La città incantata

17/07/2009 Tipo di risorsa Schede film Temi Infanzia Titoli Rassegne filmografiche

di Hayao Miyazaki

(Giappone, 2002)

Sinossi

Chihiro, dieci anni, non salta di gioia all’idea di trasferirsi in un nuovo quartiere. È in macchina, insieme alla famiglia, e sta viaggiando alla volta della nuova casa. Quando suo padre si accorge di essersi perso e, per giungere in tempo per il trasloco, prende una scorciatoia, finisce in una strada senza uscita. Chihiro vorrebbe convincere i genitori a non scendere dalla macchina per andare a vedere cosa c’è in fondo ad uno strano e buio tunnel, ma, per non restare sola, è costretta a seguire mamma e papà. Ritrovatasi improvvisamente in un paesaggio incantato e, poi, all’interno di un parco giochi bello e stranamente deserto, Chihiro vaga per le sue strade inquietanti, mentre i genitori si abbuffano ad una tavola imbandita di ogni golosità. Quando ritorna dalla perlustrazione scopre, però, che sia la madre sia il padre si sono trasformati in maiali. Non sa che fare per liberarli da un probabile incantesimo. Così, discesa la sera e popolatasi la città di spiriti, divinità e altri strani esseri, decide di intrufolarsi nelle grandi terme dove si dirigono tutte queste strambe presenze. Qui, in mezzo a creature bizzarre, impara ad ambientarsi in breve tempo: segue gli utili consigli di Haku, un ragazzo che ha dimenticato il proprio nome e che studia per diventare mago, convince la strega Yubaba ad assumerla nel complesso termale come pulitrice; affronta con coraggio e umiltà tutte le situazioni più improbabili e inaspettate. Riesce, così, a conquistare l’affetto e la fiducia di molti frequentatori e lavoranti della città incantata. Ma non basta, serve uno sforzo in più per salvare i genitori. Occorre recuperare la propria identità (in città tutti la chiamano Sen), quella di Haku (costretto a seguire i voleri della strega), quella della stessa Yubaba, per tornare alla vita di tutti i giorni.

