Lo specchio

20/07/2009 Tipo di risorsa Schede film Temi Comportamenti e stili di vita Titoli Rassegne filmografiche

di Jafar Panahi

(Iran, 1997)

Sinossi

All’uscita da scuola, Mina, dopo aver atteso invano l’arrivo della madre, decide di tornare a casa da sola. Tenta di farsi aiutare, senza successo, da alcuni adulti. Dopo una serie di inutili tentativi sale su un autobus e, sfilandosi il microfono nascosto sotto il chador, dichiara di non voler più recitare nel film e chiede di tornare a casa. Il controcampo della piccola interprete rivela un vero e proprio set – con tanto di regista, tecnici e macchina da presa – mai rivelato precedentemente nel film. La narrazione è costretta, così, a spostarsi sulla storia del ritorno a casa della bambina che – questa volta per davvero – si perde per le strade di Teheran, e della troupe che si ritrova impegnata in un vero e proprio pedinamento, nient’affatto semplice nel traffico caotico della capitale iraniana, alla ricerca di un seguito “reale” alla finzione fin lì messa in scena. Mina riuscirà a raggiungere casa sua e, di fronte all’ennesimo tentativo del regista di riprenderla, chiuderà la porta di casa per restarsene in pace.

Analisi

L’immagine cinematografica, che per il mondo occidentale è del tutto metabolizzata e ormai fagocitata in un regime della visione che consente quasi esclusivamente un recupero di forme e contenuti secondo modalità per la maggior parte già sperimentate, per il mondo islamico costituisce ancora un problema da indagare con tutti i mezzi possibili. Con la sottigliezza e l’ironia tipiche della cultura araba, il rapporto tra la realtà e il suo doppio cinematografico è stato sondato da molti cineasti iraniani sotto tutti i suoi aspetti (per citare solo alcuni titoli, Pane e fiore e C’era una volta il cinema di Mohsen Makhmalbaf, Close up di Abbas Kiarostami, Lo spettro dello scorpione di Kianush Ayyari), attraverso commistioni, a volte davvero indecifrabili, tra presa diretta e rappresentazione, proprio come nel nostro caso. A partire dal titolo, il film denuncia l’ambiguità di fondo che s’instaura, a maggior ragione, tra una finzione cinematografica che vorrebbe rispecchiare fedelmente la realtà e la vita concreta dei suoi interpreti: la prima sequenza, ad esempio, è una sorta di pedinamento in tempo reale di Mina che tenta, inutilmente, di telefonare a casa, mentre si tratta, invece, di un abilissimo falso d’autore, attraverso il quale il regista fa sfoggio di tutta la propria sapienza tecnica nel fingere di filmare un’azione in cui spazio e tempo coincidono perfettamente ma che, in realtà, pone la macchina da presa nella posizione di vera protagonista del film. Riflessioni come queste, tuttavia, se possono contribuire alla comprensione di una tra le principali caratteristiche formali del cinema iraniano, non riescono a esaurire un universo tematico altrettanto ricco. Mina, fin dal principio del film, è in una situazione di conflitto con il mondo che la circonda: immediatamente il suo percorso si profila difficile, impervio e, i suoi rapporti con gli adulti, in molti casi si rivelano più dannosi che utili a superare le difficoltà. Inoltre, nella prima parte del film, è ulteriormente impacciata da una serie di elementi che simbolizzano una condizione di sostanziale inferiorità patita dalle donne iraniane: ha un braccio ingessato che le impedisce di muoversi liberamente, ha l’obbligo di indossare il chador e un paio di scarpe che, nella vita di tutti i giorni, si rifiuta di portare, sui mezzi di trasporto deve sedersi in una zona particolare, malgrado la sua giovane età. Nella seconda parte del film scopriamo che, oltretutto, ella sta sostenendo un ruolo che non ama: Mina non sopporta di dover recitare una parte che, per apparire vera, deve calcare la mano su una serie di stereotipi, rafforzandoli implicitamente: il suo gesto di ribellione sembra indicare la volontà di sottrarsi proprio a quei cliché che la affliggono già abbastanza nella vita reale. Il rifiuto di Mina a continuare nelle riprese potrebbe così esser letto come rivendicazione – pienamente legittima in Iran – del diritto, soprattutto per i bambini, di avere un cinema che non si limiti soltanto a ritrarre l’esistente e a fissarlo ulteriormente nell’immaginario collettivo con tutti i suoi limiti, ma che possa anche prefigurare la possibilità di allontanarsi dai vincoli di una tradizione spesso opprimente. Non per niente, infatti, in tutta la seconda parte della pellicola, che documenta il ritorno a casa della protagonista, è percettibile la difficoltà del cinema – non soltanto materiale, ma anche e soprattutto metaforica – a star dietro alla realtà, il suo arrancare, sempre un attimo in ritardo rispetto agli eventi. È anche vero, tuttavia, che per mezzo del microfono nascostole addosso dalla troupe, ci si può rendere conto che i discorsi che adesso vengono captati “casualmente” non sono poi così diversi da quelli della prima parte del film, e che entrambi vertono su una condizione femminile mortificante rispetto alla quale la piccola protagonista sembra a tutti i costi volersi sottrarre. Lo specchio, inoltre, mette ancor meglio in rilievo la questione del realismo al cinema analizzando il complesso rapporto che si instaura tra la troupe e gli interpreti di un film quando questi sono degli attori non professionisti. Mina sembra, così, voler riscattare ironicamente i bambini interpreti dei film di Abbas Kiarostami che si sono ritrovati a interpretare se stessi e spesso costretti a ridere, piangere, ripetere intere sequenze più e più volte. Non si tratta di una coincidenza di poco conto: la sceneggiatura del primo lungometraggio di PanahiIl palloncino bianco, incentrato ancora sulle vicende di una bambina – era proprio di Kiarostami.

(FC)