Antonio Capuano - Intervista

2009/07/15 Type of resource News Topics Adolescence Childhood Titles News

 

Conversazione con Antonio Capuano di Fabrizio Colamartino
 

CNDA: Incominciamo dal rapporto tra Napoli, i bambini e il cinema che risale al Neorealismo, ma forse anche a una tradizione più antica e che, probabilmente, è un’immagine abusata. Antonio Capuano: Napoli è sempre stata, in passato ben più di oggi, una città piena di bambini; c’è sempre stata la cosiddetta “scugnizzeria”, qualcosa che col tempo e diventata un po’ una cartolina, una delle tante della città, ma che, in effetti rende l’immagine del bambino come qualcosa di molto partecipante alla vita della città, specialmente alla vita di strada. Allo scugnizzo Napoli ha dedicato addirittura un monumento, c’è tutta una letteratura dello scugnizzo, per non parlare dell’arte figurativa in cui la presenza di questa icona risale alla pittura napoletana del Seicento, in parte di derivazione spagnola. Senza dubbio il bambino è uno dei segni emblematici della città. Poi, chiaramente il cinema arriva dopo, raccoglie e riassume un po’ tutte queste immagini stratificatesi nel tempo, e ci arriva, se vogliamo parlare del secondo dopoguerra, in un momento in cui i bambini sono davvero molto presenti. C.: E quindi qual è la sua funzione rispetto alla specificità del cinema? A.C.: Beh, è un ottimo mezzo per raccontare la città: il bambino, lo scugnizzo in particolare, si intrufola dappertutto, ha mille legami con il contesto, seguirlo è una vera e propria impresa, una sfida. Se dovessimo parlare dell’immagine cinematografica dei bambini nella città, dovremmo partire da Napoli e dal cinema napoletano. De Sica ha fatto dei capolavori con i bambini nel contesto della città e, anche se i suoi film più importanti non sono stati girati a Napoli, sappiamo quanto fosse legato a questa città che considerava in tutto e per tutto la sua seconda casa. C’è l’episodio dell’Oro di Napoli, ad esempio, che è straordinario. C.: E per quanto ti riguarda personalmente? A.C.: Io personalmente, vivendo molto la città, girando parecchio mi accorgo che c’è più di un fondo di verità: i bambini sono un aspetto molto vistoso di Napoli, specie nelle zone popolari. Così, quando ho deciso di girare il mio primo film è stato naturale partire da lì, ovvero da una storia vera, quella di un ragazzino di quindici anni che era andato a finire in carcere e di andare in un primo momento a scoprire i luoghi nei quali aveva avuto quella e tante altre storie simili e non meno drammatiche, poi a scegliere i miei interpreti. Così ho incominciato ad avvicinarmi a questa realtà, più di quanto già non lo fossi, con un interesse iconografico, naturale, addirittura “biologico” verso questa fauna così interessante, così bella. C.: Ed hai fatto Vito e gli altri. A.C.: Era una storia alla quale mi sono sentito vicino, fin da subito, come del resto anche a quella che poi è diventata Pianese Nunzio, 14 anni a Maggio, una storia scoppiata proprio alla Sanità, ovvero quella di un prete che aveva avuto un rapporto con bambino, il quartiere dove stavo girando Vito e gli altri, dove avevo trovato tutti gli interpreti: Nando Triola (il protagonista) l’avevo trovato alla Sanità,davanti a una sala giochi, insieme agli altri ragazzini che si vedono con lui nel film. C.: E perché questo interesse così costante per il mondo infantile? A.C.: Non so cosa mi spinge verso bambini, il perché di un interesse e una continuità così marcati. Sono tutte storie vere, anche questa di La guerra di Mario, vissuta da una mia cara amica: è come se mi venissero incontro, o come se io le aspettassi; del resto in quindici anni ho girato appena cinque o sei film… In fondo, i bambini fanno parte del nostro mondo, sono una parte essenziale della nostra vita, mentre di solito noi adulti tendiamo a relegarli ad una funzione marginale, accessoria. I bambini stanno insieme a noi, anche se non ce ne accorgiamo, come gli animali, del resto, che sono altrettanto presenti nei miei film. Quando racconti la vita devi metterci tutto dentro: