Clown in Kabul

di Enzo Balestrieri

(Italia, 2002)

Sinossi

Il documentario segue un gruppo di Clown provenienti da varie associazioni attive negli ospedali in missione umanitaria nell’Afghanistan distrutto dai bombardamenti. Guidati dal capo spirituale Hunter “Patch” Adams e investiti in maniera ufficiale dal sindaco di Roma Walter Veltroni, i 23 medici-clown provenienti da tutto il mondo partono alla volta di Kabul. La missione “Patchwork for Peace” consiste nel portare aiuti umanitari (cibo, materiale didattico, medicinali) e un sorriso ai bambini afgani. Nel loro viaggio a bordo di un furgoncino dipinto con colori vivaci e coperto di palloncini, i clown visitano ospedali, centri di riabilitazione per mutilati, scuole, campi profughi, lebbrosari, incontrando personaggi attivi nel volontariato (tra i quali, ad esempio, il medico fondatore dell’associazione “Emergency” Gino Strada) e improvvisando spettacoli di clownerie ovunque ci sia anche un piccolo gruppo di persone a cui donare un po’ di colore e calore umano.

Introduzione al Film

Niente da ridere

Il documentario comincia da Roma, ideale punto di partenza e di arrivo di tutte le strade. In una piazza del Campidoglio variopinta e divertita dal diversivo domenicale di un gruppo di clown che invade la città col suo umorismo ingenuo e irriverente. È lì che Hunter “Patch” Adams, il primo e più famoso dottor clown, celebrato anche da un film interpretato niente meno che da Robin Williams, riceve l’investitura solenne per la missione da compiere. La sequenza che segue è già guerra, quella vista in tanti film, da Kubrick a Coppola, con gli spostamenti su aerei ed elicotteri pesanti e minacciosi. Eppure una volta tanto il C-130 porta un carico di pace e di buon umore, un carico di bombe umane pronte a far esplodere un sorriso su volti impietriti e abituati alla tristezza. Il documentario segue i clown, le loro intemperanze fisiche, i loro disordinati numeri, senza commento, basando il racconto sulla sola forza delle immagini. Il punto di vista è quello di chi si lascia coinvolgere nell’azione piuttosto che discostarsi a guardare e/o giudicare dall’alto, la macchina da presa è sempre pronta a reagire di fronte alle sconnessioni fisiche e psicologiche di un territorio martoriato. Poco di chiaro e poco di esplicito in quello che viene raccontato, ma evidentemente la scelta è quella di andare in un'altra direzione. Così, il documentario documenta la missione non tanto attraverso il tentativo di comprenderne i motivi, le modalità, i momenti ufficiali, quelli della consegna degli aiuti materiali, ma cercando di condividere il punto di vista dei clown. Gli operatori giocano a mimetizzarsi da clown per stare in mezzo a loro e coglierne idee e sentimenti; il punto di vista è dunque senza dubbio quello di chi indossa un naso rosso e si porta dietro tutta la divertente tristezza legata ormai culturalmente al personaggio circense. Molte delle immagini, sono disturbanti e insopportabili: mutilazioni, gallerie di piccoli arti finti e pronti a sostituire quelli veri persi a causa delle mine, operazioni effettuate senza anestesia sui piccoli corpi di grandi ustionati. Questa visione senza anestesia lascia sgomenti e porta a chiedersi come possa una bambina a cui viene strappata la pelle di dosso capire o apprezzare la presenza del simpatico uomo bianco vestito da scemo. Una polifonia di urla strazianti e di malinconiche melodie suonate con il violino, un accostamento ardito e incomprensibile, tra l’assurdo e il condivisibile, che lascia dietro di se sorrisi che hanno voglia di tornare a sbocciare.

Il ruolo del minore e la sua rappresentazione

L’infanzia negata

Dove c’è un clown c’è sempre un bambino con in mano un palloncino. Non viene meno a questa antica regola Clown in Kabul. I bambini popolano le inquadrature, seguono le acrobazie e le giocolerie di questi stralunati personaggi e inseguono il furgoncino sperando forse che qualche giocattolo cada dai finestrini. La clownerie diventa prima di tutto strumento e mezzo per mostrare ai bambini afgani un modo diverso di incontrare gli occidentali: non portatori di guerra ma dispensatori di pace e divertimento. Negli ospedali, dove i bambini sono costretti all’immobilità per le cause più diverse e agghiaccianti, l’effetto dell’arrivo dei clown è accolto nei modi più disparati: c’è chi corre ad accoglierli e si tuffa nella possibilità di ricevere regali e carezze, c’è chi rimane in disparte tra la timidezza e la diffidenza con un vago desiderio di essere ‘stanato’ e coinvolto, c’è chi osserva con lo sguardo già adulto e disilluso sforzandosi di non concedere nemmeno un sorriso, che sarebbe come regalare una soddisfazione troppo grande al ‘nemico’. Per tutti ci sono facce buffe e palloncini, colorati contenitori di sogni e aspirazioni da far volare senza perderli di vista. Eccoli qui i bambini di guerra, quelli delle statistiche e delle notizie dei telegiornali: la poesia e l’ingenuità non hanno posto in questi luoghi ingombrati dallo sforzo di vivere e di sopravvivere; in una realtà in cui le mine sono a forma di giocattoli, è quasi meglio giocare con le vere armi ormai vecchie e inoffensive, anche se diventa poi quasi automatico ripetere il gioco della guerra. Bambini a cui è stata negata l’infanzia, quel periodo dedicato alla scoperta e al gioco, al divertimento e all’apprendimento; bambini che hanno il destino segnato dalle mutilazioni e dalle malformazioni, piccoli che diventeranno grandi inabili al lavoro e capaci solo di vivere sulla pietà degli altri per la loro condizione. Bisognosi di tutto, dall’istruzione alle cure, dalle protesi ai giocattoli, condannati a crescere in una situazione di arretratezza culturale e di indigenza, gli ingredienti dell’odio e della violenza. Eppure in loro non si è spenta la fiamma della curiosità e del gioco, nelle loro corse ad inseguire un furgoncino di stranieri, nei mille occhi di folle accalcate di fronte ad un palcoscenico improvvisato, nel loro arrampicarsi sui tetti e sugli alberi pur di vedere i clown.

Riferimenti ad altre pellicole e spunti didattici

Clown in Kabul per il linguaggio utilizzato e per alcune immagini molto crude si presta esclusivamente ad una visione per le classi quarte e quinte delle scuole medie superiori. Per un discorso sul documentario e sul modo di raccontare la realtà, alla visione di questo film può essere affiancata la visione di Baba Mandela di Riccardo Milani, mentre per un approfondimento sull’infanzia in paesi in guerra si consiglia la visione di Osama di Siddiq Barmak e di Il tempo dei cavalli ubriachi di Bahman Ghobadi. Ludovico Bonora  

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