Teoria e pratica del cinema a confronto con le prime esperienze di socialità infantile
Nell’intervista inclusa nel dvd del suo documentario del 1998 Récréations, la regista francese Claire Simon fa un’affermazione che sorprende per la capacità di sintetizzare con estrema precisione il senso di quella che la regista definisce come la prima vera esperienza sociale nella vita di un bambino, la ricreazione, appunto. «È importante la libertà nella ricreazione: non ci sono adulti né educatori, nessuno dice ai bambini cosa devono fare o non fare. Ed è necessario che la ricreazione sia libera: per i bambini è la prima volta che esplorano la libertà, è la prima volta che devono scegliere autonomamente». Il documentario, girato interamente nel cortile di una scuola materna parigina con una telecamera digitale dopo un periodo di studio discreto dei comportamenti dei bambini, non parte dalla necessità di verificare alcunché, bensì dal desiderio di documentare una fase della vita di ogni individuo che è determinante come poche altre per la futura capacità di socializzazione. Eppure, proprio perché libero da ogni volontà dimostrativa, il documentario riesce a cogliere l’essenziale delle prime esperienze dei bambini alle prese con un ambiente diverso da quello familiare, con la gestione di un tempo sottratto al controllo degli adulti con uno spazio libero nel quale l’attività ludica consiste nell’inventare praticamente da zero oggetti, situazioni e, soprattutto, relazioni sociali. Récréations non ha nulla della consueta leziosità con cui si è soliti raffigurare l’infanzia, anche in molti documentari, spesso afflitti dai medesimi stereotipi che caratterizzano i film di finzione: nel film della Simon vanno in scena la difficoltà di gestire la socialità nei momenti in cui sorgono disaccordi, tensioni, conflitti, e il contatto traumatico dei bambini con una realtà nella quale sperimentano per la prima volta la solitudine di fronte al mondo e alle scelte che necessariamente esso impone. Nel film sembrano agire contemporaneamente due forze contrastanti eppure insopprimibili: da un lato la voglia di socializzare, il desiderio di condividere con gli altri giochi ed esperienze, dall’altro il bisogno di ogni bambino di trovare una propria identità distinta dagli altri.
Se il documentario della Simon punta la sua attenzione sui rapporti tra i bambini, lasciando fuori campo gli adulti (genitori, educatori), individuando conseguentemente nei concetti di libertà e di scelta autonoma due dei fattori del percorso di crescita che incomincia con l’uscita dall’ambito rassicurante della famiglia, è altrettanto importante comprendere in che modo avvenga l’inserimento del bambino nella prima istituzione con la quale è chiamato a confrontarsi soprattutto dal punto di vista del rispetto delle regole e del riconoscimento dei ruoli nel contesto scolastico. All’interno di una dimensione pur sempre protettiva come quella del nido o dell’asilo, il bambino si confronta per la prima volta con una situazione diversa da quella originaria che ha caratterizzato fino a poco prima la sua esistenza, ovvero con un’autorità esterna all’universo affettivo nel quale è cresciuto. In Chiedo asilo di Marco Ferreri il tema del rapporto tra una condizione di originaria semplicità (e felicità) e il primo contatto con l’istituzione scolastica è sviluppato attraverso la rappresentazione surreale delle vicende di un giovane maestro d‘asilo alle prese con un mondo di regole eccessivamente rigide e di alienanti compromessi. Il protagonista, reso dalla maschera lunare e ingenua di Roberto Benigni, si fa portatore di metodi pedagogici innovativi che non si rifanno a impostazioni accademiche di sorta (in una delle prime sequenze lo vediamo soppesare dubbioso i libri di pedagogia che ha studiato, leggerne ad alta voce i titoli, per poi abbandonarli prima di recarsi al lavoro). Roberto è il primo a sentirsi fuori luogo all’interno del contesto scolastico, sorta di estensione in piccolo della società appena al di là del recinto dell’asilo: con i suoi comportamenti bislacchi, le sue iniziative stravaganti non fa altro che confermare a ogni passo l’impossibilità di uniformarsi al comune sentire, di lasciarsi omologare dal sistema di valori dominante. I metodi utilizzati dal maestro sono volti a sviluppare la creatività dei piccoli, fattore principale del loro percorso formativo: per questo, piuttosto che educarli a rispettare regole e ruoli, in una sorta di anticipazione della vita adulta, di quella dimensione sociale e lavorativa alienante che caratterizza la società moderna, Roberto cerca di farli uscire dall’asilo e li spinge a giocare all’aria aperta, il più possibile a contatto con la natura e con gli animali.