bambini, animali, adulti. Tento di raccontare le mie storie in modo globale,magari privilegiando il punto di vista dei bambini ma tentando di tenere presenti tutti. C.: A proposito di questa globalità alcuni critici hanno affermato che i tuoi film sono dispersivi, che non sono sviluppati narrativamente ma che vivono per accumulo di situazioni. A.C.: La realtà è una dimensione continua e, paradossalmente, il cinema può raccontare questa continuità solo attraverso la massima discontinuità. Poi, oggi in particolare,viviamo mille situazioni contemporaneamente e, anche se racconto una storia che ha una linea precisa, mi piace che sia attraversata continuamente da quelle che io chiamo “correnti oblique”. C.: Prima hai parlato di L’oro di Napoli, un film importante ma che comunque dava un’immagine tradizionale della città. A.C.: Sì, ma mai bozzettistica, forse anche perché De Sica poté servirsi di vere e proprie icone napoletane come Totò, Eduardo, la Loren: ha fatto un film che era autentico proprio perché non cercava l’autenticità, neanche il realismo, ma partiva da una serie di elementi talmente immediati che erano percepiti come autentici, anzi lo erano davvero. C.: E tu con Polvere di Napoli su questi elementi ci hai costruito una sorta di omaggio, di demistificazione, un gioco. O forse hai voluto segnare una sorta di distanza tra l’immagine cinematografica della Napoli di oggi e quella di ieri? A.C.: Io con Polvere di Napoli volevo fare un omaggio a quello che chiamo affettuosamente “lo zio”, Vittorio De Sica: volevo vedere dopo cinquant’anni L’oro di Napoli cos’era diventato in che cosa si era trasformato. Mi sono messo sulle tracce di alcuni elementi del film; per esempio la partita a carte tra il nobile e il figlio del custode, che è forse l’episodio più celebre. Ho ritrovato il palazzo nel quale era stato ambientato e ho immaginato il bambino, invecchiato, che ha preso il posto del padre e che continua a giocare a carte con il figlio del conte che abita sempre all’ultimo piano, che ha ancora la malattia delle carte. C.: Hai ritrovato l’interprete del film, hai parlato con lui dell’esperienza con De Sica, non hai pensato che potesse essere l’interprete? A.C.: Sì, l’ho contattato e gliel’ho proposto ma a lui non interessava e poi ho saputo che, qualche mese dopo era morto, quindi ho scelto un altro interprete. Quello che posso dire è che aveva ancora gli stessi occhi del film, lo stesso sguardo “adulto”, un po’ rassegnato, che è una delle componenti che si incontrano spesso nell’atteggiamento dei bambini napoletani. C.: Invece, in quello che io considero il tuo film più bello, Vito e gli altri, sei partito dalla realtà: niente rielaborazioni, niente “filologia”. A.C.: Sono partito doppiamente dalla realtà perché lo spunto, l’idea per il film me l’ha dato il caso di questo ragazzino di quindici anni che era stato messo tra altri detenuti più grandi e aveva subito delle violenze e poi perché avevo deciso di lavorare al quartiere Sanità con dei ragazzini che erano in una condizione di “allarme sociale”, di pericolo. C.: Come ti sei avvicinato a loro? A.C.: In maniera rudimentale, semplice, compiendo dei sopralluoghi per trovare un po’ di location: come spesso accade quando arriva uno sconosciuto nel quartiere (io e coloro che stavano lavorando insieme a me al film) viene subito notato. Lui – Nando Triola, il giovanissimo protagonista – era lì, davanti a una sala giochi insieme agli altri e abbiamo fatto amicizia… Aveva ancora undici anni e mezzo, era piccolissimo, tant’è che veniva con la madre sul set. C.: Attori presi dalla strada, bambini… torniamo ancora dalle parti del Neorealismo, a quella commistione tra cinema e vita propria di un certo modo di fare cinema “tipico”.

A.C.: Non so, ti posso dire che, a parte il protagonista, tutti gli altri ragazzini interpreti di Vito e gli altri oggi hanno una vita abbastanza normale, lavorano quasi tutti, hanno una famiglia. Fare il film certamente non li ha salvati ma non credo neanche che si fossero fatti illusioni – che so, diventare degli attori – lavorando con me.

