François Truffaut

Con due genitori che lo trascurano – il patrigno lo riconobbe dopo averne sposato la madre che lo aveva avuto giovanissima da un rapporto occasionale – e un travagliato rapporto con le istituzioni – scolastiche e militari – l’adolescenza e la prima giovinezza di François Truffaut sono difficili e turbolente, molto simili, dunque, alle vicende di Antoine Doinel, il protagonista del suo film d’esordio I quattrocento colpi. Determinante per la carriera e la vita del regista è l’incontro con André Bazin (uno tra i più importanti teorici di cinema del secondo dopoguerra) che lo orienta, ancora giovanissimo, verso la critica cinematografica. Negli anni Cinquanta Truffaut entra nella redazione dei “Cahiers du Cinéma”, una delle riviste di critica più prestigiose, dove conosce Jean-Luc Godard, Eric Rohmer, Claude Chabrol e altri giovani critici che, qualche anno più tardi, al loro esordio alla regia, saranno accomunati sotto l’etichetta della nouvelle vague, un movimento tendente a svecchiare tematiche e forme del cinema francese ormai sclerotizzate e incapaci di narrare la contemporaneità. Già apprezzato presso la critica per il suo cortometraggio Les mistons (1957), Truffaut si afferma definitivamente come regista al Festival di Cannes del 1959 con I quattrocento colpi – interpretato da Jean-Pierre Léaud che diventerà il suo attore feticcio – un film connotato da una straordinaria freschezza dello stile e, al tempo stesso, da un’eccezionale lucidità di analisi della condizione dell’infanzia. Se la cinefilia e l’amore per i grandi registi classici americani sono gli elementi che accomunano Truffaut agli altri registi della nouvelle vague, a caratterizzare la sua poetica sono l’impronta decisamente autobiografica e nostalgica data al racconto, l’attenzione per i sentimenti dei personaggi e la passione per la letteratura cosiddetta minore: porta sullo schermo i romanzi sentimentali di Jean-Pierre Roché – come Jules e Jim (1961) nel quale descrive con estrema libertà ma al tempo stesso con grande pudore la storia di un triangolo amoroso gioioso e trasgressivo sullo sfondo della Francia dei primi del Novecento –, i gialli di Cornell Woolrich – dai quali sono tratti i due film “hitchcockiani” La sposa in nero (1967) e La mia droga si chiama Julie (1969) –, nonché il fantascientifico Farenheit 451 (1966) di Ray Bradbury. Grande narratore, attentissimo alle scelte formali operate ma anche al potenziale affabulatorio dei suoi film, Truffaut è un regista raffinato che, allo stesso tempo, sa parlare al grande pubblico: a differenza dei suoi colleghi della nouvelle vague è forse meno radicale nelle scelte linguistiche adottate ma, in cambio, riesce a trovare sempre la soluzione stilistica migliore per raccontare le sue storie. È il caso degli altri suoi due film in cui l’infanzia è protagonista: Il ragazzo selvaggio, una pellicola che se da un lato è possibile definire “illuminista”, per l’ambientazione (la Francia della fine del Settecento) e per lo stile secco, attentissimo, da film-saggio capace di tracciare con precisione quasi documentaristica le fasi del rapporto tra individuo-bambino e società, dall’altro è permeata da un profondo pessimismo che di certo non collima con la visione positiva proposta dai philosophes settecenteschi; Gli anni in tasca, un film corale, composto da tanti frammenti gioiosi e divertenti, apparentemente superficiale e interamente votato a celebrare la gioia di vivere dell’infanzia, eppure anch’esso attraversato da momenti di cupo scetticismo verso il modo in cui gli adulti si rapportano ai bambini. A ulteriore riprova della grandissima duttilità – e al tempo stesso della profonda coerenza e lucidità – di Truffaut, sta la capacità di alternare magistralmente, in particolare nel corso degli anni Settanta, commedie ironiche e scanzonate come Mica scema la ragazza! (1972), L’uomo che amava le donne (1977), L’amore fugge (1979), Finalmente domenica! (1983), a storie di amori impossibili e disperati come Adele H, una storia d’amore (1975), La camera verde (1978), L’ultimo metrò (1980), La signora della porta accanto (1981), tutti comunque filtrati dalla sua capacità di indagare finemente l’animo umano e le relazioni tra gli individui. Muore nel 1984, a cinquantadue anni, stroncato da un tumore: tra le immagini che ci restano di lui anche quelle del film Incontri ravvicinati del terzo tipo per il quale Steven Spielberg lo volle tra gli interpreti. Truffaut ha spesso sottolineato quanto intenso potesse essere il rapporto tra il cinema e l’infanzia, cui la sua poetica si ispirava per larga parte. Da un lato il regista apparteneva a una generazione (l’ultima, probabilmente) che durante l’adolescenza aveva trovato nel cinema un modo di raccontare e comunicare diverso e alternativo a quello razionale imposto dalle costrizioni sociali (il linguaggio anzitutto scritto, del quale, pure, il regista fu consumatore tra i più avidi e produttore tra i più prolifici), un universo emozionale tanto più importante per lui, adolescente privo di una sfera affettiva completa. Partendo da tali presupposti il regista era riuscito meglio di chiunque altro a fare proprio un linguaggio cinematografico che suscitasse emozioni e sentimenti nei propri spettatori, ma, al tempo stesso, a realizzare alcune delle istanze più originali della nouvelle vague come, ad esempio, quella di uscire dagli spazi artefatti dei teatri di posa e filmare per le strade al fine di captare una realtà in rapidissima evoluzione. Un’idea, questa, che si riflette nella concezione spaziale sottesa proprio ai film di Truffaut che hanno per protagonisti bambini e adolescenti, caratterizzata da un’opposizione