Diritti... al cinema - Diritto alla comunicazione

ARTT. 12, 13, 14, 15 e 31.2. Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo, 1989

Comunicare con gli adulti, essere ascoltati, vedere soddisfatti i propri bisogni di “comunicazione alla pari”, raccontare le proprie esperienze e sentire che il racconto aggiunge significato alla relazione, rendendola piena e partecipe: i bambini e gli adolescenti del cinema vivono questi desiderata come delle utopie, come dei sogni ideali irraggiungibili. Né più, né meno. Certo, non possiamo affermare che nel corso della storia della Settima arte non esistano casi in cui le forme di comunicazione tra adulti e bambini si articolino su processi di arricchimento reciproco e su spazi di partecipazione più o meno paritari (si pensi per esempio, in Yaaba, al movimento inclusivo e integrativo che il rapporto tra un adolescente ed una anziana “paria” di un villaggio africano produce nella piccola comunità oppure l’analoga amicizia intergenerazionale raccontata in Nuovo cinema paradiso), tuttavia è altrettanto indubbio che le possibilità di espressione e racconto del sé, di relazione consapevole e interattiva con il mondo non appartiene tendenzialmente alle generazioni più giovani di cittadini. E questo non si verifica, come sarebbe prevedibile e scontato attendersi, solo in quelle pellicole che mettono in scena infanzie disagiate, indigenti o in qualche modo abbandonate, ma anche in altre dove la situazione di partenza assume, almeno apparentemente, i tratti della normalità o del privilegio. Luigi Comencini è forse il regista che ha meglio saputo descrivere il gap comunicativo tra genitori e figli, ambientando le proprie storie all’interno di tutti i ceti sociali: la classe operaia de La finestra sul lunapark, la borghesia ricca e intellettuale di Voltati Eugenio, l’aristocrazia de Incompreso – vita col figlio. La sua opera conferma come il rapporto genitori-figli – e per traslazione quello adulti-bambini – si basa su vasi non comunicanti, anche (se non soprattutto) quando certi ambienti economicamente e culturalmente privilegiati (l’aristocrazia, l’intellighenzia di sinistra) si professano tolleranti e attenti alle esigenze dei più piccoli. D’altronde già trent’anni fa il maestro de Gli anni in tasca (e con lui l’autore della sceneggiatura François Truffaut), nell’ultima lezione tenuta davanti alla propria classe, segnalava ai suoi piccoli allievi la ragione di questo incolmabile gap: i bambini non sono ascoltati dagli adulti perché sono “cittadini” senza diritto di voto, non hanno la possibilità di esprimere una propria opinione e quindi incidere sui meccanismi del potere. Per ragionare e riflettere sul diritto alla comunicazione come interscambio relazionale e come affermazione della propria individualità – forse il primo diritto che dovrebbe essere garantito all’infanzia e all’adolescenza, perché porta alla costruzione non del “cittadino” di domani, ma a quello dell’oggi, capace di influenzare con le proprie azioni le dinamiche democratiche sulla società – abbiamo scelto tre film che si muovono sul filo dell’assurdo, che invertono i classici “rapporti di forza” tra grandi e piccoli e che edificano universi cinematografici per molti versi paradossali, certamente non comuni. Si tratta di pellicole che, in una qual misura, tengono conto delle principali modalità relazionali intergenerazionali, in famiglia (Bugiardo bugiardo), a scuola (Chiedo asilo) ed on the road (L’estate di Kikujiro), nonché dei riferimenti geografici più eterogenei possibile (statunitense in un caso, italiano in un altro, giapponese nel terzo). Bugiardo bugiardo, film hollywoodiano che certo non ha tra i suoi principali obiettivi la messa in discussione del “sogno americano”, può rappresentare, dal nostro punto di vista, un esempio calzante d’analisi perché parte da un presupposto inconcepibile per chi vive nella civiltà della (falsa) informazione: costringere gli adulti a dichiarare sempre il vero. Max, figlio di un avvocato in carriera abile nel mentire o adulare il prossimo, esprime il desiderio che il proprio genitore, almeno per un giorno, non racconti bugie. Richiesta che viene incredibilmente esaudita e che mette il genitore in forte imbarazzo tanto sul lavoro quanto in famiglia. Le “facce” che l’attore Jim Carrey è costretto ad assumere quando si accorge di rivelare verità imbarazzanti ai propri colleghi o famigliari sono l’espressione comica di una triste e radicata abitudine alla menzogna che pervade ogni istantedella vita adulta. Così Il paradosso vero e proprio che in qualche modo solleva la pellicola (pur senza portarlo alle sue estreme conseguenze) è che la bugia ha un diverso valore se viene pronunciata da un adulto o da un bambino. Quelle dei primi sono considerate “strumento di lavoro” (l’avvocato Fletcher mente perché lo