C: La guerra di Mario hai detto che è nato dal racconto di una tua conoscente… ma cosa ci hai aggiunto tu e quindi come si innesta sul tuo percorso registico? A. C.: Come avrai capito scelgo le storie da raccontare lasciandomi colpire, ovvero è la storia che ti sceglie: io di solito abbraccio quelle vicende che mi trovano più vulnerabile, di fronte alle quali la prima reazione è molto emotiva, impulsiva, quelle che toccano un nervo scoperto. È come se la storia dovesse “entrarti dentro” e dunque quella rispetto alla quale sei meno preparato, più debole e meno “attrezzato” per affrontarla, paradossalmente, è proprio quella giusta. Di mio qui ci ho messo tutti i riferimenti all’arte, ho trasformato la protagonista in una docente di Storia dell’arte perché altrimenti sarebbe stato difficile per me farle dire qualcosa di sensato: mi ha aiutato a entrare in contatto col personaggio. C.: Questa volta, a differenza di tutti gli altri tuoi film che hanno uno stile ben preciso, hai lavorato per sottrazione: al di là di un budget ridotto all’osso c’è un motivo particolare che ti ha spinto a concentrarti più sul cosa che sul come? A.C.: Non faccio mai una vera e propria ricerca sullo stile. Diceva Eduardo De Filippo che “chi cerca lo stile trova la morte, chi cerca la vita incontra lo stile”. Fin dalla scrittura non penso mai allo stile, a creare belle immagini. Un elemento che mi guida, forse, è pensare alla luce, quale tipo di luce dovrebbe esserci per una certa scena, per un dialogo tra due personaggi. Sul set e anche al montaggio cerco sempre di complicarmi il meno possibile la vita. Certo, in Mario forse questo emerge in maniera più evidente, ma anche in Pianese Nunzio se si poteva parlare di uno stile “barocco”, non c’era nulla di realmente voluto: c’era una ricerca sulla pittura del Seicento napoletano ma era qualcosa di molto naturale, che lo stesso film richiedeva, esigeva… C.: Mentre invece in La guerra di Mario A.C.: Con Luca Bigazzi abbiamo fatto un lavoro più moderno, abbiamo scelto un taglio essenziale per la fotografia che non è quello classico della “bella fotografia” leccata, precisa, tipica del cinema italiano. C.: A proposito della fotografia, in La guerra di Mario tu per la prima volta ti confronti con un ambiente borghese, anche alto-borghese (lei insegna all’università, lui è un giornalista affermato) e mi pare che in moltissime occasioni nel corso del film abbia fatto uso di superfici riflettenti, traslucide, trasparenti, come per dare a questi personaggi una connotazione più problematica. In passato, invece, la mdp si confrontava con barriere più fisiche (ad es. nella prima sequenza di Pianese Nunzio in cui scavalcava ringhiere e inferriate). A.C.: Pianese Nunzio era un film barocco, dunque anche di “scrittura” barocca, scrittura nel senso di scrittura filmica, come abbiamo detto. Una specie di barocco esistenziale con quei rapporti così involuti, così complicati, nei quali ogni personaggio riversava il suo desiderio per qualcos’altro, lo sublimava. E poi era un film calato anche nel senso architettonico in un ambiente barocco,avendo la chiesa come ambiente principale dell’azione dei personaggi, il centro storico era protagonista. È una buona interpretazione quella proposta, anzi ora che ci penso ritengo che possa essere estesa a tutto il film – anche se non è assolutamente voluta, cercata – perché poi l’inquadratura finale è quella in cui Mario guarda lei che se ne va da dietro il vetro della finestra del tribunale. C.: Quindi forse c’è anche la voglia di dire che, al di là dei problemi tragici che affrontavano i protagonisti dei tuoi film precedenti, i rapporti tra questi personaggi borghesi sono connotati da delle barriere invisibili e, quindi, forse più problematici? A.C.: C’è una mancanza di assoluta di connotazione, non abbiamo fatto delle scelte di stile, non ci sono carrellate, movimenti di macchina significativi; Bigazzi ha quasi sempre usato la macchina a spalla per seguire i personaggi e quindi forse quello che hai notato tu, l’uso dei vetri, delle superfici riflettenti è il risultato di una ricerca espressiva talmente ridotta all’osso che ha trovato nella concretezza degli oggetti esistenti la maniera per emergere. Non c’è nulla di ricercato, comunque, non c’era un progetto: è l’indicibile e l’inspiegabile dell’arte di cui può parlare più lo spettatore al regista che viceversa. Ogni forma di critica o di interpretazione contiene in sé comunque una