Presentazione Critica

La stratificazione dell’animazione

Impossibile sintetizzare in poche righe la sinossi del film. Impossibile, soprattutto, descrivere il mondo di straordinaria forza immaginativa che sgorga dalla mente e dalla matita lucida di Hayao Miyazaki, il più grande maestro di cinema d’animazione degli ultimi trent’anni. La visione di ogni suo film è un accumulo di stupore, eccitazione, commozione, sollievo, consapevolezza e abbandono. Non è solo una questione di immaginari e mitologie altre che lo spettatore occidentale non riesce a cogliere (il genere letterario e cinematografico giapponese detto kaidan, ossia dedicato ai fantasmi, agli spiriti, ai demoni), ma è un atto di fiducia nel racconto – quello chiesto dall’artista giapponese – che per essere tale non deve costringere alla parafrasi e all’interpretazione, ma all’aderenza (come vedremo, non supina) a ciò che viene rappresentato. Per quanto sia strutturato su diversi livelli di lettura e di fruizione, La città incantata si presenta innanzi tutto come un’esperienza fantasmagorica, nel senso che comunica direttamente con la sfera spirituale, immaginativa, onirica e, in definitiva, “aerea”, di chi assiste alle avventure di Chihiro (adulti o bambini che siano). Comunicare con lo spettatore sul piano del fantastico significa costringerlo, volente o nolente, a volare. E non può essere un caso, allora, che sia proprio il volo in cielo una delle attività preferite dai personaggi miyazakiani. A cavallo di scope, nelle cabine degli aerei, a bordo di alianti o di biciclette volanti, in questo film aggrappata ad un drago dalle fattezze umane, le ragazzine di Miyazaki volano per un’esigenza fisica, perché l’aria rappresenta un luogo ideale per manifestare la propria leggerezza nei confronti di mondi “pesanti” e opprimenti, un’esperienza generatrice, capace di attribuire identità e personalità a chi solca questi oceani evanescenti. Lo conferma la trasvolata di Chihiro e Haku, nel corso della quale il drago/stregone – grazie all’aiuto della bambina – riesce finalmente a rammentarsi il proprio vero nome: è il primo passo per liberarsi da un incantesimo che lo imprigiona ai voleri della strega Yubaba. Come accade per ogni fiaba, anche quella di Miyazaki si presta a letture allegoriche che coinvolgono, partendo da mondi fantastici, le sfere del reale. La città dove è ambientata la storia, un centro termale ai margini di un parco giochi in disuso, ad esempio, è una perfetta metafora della società contemporanea, non solo per l’edonismo e la ricerca del benessere personale che la pervade e che la svuota di senso dal suo interno, ma anche per la stratificazione gerarchica del potere che, di fatto, la rende un regime dispotico truccato da casa di piacere. Quando Chihiro si trova alle sue porte, decisa ad entrarvi per cercare di salvare i genitori trasformati in maiali, non sa che la struttura è regolata – anche fisicamente – in modo piramidale, con ai vertici una strega tirannica (ma anche estremamente servile verso i clienti più facoltosi o coloro che possono distruggere il suo giocattolo), e alla base un nugolo di lavoratori tenuti insieme dall’illusione dell’arricchimento, da un lavoro alienante, dall’assenza di alternative. Da questo punto di vista il film appare un adattamento in cartoni animati e per bambini di Metropolis di Fritz Lang (film che, tra l’altro, è stato trasposto in disegni animati pochi anni fa da un altro maestro giapponese, Rin Taro). Che la pellicola di Miyazaki abbia molti aspetti in comune con il capolavoro tedesco è d’altronde evidente dalla centralità tematica assurta dal lavoro (alienante, meccanizzato, dispotico e, in rari casi, istruttivo). Pur senza toccare le certezze ideologiche langhiane (figlie di tutt’altra stagione storica, soprattutto dal punto di vista culturale), anche l’animatore giapponese attacca il sistema sociale contemporaneo fondato sullo sfruttamento della manodopera. Chihiro – non si dimentichi solo perché stiamo parlando di un personaggio di cartone – è una bambina sfruttata, spinta al lavoro minorile perché non esistono alternative. Lo scostamento di Miyazaki rispetto alla via tracciata da Lang si manifesta comunque, nel tentativo di dipingere sotto una luce più contrastata l’esperienza del lavoro minorile: per un verso assolutamente negativa, ma per l’altro, almeno in parte, formativa. Chihiro, infatti, non lavora per soldi, per arricchirsi o per fare carriera, ma per un atto nobile, salvare i genitori e trova sulla sua strada anche adulti pronti ad aiutarla. Nondimeno, resta – senza alcuna attenuazione – la dura accusa lanciata dal cineasta contro l’avidità umana che colpisce, senza remore, quasi ogni individuo adulto: i genitori di Chihiro che, noncuranti dei pericoli che possono correre, si abbuffano ad un banchetto come maiali; i lavoratori delle terme che si accalcano bramosi ai piedi di un fantasma facoltoso che crea e distribuisce monete d’oro; la strega Yubaba che accumula ricchezza con rara ingordigia per proteggere un figlio che invece di svilupparsi resta neonato per sempre, crescendo solo in volume e profondità della voce. Bou, questo il suo nome del grosso bambolotto, è anch’egli l’incarnazione di una devianza, quella che ha trasformato l’istinto di protezione materna verso un figlio in una prigionia dorata, la crescita in allevamento all’ingrasso, il rimprovero in permissivismo assoluto.