Benché incentrato su una visione che oggi può apparire datata e animato da una vis polemica nei confronti dell’istituzione scolastica (ma anche della famiglia intesa in senso tradizionale) che può risultare anacronistica, il film di Ferreri è decisamente interessante poiché riesce a evidenziare, proprio grazie alla contrapposizione tra il carattere del maestro e quello degli altri adulti, il difficile percorso di entrata dell’infanzia nella vita sociale. Simbolo di questa difficoltà è il piccolo Gianluigi che, nel corso del film, non parla e rifiuta il cibo, quasi voglia attuare una sorta di regressione, di ritorno nell’utero materno, di rifiuto ostinato a scendere a compromessi con gli adulti. Del resto, anche il finale del film allude a una dimensione di ritrovata armonia in seno alla natura, con Roberto e il bambino che scompaiono dall’inquadratura conclusiva eclissandosi in mare, ritornando a quella condizione originaria, vissuta da ognuno all’inizio della propria vita, che i condizionamenti imposti dall’educazione canonizzata sembrano voler cancellare.
Con Chiedo asilo la scuola si conferma luogo cinematografico privilegiato, capace di riprodurre nel bene e nel male i meccanismi della società e le dinamiche interpersonali, semplificandoli e rendendoli paradigmatici rispetto a una condizione che è propria di ogni individuo. Tra i film che negli ultimi anni sono riusciti a restituire un’immagine emblematica della scuola per l’infanzia, ma in senso totalmente positivo, c’è il documentario di Nicholas Philibert, Essere e avere. Il film ci mostra la vita quotidiana in una classe unica che ospita fanciulli di età variabile fra i tre e gli undici anni, nel villaggio di Saint Etienne sur Usson, in una zona isolata dell’Alvernia, in Francia. Straordinario protagonista del film, insieme ai bambini, è George Lopez, il maestro che ha dedicato buona parte della sua vita professionale a educare gli scolari del villaggio, alternando con intelligenza sensibilità e autorevolezza, rigore e sollecitudine. La prima sensazione che si ha guardando il film di Philibert è quella di penetrare all’interno di una dimensione armoniosa le cui caratteristiche fondamentali sono la tolleranza e l’equilibrio: una dimensione fuori dal comune e anche un po’ “fuori dal mondo”, diversa da quella moderna, sempre più frenetica, con cui sono costretti a convivere fin dai loro primi anni di vita la maggior parte dei bambini. L’Alvernia, del resto, è una zona agricola sostanzialmente isolata, lontana dai contrasti violenti che caratterizzano la società contemporanea: in questo contesto la scuola e la figura del maestro (che con la scuola fa corpo unico, dimorando addirittura nel piccolo edificio che ospita le aule) sono ancora istituzioni profondamente rispettate, dei veri e propri punti di riferimento per una comunità legata alla terra e alle sue certezze. Siamo ben lontani dalla dimensione urbana che caratterizzava Chiedo asilo, dalla scelta lacerante tra natura e cultura, tra un mondo originario sostanzialmente utopico e una dimensione postmoderna da accettare a scatola chiusa: nel documentario di Philibert tutto rientra all’interno di una visione “ecologica” che abbraccia con coerenza ogni aspetto della vita dei bambini, dalla scuola alla famiglia alla socialità.