parte di arbitrarietà e di soggettività e secondo me è lì che il film “si apre”, acquista un suo senso se non definitivo, almeno ulteriore rispetto a quello iniziale. È il quarto livello della costruzione di un film, quello che viene dopo la scrittura, le riprese e il montaggio, cioè la visione da parte dello spettatore che chiude il film e che, al tempo stesso lo apre a un nuovo senso. Se non c’è almeno uno spettatore il film non esiste… C.: Secondo me c’è tuttavia un livello ulteriore di significato che si può attribuire a questa scelta: è chiaro che Giulia ha un rapporto estetizzante con Mario (si pensi a tutte le volte in cui è entusiasta di fronte alle marachelle del bambino) e in lei – soprattutto nella sua sconfitta – forse si può anche leggere una specie di tua personale autocritica su come hai visto l’infanzia difficile a Napoli nel corso della tua carriera. A.C.: No, non credo che si tratti di questo: Giulia è una mia creazione nella misura in cui ho trasformato la persona cui erano realmente accadute le vicende narrate nel film in un personaggio. Quella, che era una professoressa di lingue è diventata docente di storia dell’arte, un campo, questo, nel quale io personalmente ho molte più cose da dire. Ma non volevo assolutamente dare l’idea di una sorta di necessità di “purificarmi” dalla mia visione precedente dell’infanzia napoletana per abbracciarne una diversa o opposta. Si tratta di un processo in divenire rispetto al quale non ci sono prese di coscienza così brusche e definitive. Semmai, mi riconosco molto di più nel personaggio di Mario, nel suo passare con il rosso al semaforo: quello sì che mi sembra un segno forte, lì ho voluto “dire” realmente qualcosa in prima persona. Un altro personaggio nel quale mi riconosco, se vuoi, è il nonno dell’amichetto con la sua filosofia alternativa da delinquente organizzato. C.: Una filosofia che hai ampiamente sviscerato nei tuoi film precedenti ma che qui trova un chiarimento definitivo relativamente al suo rapporto con l’infanzia. A.C.: Le sue allusioni alla funzione accecante, castrante dell’educazione, scolastica, familiare, borghese sono chiare: l’uccellino accecato affinché canti meglio; a scuola si impara a stare in silenzio. Il nonno è la materializzazione dell’antistato. A Napoli questa “scuola parallela” costituita dalla malavita ha un’importanza fondamentale nella vita sociale. C.: Tant’è vero che poi i ragazzi che giocano a pallone con l’amichetto di Mario lo dicono chiaramente: la scuola è un brutto carcere e il carcere è una bella scuola… A.C.: A Napoli l’evasione scolastica è in controtendenza rispetto al resto d’Italia, è aumentata significativamente negli ultimi anni forse perché la scuola non riesce a cambiare in relazione alle esigenze del territorio e di chi ci vive. Negare l’esistenza di una società parallela come quella della malavita organizzata che provvede anche a “educare” a suo modo e per le sue convenienze i ragazzini sarebbe un’ipocrisia. C.: Torniamo a quello che tu chiami un “segno forte”, ovvero Mario che attraversa il semaforo col rosso: il ragazzino è attratto dalla morte e questo rapporto tra infanzia e morte è un elemento che attraversa tutta la tua filmografia. A.C.: La nostra è una società che, almeno a parole, ripete continuamente di voler tutelare l’infanzia: in fondo tutto il film è basato sulla contesa di questo bambino tra persone che dicono di volerlo tutelare. Allo stesso modo abbiamo terrore della morte, è una cosa che vogliamo allontanare da noi il più possibile, ed è una cosa normale, ma l’abbiamo fatta diventare una fissazione patologica. A Napoli i ragazzi non si mettono in casco e questo forse è un segno di ribellione agli schemi imposti dall’alto, dal mondo degli adulti… a dire il vero in questa città anche gli adulti non si mettono le cinture di sicurezza. Quello di Mario è un gesto simbolico del volersi collocare in una posizione marginale, un atto estremo che può avere conseguenze fatali e che costituisce la punta estrema di una serie di provocazioni che si dipana per tutto il film. C.: La presenza della televisione nei tuoi film è un dato costante, una presenza ossessiva tipica, del resto, della realtà quotidiana soprattutto di certe realtà degradate. È un caso che anche il compagno di lei sia un giornalista televisivo? A.C.: L’immagine del mezzobusto televisivo (un termine che non si usa più, del resto) è quella di chi ripete le notizie, le fa cadere dall’alto