richiede la sua professione), escamotage tutto sommato accettabile per assecondare i voleri dell’altro e sopravvivere alle mille responsabilità cui si deve rispondere; quelle dei secondi invece hanno sempre un segno negativo, come se fossero l’indice di un malessere o di un disagio, come se i più piccoli non avessero gli stessi diritti di fingere come gli adulti. Non potendo competere con un padre bugiardo “per natura”, Max lo sfida sul terreno della verità e non può che vincere. Nondimeno la sua richiesta sancisce implicitamente l’obbligo di affidarsi alla sfera del magico (e quindi dell’irrealizzabile) per sperare di istaurare un rapporto padre/figlio sincero. In direzione contraria, diremmo volutamente contraria visto il tipo di cinema che realizza il cineasta giapponese Kitano Takeshi, si muove L’estate di Kikujiro, storia amaro/comica di un bambino che un’estate decide di andare a trovare la madre che abita in una città lontana. Ad accompagnarlo in questo strano e scompaginato viaggio c’è Kikujiro un vecchio yakuza tonto e maldestro che si vede costretto dalla moglie ad intraprendere un’avventura di cui avrebbe volentieri fatto a meno. Il rapporto tra i due inizialmente si basa sulla reciproca diffidenza: da una parte c’è un bambino timido e disorientato dalle abitudini del piccolo criminale; dall’altra c’è un uomo rigido, testardo, taciturno. La relazione tra i due si scioglie e poi si rafforza nel momento in cui – ecco qui il fattore di alterità rispetto all’altro film – Kikujiro mente al bambino, offrendogli ancora una speranza di normalità. Quando Masao arriva a pochi passi dalla casa della madre e si accorge che quest’ultima – forse – ha un’altra vita, un altro uomo, insomma una nuova famiglia da cui egli è escluso, piange e scappa via. Raggiunto su una spiaggia dal criminale, quest’ultimo cerca di consolarlo sostenendo che la donna vista da lontano non era la mamma, la quale aveva cambiato casa e aveva lasciato per il figlio, nel caso fosse venuto a cercarla, un piccolo campanellino a forma di angelo da regalargli. La “versione dei fatti” narrata dallo yakuza è evidentemente inventata, ma consente di cementare un rapporto che col passare del tempo diventa realmente paritario. Lo conferma la seconda parte del film, ambientata in campagna, in un campeggio, dove lo yakuza e due motociclisti punk conosciuti nel corso del viaggio fanno di tutto per divertire e coinvolgere Masao: i giochi ideati sono assurdi, spassosamente surreali, pieni di una fantasia che, per una volta, accomuna grandi e piccoli. Il linguaggio libero, anarchico, privo di secondi fini che i personaggi esperiscono in un luogo simbolicamente lontano dal mondo non possono che durare lo spazio di una vacanza. La società chiama e con essa le maschere da indossare, i comportamenti rigidamente normati da tenere, i ruoli chiaramente codificati da assumere. Chiedo asilo segue (o sarebbe meglio dire anticipa giacché è datato 1979) le prospettive avanzate dal film di Kitano. Qui siamo all’interno di una classe d’asilo guidata da un maestro a dir poco anticonformista, interpretato da un Benigni che mette a disposizione del personaggio la sua classica maschera di “burattino senza fili”. Il maestro Roberto incarna una concezione libera e antisociale dell’ educatore. Dai suoi gesti e dalle sue azioni si determina un’idea pedagogica che rifiuta di considerare il bambino un piccolo essere sociale cui bisogna inculcare regole, atteggiamenti, ruoli, “buone maniere”. Le relazioni che il protagonista instaura con i suoi “allievi” sono invece tutte all’insegna della spontaneità, del gioco fine a sé stesso, del non-sense, della parità relazionale assoluta. Non esiste discente e docente, non esistono comportamenti modello da imitare o cattive azioni da stigmatizzare. Come già in L’estate di Kikujiro, anche in questo caso il rapporto bambino/adulto trova la propria espressione ideale in un luogo altro, estraneo, escluso dalla civitas (un casolare vicino al mare) e si arrocca attorno all’amicizia tra il maestro ed uno studente, Gian Luigi, che non apre bocca dall’inizio fino alla fine del film. Il suo mutismo è sintomatico della sua protesta verso il mondo, della sua decisione di non comunicare con chi non lo sta a sentire. Naturalmente il rapporto con Roberto capovolgerà la sua presa di posizione. Le sue prime parole non a caso giungono nel momento in cui i due personaggi decidono di suicidarsi (simbolicamente? realmente?) immergendosi nell’acqua del mare, una forma di ritorno al liquido amniotico che non lascia dubbi sulla possibilità di riuscita del metodo di insegnamento di Roberto. Non basta tornare bambini, come fanno in forme diverse l’avvocato Fletcher, lo yakuza Kikujiro, il maestro Roberto, per instaurare un rapporto di comunicazione realmente arricchente. E allora come fare? (MDG)