Il nastro bianco

18/11/2009 Tipo di risorsa Schede film Temi Violenza intrafamiliare Titoli Rassegne filmografiche

di Michael Haneke

Forse lo spettatore avrà notato che, sia sulla locandina del film qui a lato, sia durante i titoli di testa, sotto la scritta Il nastro bianco campeggia un sottotitolo dai caratteri indecifrabili.
È redatto in corsivo Sütterlin, uno stile tradizionale di bella grafia che veniva insegnato nelle scuole tedesche fino al 1941. Se lo si sapesse decodificare – e sembra che oggi nemmeno i tedeschi lo sappiano più fare – vi si potrebbe leggere Eine deutsche Kindergeschichte traducibile in italiano come “un racconto tedesco per bambini” oppure come “un racconto di bambini tedeschi”.

La didascalia, sebbene sia illeggibile, equivoca e apparentemente innocua, rappresenta, a nostro modo di vedere, la chiave di lettura, meglio il codice di decifrazione, dell’ultimo capolavoro di Michael Haneke, Palma d’oro all’ultimo Festival di Cannes, in questi giorni nelle sale italiane.

Il nastro bianco è, infatti, sia un film che narra vicende capitate ad alcuni bambini e adolescenti di Eichwald, un piccolissimo villaggio contadino della Prussia, poco prima dello scoppio della Grande guerra, sia una fiaba per bambini, non certo rassicurante o edificante, ma al contrario ammonitrice, macabra, raccapricciante.
La voce narrante di un vecchio (profonda, pacata, monocorde) che introduce da principio lo spettatore nella finzione e poi anticipa e commenta una catena di inquietanti incidenti che si verificheranno nel corso di un anno nel borgo contadino, sembra essere quella del saggio che attorno a un falò rievoca antiche leggende per un imberbe uditorio.
Leggende che, almeno in questo caso, possono aiutare a capire, come ha modo di affermare lo stesso vecchio narratore, «alcuni processi maturati nel nostro Paese», qui facilmente individuabili nell’avvento del nazismo (e di tutti gli assolutismi di natura ideologica emersi più recentemente).

Della fiaba (nera) Il nastro bianco, oltre a un narratore extradiegetico onnisciente e a un titolo candido e affascinante, recupera diverse marche: l’ambientazione astratta e simbolica (un paesaggio contadino glaciale e ieratico), la presenza di figure che personificano ruoli sociali predefiniti (nel nostro caso il dottore, il pastore, il barone, l’intendente, la levatrice, l’istitutore, mai chiamati con il loro nome di battesimo), una catena di strani episodi che dipendono da logiche sovrannaturali o alchimie razionalmente non giustificabili, una struttura sociale suddivisa rigidamente in classi e gerarchie.
Mancano però molti altri ingredienti: il lieto fine, un sistema di assiologie chiare, uno o più eroi positivi a cui ispirarsi e, soprattutto, una morale da comprendere e far propria.
È quest’ultimo, tra tutti quelli elencati, il nodo più importante.
L’assenza pervicace di una morale della favola trasforma, infatti, questo racconto per e di bambini in una lauda diseducativa, in un salmo macabro, in un’orazione raccapricciante che se applicata alla lettera porta alla morte e al dispotismo.

Intanto perché gli incidenti che capitano nel villaggio (il dottore che si ferisce cadendo da cavallo, il figlio del barone e quello della levatrice che vengono seviziati nottetempo, una donna che rimane uccisa mentre lavora in una segheria ecc.) non trovano alcun colpevole.
In seconda battuta, come se già non bastasse, una cappa di ipocrisia, reticenza e omertà si deposita sul convivio contadino e dal bagliore algido e indifferenziato che tutto circonfonde (si pensi alla fotografia in b/n lavorata in modo da favorire la presenza di bianchi abbacinanti) non emerge alcun personaggio realmente innocente: non il medico, di ritorno dall’ospedale, che si rivela essere un brutale aguzzino che maltratta psicologicamente la levatrice (da cui cerca di liberarsi a malo modo dopo una relazione extraconiugale durata molti anni) e che instaura un rapporto incestuoso con la figlia quattordicenne; non il pastore protestante che inculca la disciplina e il rispetto ai propri figli frustando chi arriva in ritardo per cena, legando al letto chi cade nella tentazione dell’autoerotismo, mettendo pubblicamente alla gogna chi manifesta una qualche forma di vivacità; non il barone che nega le proprie responsabilità in occasione della morte della donna nella sua segheria e cerca di salvaguardare un matrimonio di interessi; non l’insegnante della scuola – è colui che racconta gli avvenimenti in voice over molti anni dopo – che nel presente del film si rivela troppo ingenuo, pavido e distratto da una bella bambinaia per portare alla luce la verità su quegli accadimenti; tanto meno i bambini del paese che a fronte di un portamento rispettoso e compito sembrano nascondere diversi segreti ed essere, alfine, i veri responsabili di quasi tutti i fatti di violenza narrati.