netta tra spazi interni ed esterni, i primi intesi come luoghi castranti delle istituzioni (in I quattrocento colpi la casa dei genitori, la scuola, il riformatorio, in Il ragazzo selvaggio la casa di Itard, spazio opposto a quello della foresta) i secondi in quanto luoghi dell’emancipazione e della libertà da qualsiasi costrizione, di creazione di un proprio universo emozionale e valoriale lontano da quello imposto dagli adulti. Se l’idea truffautiana di cinema si presenta, dunque, come un mondo chiuso e in parte autoreferenziale, fatto di storie che riescono tanto più a emozionare quanto più risultano impermeabili alla realtà (per meglio porsi in quanto alternative ad essa) e interconnesse tra loro a rafforzare l’impressione di autosufficienza, è anche vero che non è del tutto assente da essa una componente fortemente – potremmo dire ontologicamente – legata al concetto di “registrazione” della realtà, dunque vicina a una riflessione teorica profonda sul cinema e la sua funzione. Nel cinema di Truffaut, tuttavia, tale riflessione si traduce nella testimonianza tangibile della crescita, del mutamento fisico e intellettuale dei protagonisti dei suoi film, come nel caso di Antoine Doinel/Jean-Pierre Léaud che cresce letteralmente davanti alla macchina da presa del regista. T. è infatti uno dei pochissimi autori ad aver dedicato allo stesso personaggio più di una pellicola (altri quattro i film del “ciclo Doinel”: il cortometraggio Antoine e Colette del 1962, episodio di L’amore a vent’anni, e i tre lungometraggi, Baci rubati del 1968, Non drammatizziamo… è solo questione di corna del 1970, L’amore fugge del 1979), seguendolo nel suo sviluppo dall’adolescenza fino alla maturità e decidendo, inoltre, di legare il personaggio all’interpretazione di un unico attore (Léaud, appunto). “[…] quando si ha la fortuna di aver filmato qualcuno all’età di tredici anni e mezzo, diciannove, ventiquattro, ventotto anni e di riprenderlo a trentatré anni, si ha tra le mani un materiale prezioso […] Ogni volta che giravo con degli adolescenti sentivo che la pellicola filmata era più preziosa di quella utilizzata per gli adulti” (da F. Truffaut, Le avventure di Antoine Doinel, p. 416).Il “valore aggiunto” della pellicola girata con gli adolescenti e, soprattutto, dell’esperienza vissuta da T. e Léaud emerge appieno nel caso delle sequenze scartate dal montaggio finale di I quattrocento colpi che vengono inserite nei film successivi come flashback narrativi (ad esempio quando Antoine ricorda il periodo trascorso a casa del compagno di scuola Renée durante la sua fuga da casa). Tutto ciò rimanda ad una visione della settima arte improntata in larga parte alle teorie di Bazin che, proprio nella possibilità di catturare la realtà della vita nelle sue componenti irreversibili, vedeva una delle caratteristiche più peculiari del cinema contemporaneo, ma anche, ad esempio, alla pratica cinematografica di un altro autore come l’iraniano Abbas Kiarostami, anch’egli affascinato dalla capacità del cinema di registrare il tempo, di “misurare” gli effetti da esso prodotti sugli individui. Allo stesso modo in cui – come sottolinea egregiamente Anne Gillain nella sua monografia François Truffaut. Il segreto perduto – anche i personaggi adulti del regista soffrono di una mancanza originaria d’amore che tentano disperatamente di colmare ricreando attraverso il rapporto con gli altri una condizione originaria di appagamento del desiderio d’affetto (con conseguenze di volta in volta divertenti, drammatiche, tragiche), nei film del regista che non sono dedicati alla rappresentazione dell’ infanzia o dell’adolescenza, i minori, pur essendo solo presenze fuggevoli (e tuttavia mai accessorie), funzionano come degli specchi in cui i protagonisti adulti hanno la possibilità di vedere riflessi i propri desideri con maggior naturalezza e di comprendere i propri difetti attraverso pochi tratti essenziali. Una galleria di figure adulte segnate dall’immaturità, un connotato dal quale sono cronicamente incapaci di liberarsi, presi dalle proprie ossessioni, incuranti della realtà che li circonda, a volte insensibili anche nei confronti di chi vive loro accanto. Difatti, per quanto Truffaut sia stato senza dubbio un regista “dalla parte dei bambini”, capace di seguirli con insuperata sensibilità, non ne ha mai tracciato un quadro idilliaco, svincolandosi dagli stereotipi (più o meno aderenti alla realtà) diffusi dal cinema dei suoi tempi. Fin dal suo cortometraggio d’esordio Les mistons (la storia di una coppia di innamorati “perseguitati” da una banda di monelli che li spiano nei loro tentativi di scambiarsi effusioni), Truffaut mette in scena schiettamente la crudeltà ingenua, il senso di frustrazione ed inadeguatezza di fronte al desiderio tipici di quell’età, in parte rifacendosi direttamente o indirettamente all’opera di due autori come Jean Vigo e Roberto Rossellini (gli unici da lui considerati capaci di rappresentare l’infanzia al di fuori da qualsiasi cliché). Tra i tanti progetti che il nostro non riuscì a portare a termine prima di scomparire prematuramente c’è anche quello per un film la cui protagonista doveva essere una ragazzina orfana, sfrontata e intraprendente, alle prese con le prime esperienze della vita nella Francia del secondo dopoguerra. Il progetto ha dato origine alla sceneggiatura del film La piccola ladra (1988) di Claude Miller che, forte della propria personale esperienza come direttore di produzione in molti film di Truffaut, ha saputo tradurre al meglio l’insegnamento del regista in un film straordinariamente vitale per la capacità di trasmettere le inquietudini e i desideri dell’adolescenza.