Un angelo alla mia tavola

regia di Jane Campion

(Nuova Zelanda, 1990)

Sinossi

Janet è una bambina piccola e grassa con difficoltà di interazione con i propri compagni. Vive in Nuova Zelanda in una famiglia povera e con gravi disagi. Il fratello maggiore, l’unico maschio, soffre di crisi epilettiche, la sorella più grande, Myrtle, muore invece prematuramente per annegamento, quando lei è appena adolescente. Le uniche attività che l’appassionano e la rendono felice sono la lettura e la scrittura di poesie e racconti. Ma il carattere di Janet con la crescita si dimostra sempre più chiuso, timido e insicuro e lo diventa ancor di più allorché deve andare in città a seguire i corsi di scuola superiore. Il fragile equilibrio della ragazza si rompe durante l’esame finale per diventare maestra quando, non sopportando la presenza di un ispettore, scappa e tenta invano il suicidio. Janet viene allora ricoverata in un reparto psichiatrico e dichiarata schizofrenica. Trasferita in manicomio la ragazza rimane rinchiusa per otto anni, durante i quali subisce numerosi elettroshock. Solo la vittoria di un premio letterario le risparmia una sicura lobotomia e le consente di tornare libera. Inizia così un periodo più sereno, seppur non privo di inquietudini e paure. Va a vivere con Frank Sargeson, un famoso scrittore, pubblica il suo primo romanzo, vince una borsa di studio per un viaggio in Europa. Nel vecchio continente vive prima a Londra e poi si trasferisce in Spagna. Qui, nel corso dell’estate, conosce Bernard, giovane insegnante americano. Scoppia tra loro l’amore, il primo di Janet. Tuttavia l’uomo deve ritornare nel suo paese. Alla notizia della morte del padre (prima di lui in famiglia erano mancate una sorella più piccola e la madre) Janet decide anch’essa di tornare in patria. Qui è diventata famosa, ma il successo non le fa cambiare abitudini: si trasferisce prima nell’isolata casa famigliare e poi ripara in una piccola roulotte vicino alla casa della sorella Isabel, dove continua la sua opera di scrittrice.

Presentazione critica

Una delle prime immagini del film riprende la madre di Janet che tenendo per mano la sua bambina entra in casa in pieno controluce. Solo la sagoma della donna è visibile. Successivamente, alla fine della pellicola, quando l’ormai adulta Janet fa ritorno nella vecchia cascina di famiglia, viene riproposta ancora una volta la stessa inquadratura: una figura adulta (questa volta si tratta della protagonista) entra in casa ripresa in controluce e quindi non visibile nei suoi tratti fisici fin lì conosciuti ma solo nel contorno del suo corpo. La scelta stilistica, apparentemente casuale, è riepilogativa e paradigmatica circa gli intenti della regista: ovvero raccontare la biografia della poetessa e scrittrice Janet Frame - una delle più importanti autrici dell’Oceania del secolo scorso, famosa per essere stata rinchiusa in manicomio per otto anni e aver rischiato di essere lobotomizzata - in aperta controtendenza rispetto ai cliché e ai luoghi comuni che vogliono il genio artistico accompagnato alla pazzia, alla sregolatezza o alla ‘maledizione’ sociale, che pretendono unica e irripetibile non solo l’opera ma la vita stessa dell’artista in questione. Jane Campion si limita a raccontare la storia quotidiana di una donna dalla prima infanzia alla piena maturità. Seguendo la metafora dell’immagine filmica scelta dalla Campion non il corpo o la rappresentazione conosciuta dai lettori di Janet Frame ma la sagoma, la parte oscura della vita della poetessa la quale, staccata dalle sue opere, appare una donna qualunque e quindi non immediatamente individuabile in un’immagine in controluce. Tale scelta stilistica rivela dunque l’emblematicità dalla prospettiva adottata dalla regista: mai vediamo all’opera la scrittrice, solo alcuni brevi e circoscritti brani della sua opera sono citati, così come i titoli dei suoi libri o delle poesie. Molto più importanti sono invece, per la Campion, le scene in cui è descritto il carattere introverso, insicuro, instabile della bambina/adolescente/matura Janet e le ragioni che hanno provocato, nel corso degli anni, il suo modo di essere (e di conseguenza di scrivere). Quest’ottica è però glabra di qualsiasi lettura a sfondo psicologico, in un contesto che anzi avrebbe favorito questa prospettiva d’analisi. La pazzia, tema apparentemente centrale del film - tanto che in una delle prime scene si vede la piccola Janet che, incuriosita, scruta dal finestrino del treno alcuni pazzi che sostano in una stazione - è in realtà un nodo narrativo totalmente assente nel film. Non solo Janet non si comporta mai in modo schizofrenico, come invece è stato diagnosticato dai dottori, ma le scene in manicomio (la bellezza di otto anni di vita della scrittrice) si risolvono in pochi minuti rispetto alle quasi tre ore del film. Anche in quelle stesse scene, per di più, Janet si distingue per un comportamento timido, insicuro, ma tutto sommato ‘normale’. È assente o meglio lasciato ai margini – e questa sembra una chiara volontà autoriale – qualsiasi ricorso a ragioni psicologiche o di natura psichiatrica (traumi infantili, richiami alla sessualità ecc.), per giustificare il percorso di vita della scrittrice. Sembra, anzi, che i cambiamenti traumatici vissuti da Janet siano il prodotto più di una somma di numerose ed eterogenee ragioni che il risultato di un unico dramma. Ragioni fisiche (l’evidente obesità infantile e la poca grazia dell’adolescenza), ragioni educative (la recisione dell’unica vera amicizia da parte del padre, recisione in parte giustificata), fatalità (la morte della sorella Myrtle), decisioni sbagliate prese anche in buona fede (come il consiglio del suo professore di letteratura di farsi ricoverare in ospedale). Lo studio della normalità e della quotidianità dell’artista permette così di scoprire in maniera più lucida la vera natura della protagonista, i suoi problematici e sfaccettati modi di essere, la sua sofferenza, senza il ricorso al pietismo o alla commiserazione. Non a caso molti momenti di felicità e di serenità squarciano i tormenti della giovane Janet. Alla resa della sfaccettata personalità della scrittrice contribuisce in maniera determinante il periodo infantile e adolescenziale. Dalle esperienze della verde età – ci dice la regista – dipendono le scelte di Janet Frame, la sua fuga, il tentativo di suicidio, il ritorno alla casa paterna. Tale rappresentazione è ancora più funzionale al racconto perché la Campion organizzare il film come se fossero i ricordi della stessa scrittrice a prendere forma. La divisione in sequenze, dove ad un inizio raccontato per piccoli episodi si sostituiscono scene poco per volta sempre più lunghe e dettagliate, sembra confermare l’ipotesi della struttura mnemonica del racconto. Un racconto che la giovane Jane Campion – al suo secondo film, girato in tre puntate per la televisione e poi rimontato perfettamente per la versione cinematografica – sembra possedere magistralmente nonostante le quasi tre ore di proiezione.

Marco Dalla Gassa