di Antonio Capuano
(Italia, 2005)
Sinossi
Mario proviene da un quartiere periferico di Napoli, ha nove anni ed è stato dato in affidamento temporaneo a Giulia e Sandro, una coppia di quarantenni dell’alta borghesia. Il suo carattere difficile dovuto ai maltrattamenti subiti nella famiglia d’origine e i problemi di adattamento alla nuova realtà completamente diversa rendono il rapporto con i nuovi genitori piuttosto complicato e minano le basi del loro rapporto sentimentale. Mentre Giulia si innamora di Mario e della sua libertà anarchica e strafottente ricca di creatività rivoluzionaria, Sandro non riesce ad entrare in contatto con lui e si auto-esclude progressivamente dalla famiglia. Le dinamiche familiari e scolastiche del bambino vengono seguite attentamente sia dalla psicologa, che deve fare relazioni periodiche sull’andamento dell’affido, sia dalla tutrice legale e dal giudice del tribunale dei minori. Giulia tenta di non tranciare di netto il legame con la madre naturale, ma Mario si dimostra sempre molto freddo e disinteressato nei suoi confronti, rifugiandosi in un mondo di fantasia fatto di lotte per la sopravvivenza e violenza da videogiochi. Gli unici amici che Mario accoglie nel suo mondo sono Mimmo, un cane trovatello che il bambino finisce per far morire in un attraversamento stradale rischioso, e Luciano, un compagno di classe che arriva dai quartieri popolari e con il quale Mario si sente in sintonia. Dopo che anche Luciano è stato trasferito in un'altra scuola, dove non frequenta, e venendo a conoscenza della gravidanza di Giulia, Mario si sente solo e incompreso e sfoga la sua frustrazione con sfide sempre più rischiose e insostenibili al mondo degli adulti. La situazione è al limite quando il giudice del tribunale dei minori decide di revocare l’affido a Giulia per tentare di inserire Mario all’interno di una famiglia già strutturata.
Introduzione al film
Nel ventre di Napoli La guerra di Mario è il quinto lungometraggio di Antonio Capuano, se si esclude la partecipazione al film a episodi I Vesuviani (1997). Con il suo stile peculiare, ruvido e senza veli, Capuano si pone come uno dei registi più interessanti tra quelli che hanno fatto il loro esordio negli anni ’90 e si colloca all’interno di quella “scuola napoletana” che comprende anche Mario Martone, Pappi Corsicato, Paolo Sorrentino, Stefano Incerti. Il suo cinema è sempre attento ad esplorare, partendo spesso da fatti di cronaca, le pieghe nascoste della sua città, la stratificazione dei problemi sociali, lontano dalla retorica o dalla banalizzazione dei luoghi comuni. Le sue storie passano attraverso lo sguardo dell’infanzia; infanzia violata o costretta alla violenza ed alla criminalità per sopravvivere, come nel caso di Vito e gli altri (1991) di Pianese Nunzio, 14 anni a maggio(1996) o di Luna rossa (2001). I suoi personaggi, come nelle tragedie greche, sono sempre vittime di un destino, incapaci di cambiare la propria situazione, di arrestare una caduta ineluttabile. Si muovono nel buio dei quartieri degradati dove la macchina da presa cerca di inseguirli senza mai perdere una certa raffinatezza della rappresentazione, un’estetica del sottosuolo che trasforma la violenza e la perdita di riferimento e valori in decadentismo ideologico, in sublime kitsch. La guerra di Mario pone un confronto forte e stridente tra il mondo delle periferie e del degrado e quello dorato di Posillipo, con i suoi loft panoramici in cui trovano il proprio habitat ideale opere d’arte e oggetti di design. La lotta tra i due mondi rinnova inevitabilmente i temi della lotta di classe, che diventa uno scontro tra mondi che non riescono a dialogare, a capirsi, ad entrare in relazione. Il film racconta dunque anche l’incomunicabilità affettiva delle persone, la deriva dei sentimenti e la perdita di punti di riferimento ampliandola a tutte le categorie. La crisi è ancora più forte perché riguarda la categoria femminile dal momento che la presenza degli uomini, nel film, è puramente accessoria. Escluso Sandro, fragile e incapace di mettersi in discussione, e il compagno di Nunzia, inquietante “guappo” di periferia, Mario è letteralmente circondato da donne che progressivamente sono costrette ad ammettere il proprio fallimento sentimentale ed educativo. È così per Giulia, ma anche per la psicologa Cutolo, per la tutrice, per le maestre di scuola, per la direttrice e, infine, per il giudice del tribunale dei minorenni. La ricerca del realismo, che a molti critici ha ricordato il cinema di Vittorio De Sica, è condotta da Capuano attraverso una costruzione drammaturgica ridotta al minimo nella quale le battute sono brevi, essenziali, e lo stile della ripresa si adegua all’asciuttezza. La recitazione degli attori, da segnalare la perfetta spontaneità del piccolo protagonista non-professionista oltre alla performance straordinaria di Valeria Golino, Andrea Renzi, Anita Caprioli e Rosaria De Cicco, rimane misurata ed equilibrata. Pochi e ben calibrati anche gli effetti visivi che scolorano la pellicola nei momenti di maggiore introspezione del protagonista e chiudono il film con l’acrobazia di un aeroplano che, quasi ottimisticamente, riporta il problema educativo tra i territori del possibile.