D’altronde che il bianco sia nero, il puro impuro, il morale amorale, la preghiera una maledizione è ben chiaro già a partire da quel nastro bianco che il pastore avvolge alle braccia dei suoi figli allorquando li giudica rei di una qualche forma di peccato, misfatto, intemperanza.
Un oggetto che – a dire dello stesso religioso – dovrebbe essere una manifestazione di purezza e innocenza, si rivela in realtà simbolo di colpa incancellabile, marchio non troppo diverso da quelle stelle a sei punte che accompagneranno gli ebrei nei campi di concentramento.
Siamo insomma innanzi a un altro “villaggio dei dannati”, molto meno simbolico e molto più realistico di quelli messi in scena dentro le griglie dell’horror da Wolf Rilla e John Carpenter, a cui Haneke toglie qualsiasi intento spettacolare (la sua regia sembra essere quella di un entomologo, di un etnologo impassibile e distante) per “lasciare spazio” a una totale assenza di speranza ed espiazione, convinto che presto o tardi in una società di tal guisa tutti diventeranno carnefici, persecutori e assassini.

Se allora risulterà fin troppo facile rimarcare la crudeltà e l’insensibilità dei biondi ragazzini indemoniati – pronti a trasformarsi qualche decina di anni dopo in “leali” soldati delle SS o in genitori di una prole costretta, una volta terminata la guerra, ad affermare una qualche forma di riscatto attraverso il suicidio (si veda a proposito il capolavoro di Rossellini Germania anno zero) – in questa sede è più utile concentrare la nostra lettura sul fallimento delle figure educative e più precisamente su quella dell’istitutore o del maestro che a differenza degli altri “pedagogisti” del film, sensibili ai precetti e alle esigenze di una divinità (il Dio protestante nel caso del Pastore, il Dio Denaro nel caso del precettore del figlio del Barone), dovrebbe affermare il primato dell’intelligenza e del sapere umanistico.
Egli, infatti, si rivela – alla fine della fiera – il più colpevole e manchevole di tutti: in alcuni commenti che semina nel corso del racconto, prefigura fatti e assegna loro accezioni che non trovano fedele risposta nella successiva raffigurazione visiva ma che alimentano enigmaticità, inquietudini, turbamenti; in altri passaggi, forse perché troppo preoccupato di gestire la propria vita sentimentale, sembra non accorgersi di gesti, parole e situazioni che meriterebbero di essere indagate perché sintomi di crimini o ingiustizie; una volta resosi conto delle probabili colpe dei suoi scolari, non va a denunciare i sospetti alla polizia, infine non nasconde al suo uditorio una fuga dal villaggio in coincidenza con lo scoppio della Prima guerra mondiale che rivela quanto sia in fin dei conti poco preoccupato del possibile riverificarsi delle violenze infantili.
Quello che ci accompagna lungo il racconto è, insomma, un narratore inaffidabile, fallace, solipsistico, che conclude la sua storia con un epilogo ingarbugliato, impreciso e abborracciato.

Lungi dall’essere un difetto, questa chiusa inconcludente e confusa si rivela l’elemento più convincente del film: Haneke, infatti, non poteva trovare modo migliore per denunciare l’incapacità di capire le ragioni del nazismo (o di qualsiasi forma di assolutismo) da parte degli storici, degli intellettuali e dei pedagoghi coevi se non predisponendo una storia inferma, un narratore incerto, una fiaba per bambini senza morale e senza (lieto) fine.
Una ferita aperta e, nonostante il passare degli anni, non ancora rimarginata.

Per un lavoro in classe suggeriamo la visione di alcuni dossier pedagogici e altri materiali di approfondimento che trovate indicati fra i link di approfondimento.

Marco Dalla Gassa

 

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