La locanda della felicità

di Zhang Yimou

(Cina, 2000)

Sinossi

Zhao è un cinquantenne disoccupato ancora celibe ma deciso a trovare moglie. Per non fare brutta figura con una possibile pretendente, una donna divorziata già tre volte, si spaccia per un facoltoso albergatore, assicurandole di avere i 50.000 yuan necessari per un fastoso matrimonio. La donna, obesa e dispotica, vive con il figlio, anch’egli obeso, e la figliastra cieca, la fragile Wu Ying: la prima richiesta al futuro consorte è di cercare un posto di lavoro per Wu. Confidando nella cecità della ragazzina, l’uomo accetta di aiutare la futura sposa e propone a Wu di diventare la custode del suo hotel. In realtà, quello che Zhao definisce “albergo” è un autobus abbandonato in un parco cittadino (denominato “La locanda della felicità”) che l’uomo gestisce con un amico, affittandolo alle coppiette che cercano un posto dove amoreggiare. Tuttavia, trascorso qualche tempo, l’autobus viene confiscato dalla polizia tanto da costringere Zhao a trovare un impiego sia per sé sia per Wu. Per evitare che la ragazza scopra quali siano le sue reali condizioni economiche e ne parli con la matrigna, con l’aiuto di alcuni amici Zhao decide di costruire una falsa sala massaggi in un capannone industriale abbandonato: in questo modo pensa infatti che Wu potrà credere di aver davvero trovato un lavoro. Per rendere credibile la menzogna, Zhao convince i compagni di sventura a fingersi ricchi clienti, a farsi massaggiare e ad elargire laute mance. In questo modo, giorno dopo giorno, il rapporto tra Zhao e Wu si fa sempre più stretto anche se i risparmi dell’ex operaio diminuiscono a vista d’occhio e la ragazza pian piano capisce di essere al centro di una messinscena. Quando Wu si accorge che Zhao sta dando fondo alle sue risorse, prende le sue cose e se ne va. Non può sapere che, nello stesso tempo, l’uomo è stato investito da un furgone e lotta, in un letto di ospedale, tra la vita e la morte.

Introduzione al Film

L’implosione della famiglia

Zhang Yimou si è spesso occupato di infanzia ed adolescenza nel corso della sua carriera, in particolare nella seconda parte degli anni ’90, con La triade di Shanghai (1995) Non uno di meno (1999) e La strada verso casa (1999). Con La locanda della felicità il regista ambienta, per la prima volta nella sua carriera, un soggetto sui minori in una città contemporanea, rinunciando a raffigurare la realtà contadina o quella della Cina del passato. Come già in Keep cool (1997), il tessuto urbano non fa solo da sfondo alla vicenda ma è l’eco della solitudine e più in generale dei sentimenti di impotenza provati dai personaggi. La sala massaggi, luogo dei sogni della ragazza, è un capannone di una fabbrica abbandonata, emblema di una società arrivata ad una fase postindustriale; il grande albergo di cui è proprietario Zhao è solo un vecchio autobus smesso, colorato di un rosso inquietante (nonché simbolo per eccellenza del regime comunista), il luogo in cui Zhao scrive una lettera piena di amore e tenerezza a Wu (poco prima di essere investito) non è una biblioteca o uno studio, bensì l’enorme sala deserta di un fast food. La Cina descritta da Zhang appare una nazione senza anima, in disuso, dove gli uomini e le donne sono attenti esclusivamente ai propri problemi e indifferenti a quelli degli altri. I personaggi positivi del film (Zhao, Wu, gli amici dell’ex operaio) sono i soli a sottrarsi a questa filosofia, ma a ben vedere Zhao è un Don Chisciotte bugiardo e arruffone, Wu è una principessa cieca (assomiglia, infatti, ad una Cenerentola alla ricerca di un padre invece che di un principe azzurro), i loro amici un gruppo di nullafacenti: il loro tentativo di creazione di una comunità alternativa è dunque destinato a naufragare appena la realtà delle cose (i soldi, una parentela inesistente, il destino sotto forma di incidente) irrompe nella storia, dividendo i protagonisti e cancellando ogni loro sogno di felicità. In un contesto urbano senza identità – la città non ha elementi che la contraddistinguono da altre metropoli, mantiene un profilo generico e impersonale – la prima istituzione a esplodere è la famiglia: i due protagonisti non hanno parenti (Zhao non è sposato e la ragazza ha un padre che l’ha abbandonata promettendole di ritornare, ma senza dire quando), l’unico nucleo che assomiglia a una famiglia è quello costituito dalla matrigna, ma il fatto che venga da tre divorzi e si sposi solo per soldi certo non gioca a favore della donna. In una Cina dove l’opulenza dovrebbe contraddistinguere il benessere, l’obesità della matrigna e del figlio raffigurano invece una ricchezza soltanto esteriore, priva dei valori primari della società tradizionale (accoglienza, amore per l’altro, partecipazione sociale, senso della comunità), una ricchezza pronta a scoppiare.