Per accostarsi a questa realtà “incontaminata” l’approccio scelto dal regista di questo straordinario documento è stato quello della “banalizzazione” della macchina da presa, operazione finalizzata al raggiungimento del massimo grado di naturalezza da parte dei suoi “attori” e a far penetrare lo spettatore all’interno di una realtà che sembra (e in effetti è) colta sul fatto da una cinepresa invisibile ai protagonisti, in realtà divenuta una presenza abituale grazie a una paziente opera di ambientazione degli operatori e degli strumenti da essi utilizzati. I bambini del film di Philibert agiscono davanti alla cinepresa in maniera del tutto naturale, sono in confidenza con essa proprio come lo sono con il maestro che li segue in tutte le attività, orientandoli e favorendone lo sviluppo intellettivo con autorevolezza senza instaurare con loro un rapporto autoritario. Il regista e il maestro hanno, in fondo, due approcci molto simili al mondo dell’infanzia e, soprattutto, della prima infanzia: in entrambi i casi si tratta, essenzialmente di suscitare nel bambino un sentimento di fiducia e spontaneità nei confronti dei dispositivi utilizzati (didattici nel primo caso, cinematografici nel secondo) senza metterlo di fronte a qualcosa di preordinato, a un percorso eccessivamente programmato. Naturalmente, alla base di questo metodo condiviso da insegnante e regista c’è un lavoro molto più complesso di quello necessario per un approccio più tradizionale e rigido. Proprio come afferma George Lopez, il rapporto con i bambini si fonda su uno scambio molto intenso, sulla capacità di comunicare ma, allo stesso tempo, anche di ascoltare, sul dare ma anche sul ricevere. La strategia utilizzata da Philibert ricalca il metodo dello scambio alla pari: le prime settimane di lavorazione servono per spiegare ai bambini quale sarà il lavoro della troupe con cui si trovano a condividere le giornate, mentre durante le vere e proprie riprese del film sarà il regista a chiedere agli alunni di mostrare alle telecamere il loro lavoro in classe. Non per nulla il regista ha affermato in un’intervista, proprio a proposito di questo documentario, «più che fare dei film su qualcuno provo a fare dei film con qualcuno […] dopo poco, lo spettatore si sente con i personaggi che riprendo e ne condivide i momenti di difficoltà e di gioia».
Un film connotato da quello che potremmo definire come un “approccio ecologico” non poteva non prendere in considerazione tutti gli elementi del contesto nel quale vivono i bambini: Philibert punta il suo obiettivo anche sui genitori, ne analizza il ruolo di terza sponda (dopo quelle dell’insegnante e degli stessi bambini) del campo di osservazione scelto. Si tratta di brevi sequenze, spesso slegate dal filo narrativo del “racconto”, nelle quali, come spesso avviene nei contesti agricoli, i momenti di vita domestica si confondono con quelli lavorativi in un unico flusso quotidiano al cui interno devono trovare spazio anche le esigenze dei bambini, le loro richieste, i loro racconti sulla scuola, sul maestro, sui piccoli successi così come sulle difficoltà. Anche in questo caso è inevitabilmente al maestro che le famiglie fanno riferimento per risolvere i problemi che via via si presentano, il principale dei quali è probabilmente l’eccessiva chiusura su se stesso del contesto rurale nel quale vivono e dell’effetto negativo che tutto questo può avere sull’educazione di bambini che, in ogni caso, dovranno confrontarsi con un mondo globalizzato.
Il maestro (o la maestra) d’asilo come punto di riferimento in un contesto sociale disagiato è anche protagonista del film di Bertrand Tavernier, Ricomincia da oggi , scritto a sei mani dal regista, dalla figlia Tiffany e dal genero Dominique Sampietro, insegnante e scrittore. Il film segue le vicende di Daniel Lefebvre, direttore di una scuola materna a Harnaing, una cittadina del Nord-est della Francia, situata in una zona mineraria caratterizzata da forte disoccupazione. Daniel accudisce i bambini con amore e pazienza, cercando di arrivare anche là dove non riescono a giungere i servizi sociali, privi di sensibilità o incapaci di intervenire alla radice del problema. Grazie alla passione che caratterizza il suo lavoro, Daniel si scontra anche contro l’ottusità delle gerarchie scolastiche, troppo chiuse nei loro apparati burocratici per comprendere appieno i problemi delle famiglie e dei bambini. In questo caso l’asilo funziona come una sorta di cartina di tornasole capace di rilevare i disagi più o meno gravi che affliggono il contesto sociale nel quale ci si trova: i bambini sono i primi a soffrire e a mostrare i segni della trascuratezza e del degrado vissuti dalle famiglie, dunque la scuola materna diviene uno dei terminali ai quali far riferimento per comprendere quale sia l’effettivo stato di salute della società.
