Chop Shop

di Ramin Bahrani

Alejandro, il giovanissimo protagonista di Chop Shop, lungometraggio statunitense di produzione indipendente, diretto da Ramin Bahrani presentato in concorso al Vittorio Veneto Film Festival, giunto quest’anno alla seconda edizione, non è certo il primo personaggio adolescente scelto negli ultimi anni dal cinema d’autore per inquadrare dal gradino più basso della scala gerarchica il fenomeno del lavoro minorile. A precederlo, i personaggi dei film dei registi belgi Luc e Jean-Pierre Dardenne  come l'Igor di La promesse o la Rosetta, protagonista dell'omonimo film vincitore della Palma d’oro a Cannes nel 1999, ma anche tante altre figure di giovani e giovanissimi molto meno conosciute come, ad esempio, quelle portate sul grande schermo dai registi iraniani, da sempre molto attenti a questa piaga che, nei Paesi in via di sviluppo, dilaga da sempre incontrollata.

Esempi niente affatto casuali: pur essendo cittadino statunitense, Bahrani viene da una famiglia originaria dell’Iran ed è molto legato ad un cinema, come quello iraniano, che ha sempre guardato con grande interesse all’infanzia, facendo dei bambini uno dei propri emblemi più conosciuti e riconoscibili attraverso i film di grandi registi come Kiarostami, Naderi, Beizai. Inoltre, con i protagonisti dei film dei Dardenne, Alejandro condivide la medesima ostinazione, la stessa caparbietà, un identico attaccamento alla vita, con una punta in più di ottimismo forse derivante dal fatto di essere leggermente più giovane dei suoi omologhi belgi.

Alejandro lavora in un "chop shop" del cosiddetto Iron triangle di Queens, a New York, un quartiere industriale dalle strade sterrate che si allagano con poche gocce di pioggia. Manhattan è proprio sull'altra sponda del fiume e i grattacieli svettano alti nel cielo, ben visibili oltre i tetti dei capannoni e, tuttavia, se non fosse per gli enormi Suv e per le berline lussuose parcheggiate lì intorno, sembrerebbe di trovarsi in un paese del Terzo mondo. Un "chop shop" è, infatti, un'officina in cui si riciclano i pezzi di ricambio presi dalle automobili in demolizione o, come accade più spesso, da quelle rubate. Alejandro non solo lavora in una di queste officine ma ci vive, grazie al "buon cuore" del proprietario che gli lascia utilizzare una stanzetta sul retro dove il ragazzino ospita anche sua sorella Isamar, di sedici anni.

Alejandro è ben lungi dall'essere un piccolo accattone, un disperato: con spirito imprenditoriale, grazie al proprio lavoro e a qualche occasionale furtarello, il ragazzino accumula un capitale considerevole che intende reinvestire in un'attività di ristorazione ambulante da gestire insieme a Isamar che, malgrado la giovane età, da tempo ha incominciato a prostituirsi.

Oltre all'ambientazione inconsueta e alla straordinaria figura di Alejandro, la cosa più bella del film è la descrizione del rapporto tra i due fratelli, impostato su rispetto, comprensione e protezione reciproca, tanto nei momenti di amarezza quanto in quelli di spensieratezza quanto, infine, in quelli di gioia, pur presenti malgrado lo squallore che li circonda. Di genitori, ovviamente neanche l'ombra, tutt'al più una serie di figure ambigue, quasi tutti uomini, che prendono sotto la loro ala protettrice i due fratelli tentando di aiutarli concretamente, molto più spesso di sfruttarli e, a volte, persino di imbrogliarli. Il termine "chop shop", infatti, oltre che riferirsi alle officine più o meno clandestine come quelle in cui lavora Alejandro, nello slang dei sobborghi statunitensi è l'equivalente di "frode", "fregatura", "truffa", proprio come quella in cui incorreranno ingenuamente il protagonista e sua sorella Isamar al termine del film, senza che ciò, tuttavia, abbia conseguenze negative sul loro rapporto o possa servire a scoraggiarli dal continuare ad andare avanti.

Alla seconda regia di un lungometraggio dopo l'altrettanto riuscito Man Push Cart, Bahrani rifiuta tutti i cliché della violenza del ghetto per introdurci, grazie a uno stile mosso e nervoso ottenuto grazie all'uso della macchina da presa quasi sempre a spalla (simile a quella dei Dardenne anche se meno ossessiva e più incline alla divagazione), in una visione spassionata della fatica di vivere di due adolescenti che guardano al lavoro come all'unica risorsa non solo per resistere in un presente poco incoraggiante ma anche per credere ostinatamente in un futuro migliore.

Un’unica notazione riguardo alla collocazione del film all’interno di una fascia d’età che, a parere di chi scrive, pare poco consona. Il Vittorio Veneto Film Festival, infatti, prevede tre giurie: bambini dagli 8 agli 11 anni, ragazzini dagli 11 ai 15 anni, ragazzi dai 15 ai 19 anni. Desta una certa sorpresa la collocazione di un film come Chop Shop nella fascia d’età dagli 8 agli 11 anni. Se di certo i giurati si identificheranno con il giovanissimo Alejandro, loro coetaneo, un film che affronta temi così gravi attraverso un linguaggio cinematografico ellittico, digressivo, allusivo, avrebbe dovuto essere destinato ai giurati appartenenti alle fasce d’età superiori.

Fabrizio Colamartino

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