senza aggiungervi granché. Mi serviva per dare al personaggio quelle caratteristiche di incapacità di esprimere un punto di vista originale sulle cose. Poi Sandro ha una sua volumetria in quanto personaggio e le sue buone ragioni in quanto compagno di Giulia (che, a dire il vero, si lancia in un’impresa al di sopra delle sue capacità) così come i giornalisti televisivi sono spesso dei veri professionisti. Molti spettatori mi hanno detto di essere d’accordo con lui. C.: Lei invece è una figura incredibilmente complessa: continua a cercare la maternità in questo figlio non suo anche quando si accorge di essere incinta. A.C.: E sì: a quel punto lei poteva tirarsi fuori dai giochi, magari anche limitando i danni a carico del bambino. Invece cerca qualcosa che non è solo la maternità ma un cambiamento della sua vita, una scossa vitale. Vuole un cambiamento totale, assoluto, un po’ come le opere monocrome di Ives Klein che descrive ai suoi studenti, che esprimono una profondità astratta. Non è un caso che rifiuti la maternità biologica a favore di un’idea di maternità che può sviluppare attraverso Mario. Lei è una che alla fine ti cita Fontana, il pittore informale, attraverso quella frase “l’intelligenza è l’unica forma di libertà” che pronuncia con un senso enorme di sofferenza. C.: Ma c’è anche questa attrazione di Giulia verso tutto un mondo istintivo, popolare, verso Nunzia e, forse ancor più, l’attrazione-repulsione verso il compagno di lei. A.C.: Sì, lui rappresenta un elemento di forte attrazione per lei, in fondo è la realizzazione dal punto di vista sessuale di ciò che rappresenta il bambino che, in qualche modo, è una versione neutralizzata, più accettabile dell’uomo. Del resto, la vita di strada dà tantissimo questa forte connotazione di genere ai bambini che, fin da piccolissimi, si identificano come maschi e femmine. C.: Ma la necessità del contatto tra i corpi, di questa fisicità in fondo negata dalla civilizzazione, dall’imborghesimento, nei tuoi film diventa sempre tensione verso qualcos’altro, come nel caso del prete di Pianese Nunzio che cerca nel corpo di Nunzio un contatto con il divino… A.C.: Sì, c’è quel monologo interiore nel quale don Borrello dichiara questa ricerca di Dio attraverso il rapporto con un corpo, un rapporto carnale e, dunque, vede la sua relazione con il ragazzino come una cosa “pura”, bella… Giulia sente il bisogno schiacciante di un corpo: in fondo cos’è la maternità se non il bisogno di una donna di entrare in contatto con la parte più intima di se stessa? C.: E forse questa cosa ha anche una ricaduta “estetica”: non è un caso quell’allusione a Caravaggio... A.C.: Sì, in fondo lui è uno dei primi pittori a rivolgere lo sguardo verso il popolo, con la sua fisicità, la sua autenticità, a riuscire a vedere anche negli aspetti più prosaici e volgari della vita una scintilla di divinità, un’“intelligenza”. C.: Tornando agli aspetti più “concettuali” del film, in Vito e gli altri c’era lo schermo del videogame che invadeva quello cinematografico e la televisione che polarizzava in maniera ipnotica lo sguardo dei personaggi. In La guerra di Mario, invece? A.C.: Beh, le cose cambiano: nel mio primo film i videogiochi erano collocati nelle sale giochi, avevano in qualche modo una funzione sociale, magari non proprio positiva, ma comunque ce l’avevano. Adesso, invece, il videogame che vediamo usare a Mario ha un carattere più invasivo, lo isola dal contesto, è più subdolo. Allo stesso modo la televisione è diventata un elettrodomestico come la lavatrice o il frigorifero, una presenza cui nessuno fa più caso, ma che c’è e che forse agisce ed è inquietante proprio per questo. In effetti, poi, nel film faccio vedere uno schermo di videogame in primo piano: è quello delle automobili da corsa, quando il bambino si rifiuta di parlare con Sandro. C.: Ci sono un sacco di cose che “tornano” da Vito in Mario: la guerra, ad esempio. A.C.: È vero, ritornano molte cose, anche se non in maniera voluta. Mario colleziona memorie di altri bambini, bambini-soldato. Io penso che, paradossalmente, la guerra dei bambini-soldato, con tutta la sua violenza può essere più catartica e liberatoria di una guerra “fredda”, combattuta in solitudine, come quella di Mario. La guerra è anche un gioco, in fondo, un gioco tremendo che in Vito diventa realtà, con il ragazzino che viene ingaggiato dalla camorra come baby-killer. Forse Vito, a modo suo, si sente meno solo e frustrato