Diversamente dagli esempi precedenti (Récréations, Chiedo asilo, Essere e avere) il film di Tavernier è un vero e proprio atto d’accusa verso l’organizzazione della società nel suo complesso, con riferimenti molto concreti alla legislazione nazionale e alle sue diverse declinazioni da parte dei governi locali, miopi nei confronti delle conseguenze concrete di determinate scelte politiche sulla vita delle persone. La scuola materna, dunque, non è più soltanto una metafora della società, non è più solo un microcosmo grazie al quale è più facile osservare i meccanismi che governano l’esistenza dell’essere umano (la socialità, il rapporto con le istituzioni, l’apprendimento), ma è un vero e proprio specchio capace di riflettere fedelmente i problemi concretamente vissuti dalle famiglie al centro del film, il punto di partenza per l’osservazione di un contesto sociale in via di disfacimento. Attraverso uno stile molto vicino al documentario, attento ai movimenti delle figure all’interno del quadro, spesso senza stacchi di montaggio, senza scelte registiche particolari, tese a sottolineare un aspetto a discapito di un altro, Tavernier osserva un universo senza cercare di caratterizzarlo, ma semplicemente portando lo squallido quadro di sfondo in primo piano, facendo in modo che la verità scaturisca dagli ambienti, dalle figure di contorno, da una minima azione del protagonista.
In Ricomincia da oggi emerge, dunque, un dato che risulta ancor più interessante se analizzato alla luce delle legislazioni più recenti in fatto di scuola per l’infanzia. L’asilo è un luogo di educazione e socializzazione dei bambini nonché il punto di riferimento per una più generale riflessione sulle condizioni di vita, di sviluppo e di educazione dell’infanzia. Il progetto educativo, quindi, accompagna e integra la famiglia in un rapporto di continuità e reciprocità, promuovendo esperienze di partecipazione dei genitori, di aggregazione sociale e scambio culturale attorno ai temi dell’educazione dei bambini, anche attraverso la cooperazione con gli organismi di partecipazione democratica. Ciò che Daniel, il protagonista di Ricomincia da oggi, tenta di fare tra mille difficoltà per tutta la durata del film, è proprio riannodare i fili di una rete sociale disgregata da emergenze quali la disoccupazione, l’alcolismo, le violenze domestiche e quindi ormai incapace di stringersi attorno ai soggetti più deboli, ovvero i bambini e le loro madri, spesso abbandonate a loro stesse. Per lanciare la sua denuncia contro una società incapace di tutelare chi va incontro all’emarginazione, Tavernier sceglie un contesto estremamente degradato, grazie al quale l’emergenza della disgregazione sociale possa risaltare in tutta la sua urgenza. Sceglie, inoltre, un punto di osservazione come un asilo, che mostra il volto più penoso dell’emergenza, le conseguenze sui bambini, per di più ancora molto piccoli, vere e proprie icone di una sofferenza che investe anche i cittadini più innocenti. Tuttavia, tale scelta non è volta esclusivamente a ottenere un effetto a sensazione sugli spettatori, a suscitare semplicemente delle emozioni forti giustificate dalla bontà dell’assunto di base, bensì è funzionale a un discorso più complesso sulla capacità di accoglienza delle strutture sociali, tra le quali la scuola per la prima infanzia non è soltanto una delle tante componenti ma un vero e proprio avamposto. In una sequenza straordinaria, una sorta di confessione-sfogo davanti alla macchina da presa (quasi un “a parte” teatrale nel quale il personaggio rompe la convenzione realistica per rivolgersi direttamente allo spettatore), una delle maestre individua, proprio a partire dai comportamenti dei bambini in classe, i sintomi di una disgregazione del tessuto sociale e familiare. Il quadro desolante tracciato dalla donna abbraccia tutti gli aspetti della vita infantile, dai più ovvi come l’igiene personale, lo stato di salute, il livello di nutrizione, a quelli meno scontati ma forse persino più preoccupanti come l’incapacità di comunicare le proprie emozioni, la scarsa fiducia in se stessi, il rifiuto di riconoscere i ruoli interni alla scuola e di instaurare relazioni con i coetanei basate sul rispetto e la condivisione. Tutto ciò non viene ricondotto a una generica “crisi dei valori” o a una tanto legittima quanto ovvia critica nei confronti di una politica incapace di rispondere ai mutamenti della società, bensì al crollo dei rapporti tra le diverse generazioni, divise dall’impossibilità di riconoscersi in una medesima identità sociale e lavorativa, di condividere uno stesso “destino”.
