un vero e proprio capovolgimento rispetto a quanto visto finora: se l’orfanotrofio era l’istituzione in cui il confronto con la dura realtà dell’assenza di affetto e cure genitoriali si faceva ancor più doloroso, in questo caso diviene il luogo di un risarcimento materiale ed emotivo delle giovani e giovanissime vittime del conflitto. Il protagonista, non a caso, è una figura ben poco istituzionale, che si impegna ben oltre il dovuto, che rifiuta più volte l’occasione di mettersi in salvo, che per mandare avanti l’orfanotrofio utilizza metodi poco istituzionali.

Analoga a questa splendida figura di martire civile (Korczak salirà con i suoi bambini sul treno per il campo di concentramento di Treblinka in cui, insieme a loro, troverà la morte nella camera a gas) per le sue qualità umane è quella pur diversissima, anche perché del tutto immaginaria, del dottor Wilbur Larch, tratteggiata in Le regole della casa del sidro (The Cyder House Rules, usa 1999) di Lasse Halström: si tratta di un personaggio provocatorio che, se da un lato adopera tutta la sua umanità per alleviare la solitudine e il disagio dei bambini ospitati nell’orfanotrofio che dirige (ogni sera, tra l’altro, legge loro un brano tratto proprio da quei romanzi di Dickens poc’anzi citati) e si impegna per favorirne l’adozione, dall’altro aiuta le coppie che glielo chiedono ad abortire clandestinamente, proprio affinché non mettano al mondo altri piccoli infelici destinati a finire in strutture analoghe alla sua.

È proprio con la comparsa di queste figure indipendenti che sembra consolidarsi, anche a livello di immaginario cinematografico, un’idea di cura dell’infanzia abbandonata che vada oltre la concezione istituzionalizzante, basata sull’isolamento e dagli inevitabili esiti massificanti e spersonalizzanti. Uno degli esempi più emblematici è quello di Fiori nella polvere (Blossoms in the Dust, usa 1941) di Mervyn LeRoy, nel quale una donna, all’indomani della morte del marito e del figlio, si dedica agli orfani, trasformando la sua casa in un istituto riuscendo a combattere gli ingiusti pregiudizi sui figli illegittimi. Il film è interessante perché si tratta del tipico prodotto Metro Goldwyn Mayer, all’epoca concepito per un pubblico quasi esclusivamente femminile, al quale evidentemente si rivolgeva per tentare di rompere uno schema di stampo puritano particolarmente influente nella società statunitense, in quel periodo particolarmente toccata da un problema come quello degli orfani. Schema analogo per È accaduto in Europa (Valahol Európában, Ungheria 1947) di Geza von Radvanyi dove si narra l’esperienza di un gruppo di orfani ungheresi abbandonati e dispersi che, verso la fine della Seconda guerra mondiale si rifugia in un castello diroccato dove viene accolto da un vecchio direttore d'orchestra che li organizza in comunità. È significativo che questo sia il primo film importante prodotto in Ungheria all’indomani del secondo conflitto mondiale e che sia stato realizzato da un gruppo di cui faceva parte anche il celebre teorico del cinema Béla Balázs che ne firmò il soggetto e la sceneggiatura: con ogni evidenza il problema dell’infanzia abbandonata era uno dei più scottanti e, ancora una volta, è a una figura non istituzionale che il cinema si affida per rappresentare questo genere di esperienze.

In questi esempi prendono rilievo figure non professioniste (ma non per questo meno professionali), strutture residenziali più a misura di bambino all’interno delle quali il minore possa trovare, oltre all’assistenza e all’educazione, anche accoglienza e comprensione e, soprattutto, un genere di supporto reso possibile solo da chi riesca a porsi fuori dalle consuete logiche istituzionali. Pa-ra-da di Marco Pontecorvo (2008) narra le vicende reali del clown Miloud Oukili che, agendo fuori dagli schemi d’azione consolidati a favore dell’infanzia abbandonata, è riuscito nel corso di circa un decennio a far riemergere – letteralmente – dalle fogne di Bucarest decine e decine di bambini e ragazzini rumeni orfani, grazie alla capacità di coinvolgerli in un progetto che li vede protagonisti del proprio riscatto attraverso l’apprendimento dell’arte della clownerie. L’azione di questo straordinario personaggio (del quale il film restituisce, sia pur attraverso il filtro della finzione scenica, tutta l’umanità e l’autenticità) è forse il miglior esempio della necessità di agire al di fuori delle dinamiche consolidate (anche quando queste siano animate dalle migliori intenzioni), lontano da modelli eccessivamente rigidi che ben poca presa possono avere su chi vive in una condizione di estrema emarginazione. In questo caso è l’“istituzione” (se così la si può definire) che si avvicina a chi ha bisogno, con un ribaltamento degli schemi ghettizzanti e uniformanti che sembravano innervare le politiche a favore dell’infanzia abbandonata.

Fabrizio Colamartino

 

Filmografia essenziale: la rappresentazione dell’orfanotrofio nel cinema

  • Fiori nella polvere (Blossoms in the Dust), Mervyn LeRoy, usa, 1941
  • La porta proibita (Jane Eyre), Robert Stevenson, usa, 1944*
  • Le avventure di Oliver Twist (Oliver Twist), David Lean, Gran Bretagna, 1947*
  • È accaduto in Europa (Valahol Európában), Geza von Radvanyi, Ungheria, 1947
  • Inno di battaglia (Battle Hymn), Douglas Sirk, USA, 1957
  • Crónica de un niño solo, Leonardo Favio, Argentina, 1965
  • Tutte le sere alle nove (Our Mother’s House), Jack Clayton, Gran Bretagna, 1967
  • Oliver!, Carol Reed, Gran Bretagna, 1968*
  • Oliver Twist, Clive Donner, Gran Bretagna/USA ,1982*
  • Annie, John Huston, USA, 1982*
  • Dottor Korczak (Korczak), Andrzej Wajda, Polonia, 1990*
  • La frattura del miocardio (La fracture du myocarde), Jacques Fansten, Francia, 1990*
  • Il giardino di cemento (The Cement Garden), Andrew Birkin, Germania/Gran Bretagna/Francia, 1993*
  • Jane Eyre, Franco Zeffirelli, Gran Bretagna, 1996
  • Benvenuti a Sarayevo (Welcome to Sarajevo), Michael Winterbottom, Gran Bretagna/USA, 1997*
  • Le regole della casa del sidro (The Cyder House Rules), Lasse Halström, USA, 1999*
  • La spina del diavolo (El espinazo del diablo), Guillermo del Toro, Messico/Spagna, 2001
  • Les Choristes - I ragazzi del coro (Les Choristes), Christophe Barratier, Francia/Germania/Svizzera, 2004*
  • Saint Ange, Christopher Gans, Francia/Romania, 2004
  • Fragile (Fragile - A Ghost Story), Jaume Balagueró, Spagna, 2005*
  • Oliver Twist, Roman Polanski, Gran Bretagna/Repubblica Ceca/Francia/Italia, 2005*
  • The orphanage (El orfanato), Juan Antonio Bayona, Messico/Spagna, 2007
  • Pa-ra-da, Marco Pontecorvo, Italia, 2008*

I film contrassegnati con asterisco sono disponibili presso la Biblioteca Innocenty Library – Alfredo Carlo Moro e a disposizione per il prestito

 

(Crediti foto)