Il ruolo del minore e la sua rappresentazione

Le bugie hanno le gambe corte ma il cuore d’oro

In questo contesto, il rapporto tra Zhao e Wu appare l’unico degno di calore e profondità umana: tra l’uomo e la ragazzina si instaura, infatti, una vera e propria relazione padre/figlia, mentre la coppia costituisce insieme agli amici pensionati una famiglia allargata, alternativa. Non è solo la risposta ad un bisogno personale – il disoccupato cinquantenne cerca qualcuno con cui condividere la propria casa, la ragazzina cieca cerca una figura paterna di riferimento – ma il tentativo di trovare nell’altro una bussola per orientarsi nella quotidianità. È la sola risposta possibile alla solitudine degli affetti, costante che tocca tutti i personaggi del film. Zhao si prende cura della ragazza, le dà da mangiare e dormire, le vuole bene, la salva una notte da un possibile incidente, diventa ben presto la ragione della sua vita; Wu, di contro, si fa accompagnare dall’uomo, accetta i suggerimenti, gli chiede di diventare “i suoi occhi”, il filtro con cui conoscere il mondo. È paradossale che tale legame sia autentico pur se fondato sulla bugia: vero e falso allo stesso tempo, inevitabile e inevitabilmente destinato allo scacco. La visione della realtà – e del ruolo dei minori – in questo film di Zhang Yimou si fonda così su un cortocircuito: in una città dove tutto è falso o diverso da quello che sembra, dove i rapporti interpersonali sono fondati su calcoli economici (si veda il desiderio della matrigna di sposarsi solo a condizione che il futuro marito possieda i 50000 yuan), dove la superficie delle cose – come la vernice rossa con cui è ricoperta la locanda di Zhao – è talmente sottile che basta poco per farla saltare e mostrare la ruggine sottostante, lo spazio di espressione del singolo può essere creato solo all’interno di una grande menzogna. Che sia tra le pareti di una finta sala massaggi o di una vera sala cinematografica poco importa. Come già in Non uno di meno, i piccoli protagonisti sembrano prendere coscienza della situazione in cui si trovano prima degli adulti e sanno trarne le dovute conseguenze. In quel film, la maestrina Wei Minzhi abbandonava il suo villaggio di montagna per andare a recuperare un alunno in città, rischiando di essere licenziata o di non raggiungere il suo obiettivo; qui Wu non esita a sacrificare la propria felicità pur di non impoverire ulteriormente Zhao. La risolutezza nel perseguire i propri obiettivi è una caratteristica che i personaggi del regista cinese possiedono sempre, nondimeno quando tale attitudine è assegnata a ragazzi o adolescenti appare ancora più significativa e rilevante. È il sintomo di una fiducia intatta da parte di Zhang nei confronti delle generazioni più giovani, di una forbice relazionale che invece di chiudersi continua ad allargarsi costringendo gli adolescenti a fare da sé, di una stagnazione che colpisce la società, immobilizzandola, rendendo il cambiamento impossibile. Solo una ragazzina cieca può avere l’utopica convinzione di camminare da sola in una città che non conosce, di farlo a testa alta e – come l’ultima splendida sequenza del film dimostra – di avere la certezza di approdare da qualche parte, nonostante sia sola, nonostante il lutto per l’ennesima perdita di una figura paterna sia difficile da elaborare.

Riferimenti ad altre pellicole e spunti didattici

La locanda della felicità è un film che affronta – seppur in maniera indiretta – il tema dell’affidamento. Un affidamento casuale, improvvisato, vissuto inconsapevolmente, ma carico di forza emotiva e sentimento. Un’analoga situazione si può trovare ne Il monello di Charlie Chaplin, mentre in film come Kramer contro Kramer di Robert Benton o Paris Texas di Wim Wenders viene inscenato il conflitto con la controparte femminile. In tutti i film citati siamo di fronte comunque a uomini che curano e proteggono i minori in assenza di una figura materna. Da un punto di vista didattico, l’opera di Zhang può essere inserita all’interno di rassegne che affrontano le tematiche dell’handicap. La cecità di Wu è la molla che determina la solidarietà sociale da parte di Zhao e dei suoi amici. Un altro film di Chaplin può essere citato a riguardo: si tratta di Luci della città, storia di un vagabondo che si prende cura di una fioraia cieca. Marco Dalla Gassa

E' possibile ricercare i film attraverso il Catalogo, digitando il titolo del film nel campo di ricerca. Le schede catalografiche, oltre alla presentazione critica collegata con link multimediale, contengono il cast&credits e una sinossi. Tutti i film in catalogo possono essere richiesti in prestito alla Biblioteca Innocenti Library - Alfredo Carlo Moro (nel rispetto della normativa vigente).