Partendo da un documentario di “semplice” osservazione (Récréations, sorta di “grado zero” della scrittura cinematografica) siamo giunti a un film politicamente schierato (Ricomincia da oggi), passando per un apologo morale (Chiedo asilo) e un documentario più analitico (Essere e avere): in questo modo abbiamo tracciato una piccola mappa delle rappresentazioni cinematografiche della scuola per la prima infanzia e dei problemi connessi alle prime esperienze del bambino in fatto di socialità. È infatti questa importantissima istituzione il luogo in cui il bambino sperimenta il primo contatto con gli altri e con le regole della convivenza, quasi sempre non scritte ma inscritte nel bagaglio genetico di ognuno. Che la si voglia chiamare libertà come afferma Claire Simon nel suo Récréations, felicità come suggerisce Ferreri in Chiedo asilo, scambio alla pari come sostiene George Lopez, protagonista di Essere e avere, solidarietà come asserisce Tavernier in Ricomincia da oggi, dai film emerge in ogni caso la necessità di accostare all’aiuto concreto e indispensabile per le famiglie che, oggi più di ieri, si confrontano con un mercato del lavoro in rapida trasformazione, una visione più alta e autentica di “cura” dell’infanzia, tesa a dare corpo, fin dai primissimi anni di vita, a ideali come quelli testimoniati nei quattro film qui analizzati.
La “lezione” che è possibile trarre da questi film non si limita, tuttavia, alla mera constatazione di una determinata condizione (Récréations), a un resoconto didascalico di una serie di esperienze più o meno valide (Essere e avere), alla trasposizione realistica dei problemi legati al territorio in cui sorgono le scuole (Ricomincia da oggi) o alla rappresentazione ironica degli interrogativi e delle utopie legate al tema dell’educazione nella prima infanzia (Chiedo asilo). Soprattutto nei due documentari – ma anche in Ricomincia da oggi, che nasce da un substrato semidocumentaristico, da un forte legame con i luoghi nei quali è stato girato e soprattutto dall’urgenza della denuncia di uno stato di cose intollerabile – emerge la necessità di avvicinarsi al mondo dell’infanzia con rispetto ma anche con la consapevolezza che l’ingresso di un bambino nella vita sociale, sancito dalle prime esperienze scolastiche e dal nascere della coscienza che solo all’interno di una relazione con gli altri è possibile crescere, deve fondarsi sulla fiducia, anzitutto degli adulti nei confronti del bambino stesso e delle sue straordinarie capacità da parte degli adulti. Al di là del carattere documentario più o meno spiccato di ciascun film, ognuno di essi testimonia attraverso le azioni, le parole, gli sguardi dei bambini protagonisti quanto sia semplice instaurare con essi una relazione e, allo stesso tempo, quanto possa essere complesso mantenerla viva. Le interviste rilasciate dai registi a proposito dei film rivelano quanto lavoro, soprattutto preparatorio, vi sia dietro questi lungometraggi: un lavoro che, tuttavia, non consiste quasi mai nella preparazione dei bambini ad agire di fronte alla macchina da presa (al di là che si tratti di finzione o di documentario, l’atto del filmare richiede sempre e comunque un grado più o meno alto di preparazione dei protagonisti) bensì della macchina da presa, e soprattutto di chi sta dietro di essa, a confrontarsi con una realtà che, fin dal primo contatto, ha cambiato le modalità di approccio concreto e in molti casi anche i presupposti teorici dai quali le ricerche erano partite.
Così, dopo avere sottolineato più volte l’importanza della scuola per l’infanzia nella formazione dell’individuo-bambino, in quanto primo fondamentale passo nel suo approccio alla vita sociale, in chiusura dell’articolo ci ritroviamo a dover ammettere che probabilmente è la società stessa a doversi ispirare al mondo dell’infanzia e imparare, di volta in volta, attraverso un confronto diretto e autentico di tutte le componenti sociali coinvolte nell’educazione del bambino, a rimodulare costantemente il proprio ruolo a partire dalle esigenze sempre inedite delle nuove generazioni.
Fabrizio Colamartino
I film del percorso
- Chiedo asilo, Marco Ferreri, Italia, 1979*
- Récréations (Id.), Claire Simon, Francia, 1998
- Ricomincia da oggi (Ça commence aujourd’hui), Bertrand Tavernier, Francia, 1999*
- Essere e avere (Être et avoir), Nicholas Philibert, Francia, 2002*
* I film contrassegnati con asterisco sono disponibili presso la Biblioteca Innocenti Library – Alfredo Carlo Moro e a disposizione per il prestito.