Gus Van Sant è un cineasta che ha attraversato fasi molto diverse di una carriera sempre molto interessante, nonostante non sia mai stata apprezzata con lo stesso entusiasmo da pubblico e critica. Il primo periodo è debitore di un’estetica filmica desunta, in egual misura, dal cinema indipendente americano, dalle avanguardie cinematografiche e artistiche, alle quali, per formazione culturale, è sempre stato molto vicino, caratterizzata da uno spiccato lirismo metaforico in grado di risvegliare arditi accostamenti di montaggio alla Ejzenstejn con la bellezza senza tempo di spazi vangoghiani irrorati dalla luce mirata di Vermeer. Il secondo si caratterizza per la precisione formale e l’estrema correttezza ideologica dei contenuti delle major hollywoodiane (nelle cui fila ha fatto parte per alcuni anni e per alcuni film). Il terzo, radicalmente diverso dal precedente periodo “mainstream”, si pone l’obiettivo dichiarato di descrivere un progressivo annichilimento dei sentimenti e delle aspirazioni umane, in grado di sublimare in una crisi generalizzata del mondo contemporaneo, in uno smarrimento sconfortante per i personaggi coinvolti. Questi ultimi, non sarà un caso, sono spesso degli adolescenti.