I cento passi

di Marco Tullio Giordana

(Italia, 2000)

Sinossi

Il film racconta la storia vera di Peppino Impastato, nato e cresciuto a Cinisi, piccolo paese della provincia palermitana, negli anni ’60 e ‘70 ed ucciso in un agguato mafioso nel 1978. L’infanzia di Peppino trascorre accanto a parenti in varia misura collusi con la mafia. Molto legato allo zio Cesare Manzella, quando questi subisce un attentato e salta in aria in un’automobile, cerca di capire le dinamiche della sua famiglia e comincia a formarsi una coscienza politica. Viene adottato spiritualmente da Stefano Venuti, pittore e dirigente della minuscola sezione locale del partito comunista, e lo vediamo anni dopo adolescente impegnato nelle proteste contro l’ampliamento dell’aeroporto di Punta Raisi e lo strapotere dei clan. La sua famiglia, legata da parentela e da debiti di riconoscenza al boss in ascesa Tano Badalamenti, sopporta con sempre maggiore difficoltà ed imbarazzo le intemperanze di Peppino. Quando questi, con l’aiuto degli amici e compagni di sezione, fonda una radio libera e comincia una dura ed ironica campagna di denuncia dell’organizzazione mafiosa, gli avvertimenti si fanno sempre più pressanti e pericolosi. Il padre Luigi compie un viaggio negli Stati Uniti per valutare l’opportunità di mandare il figlio lontano dal paese in cui si sta inimicando i poteri forti. Al suo ritorno però trova una situazione di contrapposizione ormai insostenibile, e la sua prematura scomparsa a causa di un incidente sospetto mette Peppino in una condizione di vulnerabilità. Sfruttando gli episodi di attualità che raccontano quotidianamente degli attentati delle brigate rosse, Tano Badalamenti organizza l’esecuzione del nipote simulando un incidente nella preparazione di un attentato dinamitardo. Il muro di omertà copre subito la verità, ma al funerale di Peppino sfila un corteo affollatissimo di giovani e di bandiere rosse.

Introduzione al film

La passione del cinema Marco Tullio Giordana si conferma con I cento passi autore in grado di trasformare in cinema la passione civile e l’umanità di piccoli e grandi personaggi del nostro tempo. Il film si inserisce in un percorso personale poetico-estetico che dalla riflessione sul ’68 di Maledetti vi amerò, all’indagine sull’uccisione di Pier Paolo Pasolini (Pasolini, un delitto italiano, 1995), passando, più recentemente, per La meglio gioventù (2003) e per Quando sei nato non puoi più nasconderti (2005) propone una storia dell’Italia contemporanea. Lontano dai toni epici o mitopoietici di tanto cinema eccessivamente celebrativo, Giordana si sofferma sulla normalità e sull’umanità dei suoi personaggi, che si tratti di eroi e martiri dell’impegno oppure di persone qualunque. Attraverso la storia dei singoli si arriva alla storia di un paese che non è affatto, come suggerisce l’autore, quella letta nei libri di storia, quella dei governi che si susseguono e delle leggi che vengono promulgate, bensì il modo di vivere quotidiano dei cittadini. Sia che si tratti di raccontare fatti realmente accaduti o personaggi di fiction, il cinema di Giordana è sempre credibile e plausibile. La somiglianza tra Peppino Impastato e Nicola Carati, il protagonista de La meglio gioventù, va ben al di là della faccia di Luigi Lo Cascio, e si fonde e si confonde nelle sfumature di personaggi puri e semplici, buoni di una bontà complessa e sfaccettata. Da descrizioni così puntuali e credibili non può non nascere l’immedesimazione da parte del pubblico, una partecipazione che diventa condivisione, come con una persona presente. La morte di Peppino, in un tripudio di bandiere rosse e di pugni chiusi retorico ma necessario, colpisce come la morte di un amico, di qualcuno che si conosceva e che ci mancherà. La realtà della storia, più o meno contemporanea, è rievocata per mezzo di un’accurata ricostruzione filologica. Gli strumenti di questa rievocazione sono le materie prime del cinema: la musica è sempre presente, con il doppio compito di sottolineare poeticamente le sequenze e di creare un passaggio segreto tra il mondo del film e quello dei ricordi dello spettatore; le scenografie sono accurate ricostruzioni di mondi e non solo di ambienti, legami con un passato che è anche e soprattutto ricordo visivo di mille foto e di altrettante immagini televisive, quasi a ricalcare, come falsari della storia, immagini di repertorio; i costumi non sono solo abiti che gli attori indossano, ma cercano di diventare il corrispettivo degli “usi e costumi”, una rappresentazione esteriore della personalità di ogni personaggio e, ancora, il racconto di una moda che è anche racconto di una fase, di un periodo storico definito. In quest’ottica diventa fondamentale dare spazio anche al superfluo o a ciò che i libri di storia ritengono tale. Giordana, affidandosi regolarmente a sceneggiatori di grande abilità e professionalità, inserisce nei suoi film la quotidianità che è fatta anche di momenti ininfluenti da un punto di vista drammaturgico ma preziosi per la rappresentazione realistica delle storie. Molto spazio viene lasciato all’improvvisazione degli attori, legati alla sceneggiatura da vincoli precisi, ma con la libertà di regalare ulteriore umanità ai loro personaggi. L’ironia, lo scherzo, il siparietto comico diventano strumenti preziosi per un cinema che vuole affascinare raccontando la normalità. Per questo diventano molto importanti anche i personaggi minori o di contorno: il maresciallo del paese, i fricchettoni nudisti, gli amici di Peppino, i compagni della sezione e i mafiosi da Bar sono qualcosa di più di caratteri o macchiette, diventano piccoli protagonisti di altre storie che si intravedono e che si intersecano con quella narrata.