Il ruolo del minore e la sua rappresentazione
Vittima di un sistema perdente
La storia di Mario, il piccolo protagonista del film, è la storia di una serie di sconfitte concatenate che trasformano la sua vita in una vera e propria guerra. Quella suggerita dal titolo è la lotta del minore per la sopravvivenza in un mondo in cui la burocrazia e l’assoluta inadeguatezza degli adulti trasformano l’educazione di un bambino in un pericoloso percorso ad ostacoli. Mario, allevato con metodi molto discutibili dalla madre nell’emarginazione culturale, educativa e fisica, si trova catapultato nel mondo dorato dell’alta borghesia. Giulia, la madre affidataria che vorrebbe l’adozione, è però altrettanto instabile della madre naturale: resa miope dal desiderio di trasformare il piccolo in un artista ed affascinata dalla sua caotica ed imprevedibile genialità anarchica rinuncia in partenza ad imprigionare il bambino in gabbie comportamentali, ma gli nega anche quelle regole e quei “no” che sarebbero fondamentali per un’educazione sana e corretta. Mario è così spronato agli eccessi e alle sfide, cercando di spingersi sempre più in là per cercare di trovare un limite che gli sfugge continuamente. Il bambino è paradossalmente spiazzato proprio da questa eccessiva disponibilità, così diversa da quella della sua famiglia d’origine e così complicata da gestire. Incapace di distinguere gli ambiti diversi, trasferisce lo stesso atteggiamento anche in ambiti ben più rigidi con risultati catastrofici: a scuola diventa un problema che maestre e direttrice, incapaci di immaginare una soluzione, vorrebbero allontanare; per strada il sovvertimento delle regole e dei codici lo porta a rischiare la vita nel tentativo reiterato di attraversare con il semaforo pedonale rosso. Questa tensione lo porta inoltre a legarsi continuamente a persone o cose che escono dagli schemi e vivono ai margini: il cane Mimmo è, come lui, un trovatello senza punti di riferimento e che finisce per diventare una vittima dell’instabilità del suo piccolo padrone; il compagno di banco Luciano, cresciuto nei quartieri malfamati con il motto “il carcere è una bella scuola ma la scuola è un brutto carcere”, rappresenta il rifiuto delle regole che porta alla microcriminalità; la piccola bambina nomade della quale Mario si innamora è, nella sua imprevedibilità di senza fissa dimora, ancora un ideale di vita al limite e ai margini. Nelle parole pronunciate dal piccolo protagonista si legge senza mezzi termini una continua estraneità, una non-appartenenza per usare proprio le sue parole, nei confronti di tutto ciò che lo circonda; Mario in fondo si rende conto di essere circondato da molte persone alle quali lui non interessa per quel che è ma per ciò che rappresenta, sia da un punto di vista problematico che affettivo. Ecco allora che nel suo monologo interiore si fa largo la fantasia di un mondo semplice, dominato da una violenza insostenibile eppure ben catalogabile e fatto di regole ferree che escludono gli affetti ma che rendono tutti i rapporti chiari e istintivi. Un mondo in cui la guerra sia esplicita e dichiarata, in cui sia possibile combattere perché il nemico è riconoscibile. È un mondo terribile in cui rifugiarsi, ma è comunque meglio della guerra psicologica nascosta combattuta dagli adulti, affidatari, psicologi, giudici e tutori che lo circondano. La sua storia, nel finale del film che lo vede affidato ad una famiglia più “normale”, resta sospesa come un aeroplano a mezz’aria. Resta da capire se il decollo proseguirà normalmente o se ci sia ancora spazio per altre pericolose acrobazie. Ludovico Bonora