di Mario che, tuttavia, avrà un destino probabilmente più positivo. C.: I tuoi personaggi adulti o sono totalmente anaffettivi oppure morbosi… A.C.: E’ difficile raccontare qualcos’altro, almeno per me. O si ama o si odia, oppure, se si è indifferenti, beh, allora è davvero difficile raccontare una storia: devi avere la sensibilità e la cultura di un Antonioni, di un Bergman e, oltretutto, agire in un contesto prettamente borghese. Sandro, il compagno di Giulia, è una persona normale, ad esempio: tenta di entrare in contatto con il bambino, più volte; ci prova, ma Mario lo respinge, lo sente troppo distante… C.: Un altro elemento a rischio nei film con i bambini sono gli animali. Come hai aggirato l’ostacolo, il pericolo di una sorta di “effetto Lassie”? A.C.: Il cane poteva essere la chiave del grande successo del film, sempre che io avessi voluto confezionare un film di successo. Quella del cane era un’esperienza accaduta realmente al bambino della vicenda alla quale mi sono ispirato per il film. Fin dalla scelta abbiamo cercato di evitare un certo tipo di cane: ci siamo limitati a chiedere a chi ce lo doveva fornire quale era il tipo di animale più adatto a questo genere di film. Anche le inquadrature, se hai notato, hanno un taglio particolare e il montaggio delle sequenze dove c’è il cane è molto secco, non indulge… Vorrei anche, ogni tanto, raccontare una storia rilassandomi, facendomi prendere la mano dalle convenzioni, inserire il pilota automatico, per così dire, ma non ci riesco… C.: L’acquisto del serpente subito prima dell’invasione della casa della madre di lei da parte dei due buzzurri? A.C.: No, lui ha perso il cane e forse nel serpente cerca un animale anaffettivo, freddo, indifferente… nella cultura, specie del sud, il serpente è un simbolo negativo, il contrario della fedeltà, rappresentata dal cane, appunto. C.: L’aereo che fa il giro della morte al termine del film? A.C.: In realtà il finale doveva essere completamente diverso. Mario per tutto il film evoca questo supereroe, Shad-sky, e nel finale, quando Giulia costretta a abbandonarlo,Mario doveva alzare la testa, guardare il cielo e vedere questo supereroe che veniva in qualche modo a salvarlo… In effetti, tutti i disegni di Shad-sky che mi hanno portato non mi soddisfacevano, sembravano i soliti supereroi e allora, alla fine mi sono rassegnato, mi son detto: “qualcosa succederà”… Quando abbiamo girato la soggettiva di lui che guarda il cielo è passato un aereo e lì ho capito che quello poteva essere Shad-sky:con un semplicissimo effetto di montaggio abbiamo ottenuto questo effetto straniante. È una cosa magica, semplice ma magica… C.: Però è facile istituire un parallelo tra Vito e gli altri e Questa è la mia vita di Godard, a incominciare dalla struttura a capitoli, fino all’uso dello sguardo in macchina, fino alla condizione esistenziale di entrambi (lei, la protagonista è una prostituta, in fondo come Vito)… A.C.: E’ assolutamente vero: quel film di Godard per me è stato una grande fonte di ispirazione, anche se le cose che ha fatto in seguito non mi hanno più convinto. Come lui, probabilmente, quando giravo Vito ero alla ricerca di una via d’uscita dal cinema più che di un modo per entrarvi. C.: Mentre invece con Pasolini c’è una forte affinità tematica e culturale.

A.C.: Non solo: è vero che io come lui ho raccontato sempre storie marginali, al limite, ma in comune c’è anche la passione per l’arte, il trarre ispirazione da essa e il ritrovare nei corpi e nei volti di oggi quelli di sempre, del popolo. Ma non c’è neanche da parlarne: per me Pasolini è un punto di riferimento assoluto, perché è il primo intellettuale italiano a essersi confrontato con la cultura sottoproletaria, ad essersi avvicinato ad essa con umiltà. Ma anche dal punto di vista figurativo, lo sento talmente “mio” che non posso dire di aver preso questo o quell’elemento dai suoi film, è come se ci sia un canale di comunicazione talmente forte che è difficile spiegare. Ma penso che tanti altri provino nei confronti di un autore così grande la stessa cosa. Comunque non mi richiamo mai al cinema quando scrivo o giro: mi piace la realtà, mentre i riferimenti al cinema sono una cosa un po’ necrofila. Poi i miei film e autori preferiti me li porto dentro e sono sicuro che orientano inconsciamente le mie azioni: Pasolini, il primo Godard, Scorsese, Woody Allen, Chaplin, Leone.

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