Il ruolo del minore e la sua rappresentazione  

Un altro mondo è possibile

Certo, una fiaba non sarebbe tale se non avesse personaggi positivi, adatti ad incarnare valori e atteggiamenti etici che consentono a bambini (e adulti) di costruirsi chiari punti di riferimento morali. Come si diceva poc’anzi, Chihiro ne incontra alcuni: c’è la donna delle pulizie Rin che la aiuta ad ambientarsi nella sua nuova vita, c’è il ragno/uomo Kamajii (doppio dello stesso Miyazaki) che la protegge di nascosto e ne facilita il percorso di    formazione/liberazione, ci sono tante figure soprannaturali dall’animo e dall’aspetto gentile, c’è Haku che non esita a soccorrerla nel momento del bisogno, suggerendole i passi da compiere (andare a chiedere lavoro a Yubaba), errori da non commettere (dimenticarsi il proprio nome), parole da somministrare con parsimonia (soprattutto quando è davanti alla strega). A ben vedere, tutti questi personaggi sostituiscono, in qualche modo, i genitori che Chihiro ha perduto, dimostrando che possono esistere modelli adulti di comportamento: sono protettivi senza essere invadenti, “silenziosamente” prolifici nel dare consigli (non imponendo un punto di vista, né soffocando la libertà – anche di sbagliare – della ragazzina), sono pronti al rimprovero quando necessario, senza mai essere dispotici, duri, ingiusti. Lungi quindi dall’essere completamente sola, Chihiro/Sen rappresenta la classica eroina cui si chiede di superare una serie di ostacoli fisici e allegorici per acquisire una nuova consapevolezza di sé. Nondimeno, a differenza di altri personaggi fiabeschi che si ritrovano in mondi sconosciuti per conquistare una nuova maturità (si pensi a Pinocchio o ad Alice nel paese delle meraviglie), in questo caso abbiamo un personaggio che supera gli ostacoli che le si presentano davanti solo con lo scopo di recuperare la propria identità, quella di una ragazzina di dieci anni. Nulla più. Miyazaki non è Spielberg e ne La città incantata non si celebra in maniera sotterranea il “complesso di Peter Pan”, ossia il desiderio di non crescere e non avere responsabilità adulte. Al contrario, i piccoli personaggi disegnati dal maestro giapponese (insieme a Chihiro ci sono Kiki, Nausicaa, San e Ashitaka, i protagonisti de La principessa Mononoke , ecc.) sono già maturi e responsabili e non hanno bisogno di cambiare in meglio. Anzi, pur senza saperlo, invecchiando rischiano di perdere tutte le loro migliori qualità: il senso del dovere, il coraggio, la fantasia. Così le loro prove mirano a raggiungere uno stadio grazie al quale assaporare in pieno la loro età, senza nostalgie, senza desideri di crescere, ma nemmeno di restare fermi allo stesso punto per sempre. Lo scarto tra adulti e bambini è evidente proprio nel loro porsi nei confronti del sovrannaturale. I genitori di Chihiro non vedono i fantasmi, non li riconoscono perché sono i prodotti (bulimici) di una società che prevede solo “una realtà dei fatti”, una sola dimensione sensoriale, una sola faccia degli oggetti, una sola strada per raggiungere una meta (infatti i genitori finiscono nella città incantata dopo aver sbagliato strada e aver cercato una scorciatoia). Appena scendono le tenebre e i genitori della protagonista si trasformano in suini, ecco comparire una serie di personaggi fantastici, dai contorni, dai colori e dai comportamenti incredibili che solo Chihiro riesce a vedere. La bambina – contrariamente a quel che farebbe un adulto – non mette in discussione il mondo in cui si trova e nemmeno prova incredulità di fronte ad esseri mai visti prima. La ragione è semplice: Chihiro, e con lei tutti i bambini, concepisce la possibilità di una moltiplicazione dei punti di vista, delle realtà, delle dimensioni e crede fermamente nella possibilità di armonizzare le diversità. Sarà il compito assegnatole da Miyazaki, portato avanti con grande fatica nel corso di tutto il film (tanto che alla fine la liberazione dall’incantesimo avverrà solo dopo aver avvicinato Yubaba alla sorella gemella, da sempre in guerra tra loro) ma alla fine ricompensato dalla consapevolezza che un altro mondo è possibile.

Marco Dalla Gassa

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