Ich bin Ich

di Kathrin Resetarits

(Austria, 2006)

Sinossi

Le apparenze contano

Due coppie di gemelle monozigoti di sei e dieci anni vengono riprese mentre studiano, giocano, guardano la televisione. Intervistate, parlano dei rapporti con la rispettiva gemella, di ciò che condividono e di ciò che le separa ma, soprattutto, delle profonde differenze che le contraddistinguono. In effetti, quanto più le osserviamo, tanto più capiamo quanto siano diverse e come la nostra prima impressione sia stata fallace. I primi dieci minuti dei complessivi trenta di cui consta Ich bin Ich sono praticamente senza parole, privi di commento: una serie di piani fissi sulle due coppie di gemelle austriache protagoniste del film che guardano la televisione, si pettinano davanti allo specchio, fanno merenda, eseguono esercizi ginnici, cantano una canzone o suonano il flauto. La giovane documentarista austriaca Kathrin Resetarits affida totalmente alle immagini il compito di introdurre lo spettatore nel mondo di due coppie di gemelle, o meglio di Anastasia e Olga (sei anni) e di Jill e Kimberly (undici anni), le quattro bambine scelte per il suo film. Infatti, ciò che emerge con forza da Ich bin Ich è che le quattro protagoniste, oltre a costituire due coppie di gemelle, sono quattro bambine ognuna delle quali con una propria personalità ben delineata, le proprie paure, i propri desideri. È proprio attraverso la registrazione minuziosa delle azioni più semplici e banali, la quotidiana ripetitività dei gesti replicati all’infinito che la regista lancia la sua sfida allo spettatore che, in breve, comprende di aver frainteso lo spirito delle immagini che sta osservando: di fronte a un documentario sui gemelli siamo portati a immaginare un esperimento volto a dimostrare, proprio attraverso l’evidenza delle immagini, l’assoluta identicità tra fratelli monozigoti o, al contrario, un tentativo di far emergere, per mezzo di interviste e “confessioni”, la loro intima, segreta diversità. In realtà, proprio nelle immagini apparentemente scontate dei primi dieci minuti di Ich bin Ich è racchiuso il segreto di una diversità che emerge secondo modalità del tutto originali: riprese all’interno della medesima inquadratura, impegnate ad eseguire le medesime azioni attraverso gli stessi gesti, con identica perizia, magari con scarti temporali nell’esecuzione del tutto trascurabili, le piccole protagoniste del documentario rivelano allo spettatore le proprie differenze più irriducibili. Ovviamente, è anche attraverso le interviste alle quattro protagoniste che emergono le divergenze tra i caratteri, il peso dell’avere un gemello, la consapevolezza che la crescita condurrà a un distacco, a una distinzione tra le sorelle. Ma anche tutto ciò, pur costituendo un documento interessantissimo sui rapporti tra i gemelli, ha un ché di superfluo, o meglio sembra passare in secondo piano: alla prima domanda sullo specifico tema dell’identità, una delle due gemelle di undici anni risponde “Non può essere identica a me. Ognuno è se stesso”. Il documentario vero e proprio (la sua parte espositiva, razionale, discorsiva che segue i primi dieci, enigmatici minuti di immagini prive di commento) è appena incominciato, e tutto ciò che c’era da dire sul tema è stato già perfettamente espresso senza la necessità di ulteriori analisi e indagini, con una semplicità, ingenuità, naturalezza e al tempo stesso con una tale consapevolezza da lasciare stupiti. L’onestà intellettuale alla base di questo documentario emerge anche dall’indifferenza della regista nei confronti di questa affermazione che, posta nella primissima parte del film, neutralizza le dicotomie di partenza (uguale/diverso, identico/differente), banalizzandole e chiarendo, in questo modo, che la posta in gioco è ben altra non solo rispetto a quella piattamente sensazionalistica dell’essere/sentirsi più o meno uguali al proprio gemello ma anche riguardo a quella – più sottile, certo, ma altrettanto ovvia – della irriducibile diversità. Ciò che viene affermato, piuttosto, è il valore insopprimibile dell’unicità di ogni individuo, che non viene meno di fronte all’essere esteriormente identici a qualcun altro. Il punto è che, paradossalmente, è proprio l’immagine a dimostrarsi molto più profonda e sfaccettata di quanto non ci si potesse aspettare, difficile da afferrare, almeno con gli strumenti di indagine consueti, attraverso uno sguardo che si faccia guidare soltanto da schemi fissi e automatismi, ma capace di affermare meglio di mille dichiarazioni lo scarto impercettibile, ma proprio per questo enorme, tra le gemelle. La forza di Ich bin Ich si basa proprio su questa contraddizione feconda, ovvero che l’identità di un individuo sia ben altro che la somma di tratti esteriori ma anche qualcosa di “impercettibile” che, tuttavia, all’interno del documentario emerge proprio grazie a un gioco di superfici, di apparenze… solo apparentemente trascurabili. È come se l’ovvio e l’ottuso, le due possibilità di senso date all’immagine da Roland Barthes in uno dei suoi saggi più pregnanti, trovino in queste immagini un punto di incontro, se non addirittura di giunzione: non sapremmo dire esattamente cosa, ma ciò che stiamo osservando (uno sguardo, un gesto, una postura) ci dice che le nostre attese verranno smentite, ovvero che la ricerca sull’identità delle protagoniste condotta dalla Resetarits non si svilupperà attraverso la dicotomia un po’ manichea uguale/diverso, identico/differente ma seguendo altri percorsi. L’idea alla base del film non è quella di mettere in conflitto immagini e parole, la somiglianza o l’"identicità" più o meno appariscente tra le sorelle con una serie di affermazioni che contraddicano con più o meno forza l’evidenza delle loro sembianze ma di far emergere in egual misura attraverso la parte razionale delle dichiarazioni e quella percettiva delle apparenze l’irriducibilità di un individuo rispetto ad un altro o, meglio, di due individualità rispetto a uno stereotipo. In questo modo Kathrin Resetarits non ha soltanto affrontato il tema della incerta identità gemellare, ovvero di ciò che abbiamo chiamato "identicità" (tra due individui apparentemente uguali) contrapposta all’identità/unicità (del singolo con se stesso), ma è riuscita ad articolare un compiuto discorso sull’immagine (dunque anche sul cinema) attraverso mezzi eminentemente cinematografici. Fabrizio Colamartino

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