A.I. Intelligenza artificiale

di Steven Spielberg

(Usa, 2001)

Sinossi

In un futuro abbastanza prossimo, viene attuato un rigido controllo delle nascite a causa dell’insufficienza delle risorse alimentari. La Cybetronics, un’industria produttrice di robot, realizza un automa-bambino (David) per soddisfare il bisogno di affetto di chi non ha figli. David viene affidato ai coniugi Henry e Monica Swinton, il cui primogenito, Martin, è in coma. Vinte le prime diffidenze della mamma adottiva, David si dimostra capace di sviluppare veri e propri sentimenti, fino a quando, imprevedibilmente, Martin esce dal coma. La competizione tra i due bambini provoca una serie di incidenti che convincono Henry della pericolosità di David. Per evitare che il piccolo venga distrutto dall’industria che lo ha prodotto, Monica decide di abbandonarlo in un bosco. Qui David conosce Gigolo Joe, un automa concepito per dare piacere alle donne, anch’egli in fuga dagli umani. Scampati a una “Fiera della carne” (uno spettacolo in cui gli uomini si divertono a vedere massacrati gli automi), decidono di cercare la Fata Turchina che David, suggestionato dalla fiaba Pinocchio, pensa lo potrà aiutare a divenire un autentico bambino. Dalle enigmatiche indicazioni del dr Know (una sorta di enciclopedia universale animata) deducono che la loro meta è New York. Qui David incontra il professor Hobby, suo creatore, e scopre che la Cybetronics sta producendo migliaia di automi identici a lui. Sconfortato si immerge nelle profondità marine: imprigionato dalle acque, David dovrà attendere duemila anni per essere liberato. Nel frattempo gli umani si sono estinti e una specie aliena sta cercando di ricostruire, con avanzatissime tecnologie, la civiltà terrestre. Grazie agli extraterrestri, che possono clonare gli individui morti ma solo per l’arco di un giorno, David trascorrerà un’unica indimenticabile giornata con sua madre per restare, infine, definitivamente solo.

Analisi

Sono moltissimi gli spunti di riflessione che AI – Intelligenza artificiale offre allo spettatore, e questo perché costituisce un punto di arrivo nella costruzione di una propria poetica personalissima da parte di un regista come Steven Spielberg che, di film in film, sembra fornire sempre maggiori conferme alla coerenza del proprio percorso d’autore. Se le tematiche legate al mondo dell’infanzia sono sempre state care al regista e hanno informato buona parte della sua produzione, un tipo particolare di bambino è da sempre protagonista delle storie narrate da Spielberg: l’Elliott di ET – L’extraterrestre(ma anche la creatura aliena coprotagonista del film), il Peter Pan di Hook – Capitan uncino e il Jim di L’impero del sole sono accomunati, infatti, dal vivere in una condizione di perdita (momentanea o definitiva) di uno o di entrambi i genitori. Con il piccolo automa-bambino David, Spielberg sembra aver voluto creare un personaggio destinato per sua natura a essere orfano, ovvero a vivere perennemente nel desiderio di essere accettato e, nel suo caso specifico, a essere accettato come un vero e proprio bambino. Il destino paradossale di David, essere meccanico privo di identità organica, è quello di essere stato creato per colmare un bisogno d’amore e di essere destinato a divenire a sua volta una macchina desiderante: tale desiderio (del tutto improprio per una macchina che per natura dovrebbe essere perfetta, sufficiente a se stessa e in se stessa) lo porta ad avere caratteristiche umane, ovvero a crearsi un’identità che, probabilmente, può essere definita al suo stato primordiale come “espressione di un desiderio”. È proprio questo desiderio che spinge David in un percorso di conoscenza di se stesso e, conseguentemente, alla negazione della propria natura seriale. La scena probabilmente più drammatica ed efficace di tutto il film è, infatti, quella in cui David, giunto a New York nel laboratorio del dottor Hobby e trovatosi faccia a faccia con un automa in tutto e per tutto identico a sé lo distrugge proclamando, in tal modo, la propria unicità. David ha vissuto sulla propria pelle le vicende di una vita intera e, soprattutto, sa cosa sia quel sentimento di separazione e perdita delle cose amate che caratterizza ontologicamente l’essere umano. Il mondo che David ha attraversato è pieno di stranezze e contraddizioni che la coerenza del piccolo automa e dei suoi simili (i robot, destinati ad amare nel senso più ampio della parola) contribuiscono a mettere in evidenza. Tanto David quanto Gigolo Joe, sono stati creati per soddisfare desideri femminili (quello della maternità e quello sessuale), ma il loro agire viene sfruttato dagli umani per fini che non nascono dalla razionalità: così come Gigolo Joe diviene strumento della vendetta di un marito geloso (l’uomo fa in modo che il robot venga accusato dell’omicidio della moglie), allo stesso modo David diviene il mezzo della riconquista di Monica da parte di Martin una volta che questi esce dal coma. Lo stesso David, del resto, a dispetto della sua natura meccanica, nasce da un impulso niente affatto razionale: è stato costruito a immagine del figlio prematuramente scomparso del professor Hobby che tenta in questo modo di recuperare quell’affetto perduto attraverso la creazione di una serie infinita di cloni meccanici del proprio bambino concepiti per soddisfare dei sentimenti all’interno di una dinamica che dovrebbe essere univoca ma che, inevitabilmente, è destinata allo scacco. Nonostante AI – Intelligenza artificiale si inserisca all’interno del percorso autoriale spielberghiano come una sorta di chiave di volta che pare chiudere un ciclo poetico ed aprirne un altro, non bisogna dimenticare che la paternità del progetto è di Stanley Kubrick che decise di affidarne la regia a Spielberg tenendo per sé il ruolo di produttore. La morte di Kubrick quando ancora le riprese non erano incominciate e l’esito finale del progetto hanno aperto un dibattito critico, francamente abbastanza sterile, su quanto dell’originale idea kubrickiana sia rimasto nella pellicola diretta da Spielberg. Al di là di qualsiasi considerazione, resta senz’altro un riferimento diretto a un film dello scomparso regista statunitense che toglie ogni dubbio su quanto egli fosse interessato alla questione dell’intelligenza artificiale. In 2001: Odissea nello spazio (1968) era il computer Hal 9000 a provare i primi “sentimenti artificiali” – certo, dei peggiori – nei confronti degli umani che avrebbe dovuto servire: più volte, nel corso del film il computer si comporta come un bambino capriccioso (spia di nascosto i dialoghi dei due scienziati, crea falsi allarmi in una sorta di “al lupo al lupo”) ma, la sequenza più inquietante è quella in cui, sotto la minaccia di essere disattivato, pare regredire a uno stato infantile intonando un paradossale “giro giro tondo”, quasi a voler intenerire uno degli astronauti. Spielberg, dal canto suo, con il David di AI – Intelligenza artificiale crea un modello di bambino che assomma su di sé tutte le paure e i desideri dei suoi coetanei autentici. Paure e desideri che ci vengono restituiti amplificati grazie alla consueta abilità dell’autore di orchestrare il racconto attraverso l’uso di archetipi tratti delle favole (il Pinocchio di Carlo Collodi, certo, ma anche tante altre) che, tra le pieghe delle storie narrate, nascondono sempre profonde assonanze con il percorso esistenziale di qualsiasi bambino. Fabrizio Colamartino  

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