Il ruolo del minore e la sua rappresentazione

La non appartenenza Il film abbraccia un periodo piuttosto ampio della vita di Peppino Impastato, dall’infanzia alla giovinezza fino alla piena maturità. Se il passaggio tra le prime due fasi è sottolineato in maniera evidente tramite un’ellissi temporale e grazie allo scambio degli attori, la fase successiva è di più difficile interpretazione. Il racconto del Peppino “adulto” va presumibilmente dai sedici-diciassette anni fino ai dieci anni successivi. L’analisi del ruolo del minore si concentra dunque sulle fasi iniziali del film. Il piccolo Peppino fa parte di una famiglia legata alla mafia, il padre è cugino di un Boss locale in forte ascesa, ma è stato abituato a considerare normali i riti, i ritrovi, le dinamiche ed i rapporti di potere di questo microcosmo. In fondo è probabilmente lusingato dalla benevolenza che tutti i suoi parenti, ed in particolare lo zio, l’anziano patriarca della famiglia ormai scomodo, gli riservano in qualità di primogenito. A lui vengono affidati i compiti importanti come la recita della poesia per i cugini venuti dall’America o la guida della lussuosa macchina dello zio. L’impatto con la realtà però è traumatico, rappresentato da un attentato mafioso in piena regola (un’autobomba) al vecchio zio. L’evento mina le certezze del bambino e crea una falla nella sua comprensione dei fatti. Peppino ora vuole sapere come è possibile che un parente, una persona a cui lui vuole bene, venga uccisa con quella violenza, vuole cercare di catalogare quell’evento tra le categorie dell’esperienza, vuole ricevere gli strumenti per interpretare la realtà che lo circonda. All’interno delle mura domestiche e della cerchia familiare trova solo silenzi ed omertà, e allora si rivolge al dirigente della sezione del partito comunista, convinto che i comunisti, tanto bistrattati e criticati dalla sua famiglia, fossero i responsabili dell’attentato. L’incontro è di quelli che ti cambia la vita: è proprio grazie al pittore-compagno Stefano Venuti, infatti, che Peppino sviluppa una coscienza politica. La sua intelligenza viva e attenta lo porta a desiderare di comprendere e a non accontentarsi di accettare passivamente le dinamiche della propria famiglia. Il percorso è irreversibile. Gli stessi termini di “famiglia” e di “padre” gli diventano odiosi e insopportabili, rappresentano una gabbia, un ostacolo alla propria emancipazione culturale, un insulto alla propria intelligenza. La lotta esteriore alle dinamiche mafiose del consenso silenzioso diventa inevitabilmente anche una lotta interiore. In fondo egli è chiamato ad odiare il proprio sangue, le proprie tradizioni, ad entrare in conflitto con il proprio padre, in un meccanismo psicologico di uccisione metaforica del genitore. Proprio per la sua appartenenza diretta ad una famiglia mafiosa, Peppino sente, molto più di altri compagni ed amici, la necessità di una radicalità estrema e senza compromessi. Questo stesso rigore personale lo allontana dagli altri, lo porta ad una solitudine, ad una incomunicabilità che trova solo nelle parole dei poeti e nel microfono della radio uno sfogo ed un dialogo immaginario. Il rapporto con la madre, che lo ama incondizionatamente pur senza comprenderlo fino in fondo, è l’unico affetto pieno e consolatorio, anche se proprio per questo viene vissuto dal protagonista come un ricatto affettivo di cui liberarsi. Del resto Peppino invidia la normalità del fratello e degli amici, una normalità fatta di fidanzate e di professioni, che gli è estranea per scelta e per necessità. Tuttavia sente pressante la necessità di rimanere, di lottare, di protestare e di urlare il proprio disprezzo nei confronti della mafia, rappresentata dallo zio Tano a soli cento passi da casa sua. Per questo rifiuta qualsiasi opportunità di spostarsi offertagli dal padre che cerca inutilmente di salvargli la vita. Quasi come se sentisse il dovere di scontare una colpa, di pagare un debito familiare nei confronti della legalità e della giustizia, Peppino provoca la propria morte. Tutta la sua creatività, la sua ironia e la sua intelligenza lo portano a sfidare in un duello mortale il potere costituito. Un inconsapevole o inconscio desiderio di sacrificio, di martirio, che lo porta a diventare simbolo, a trasformare la propria vita in omaggio alla verità.

Riferimenti ad altre pellicole e spunti didattici

Per il linguaggio utilizzato ed i temi trattati I cento passi si presta particolarmente ad una visione per le scuole medie superiori. Il film offre un’ottima rappresentazione delle dinamiche mafiose e dei dilemmi etici del protagonista, permettendo, come accennato nella presentazione al film, l’immedesimazione da parte degli spettatori, in particolare quelli tardo-adolescenti. Il tema della ribellione e dello scollamento tra la logica familiare e la coscienza degli adolescenti può essere approfondito anche tramite la visione di Io non ho paura (Italia, 2003) di Gabriele Salvatores, mentre un approfondimento sul disagio giovanile che porta i giovani a scelte estreme o di forte rottura può essere condotto tramite la visione di Elephant (USA, 2003) di Gus Van Sant, Nemmeno il destino (Italia, 2004) di Daniele Gaglianone, The dreamers – I sognatori (GB/Francia/Italia 2003) ed Io ballo da sola (Italia/Francia/GB, 1996) di Bernardo Bertolucci, I pugni in tasca (Italia, 1965) di Marco Bellocchio. Ludovico Bonora

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