Swing

regia di Tony Gatlif
(Francia/Giappone, 2002)
 
Sinossi
Il dodicenne Max, lasciato dalla madre a casa della nonna a Strasburgo durante l’estate, è affascinato dal chitarrista Miraldo, erede della tradizione gitana manouche. Procuratasi una chitarra da Mandino, un altro gitano, Max prende lezione da Miraldo nella sua roulotte e intanto stringe un’affettuosa amicizia con Swing, figlia di Mandino, una coetanea dall’aspetto mascolino, che lo affascina per la sua indipendenza, il dinamismo e la spigliatezza. Insieme ai suoi due amici e guide, Max entra progressivamente a contatto con una cultura diversa dalla sua, fatta di musiche, ritmo, sensibilità e tanta voglia di divertirsi. L’affettuosa amicizia con Swing diventa ben presto un delicato amore che il ragazzo vive con grande tenerezza. Ma l’atmosfera incantata è destinata a spezzarsi: Miraldo muore improvvisamente lasciando tutti nello sconforto; la madre di Max sopraggiunge a Strasburgo per prelevare il figlio e portarlo con sé in vacanza in Grecia, separandolo da Swing e dall’universo gitano in cui era penetrato. 
 
PRESENTAZIONE CRITICA
 
Introduzione al film
La centralità dell’universo zigano
Tony Gatlif, come sostenuto ripetutamente dalla pubblicistica specializzata, è uno dei pochi registi di sangue gitano (ma algerino di nascita) conosciuto internazionalmente, e i suoi film sono spesso una testimonianza di un mondo sconosciuto ai più, affrontato (di solito) attraverso pregiudizi e luoghi comuni che in questo modo allontanano le possibilità di comprensione di un universo differente. Gatlif immerge le sue storie in una cultura particolare, in qualche modo eccentrica rispetto alle abitudini europee, per originare degli autentici percorsi di formazione per lo spettatore, il quale penetra in atmosfere trasognate, particolari, attraverso personaggi apparentemente bizzarri, singolari, ma sempre dotati di un entusiasmo quasi lunare nei confronti dell’esistenza. Pellicole come Latcho Drom (1993), Gadjo Dilo – Lo straniero pazzo (1997), L’uomo perfetto (1982), Vengo – Demone Flamenco (2000) sono la testimonianza di un viaggio all’interno di un universo zigano caratterizzato da una filosofia di vita particolare che miscela mirabilmente esperienza e musica, dolore e gioia, pensiero e pratica, sfrenata vitalità e inarrivabile indolenza. Swing è l’ennesimo viaggio nella cultura gitana, questa volta Manouche, il ceppo zingaro più antico, giunto in Europa occidentale dall’Oriente tra il XV e il XVI secolo, con i precisi riferimenti musicali che ruotano intorno al mito di Django Reinhardt, virtuoso chitarrista privo di alcune dita della mano, morto per emorragia cerebrale nel 1953 a soli 43 anni. Swing è soprattutto un viaggio musicale che si serve della preziosa interpretazione di veri e propri musicisti come Tchavolo Schmitt nei panni di Miraldo e Mandino Reinhardt nella parte di Mandino, l’antiquario e costruttore di chitarre.
 
Il ruolo del minore e la sua rappresentazione
Musica e sentimento per comprendere un mondo
Gatlif in Swing lascia che i musicisti dispieghino sullo schermo il loro talento in sequenze molto lunghe di autentico virtuosismo chitarristico: una chitarra solista (quella di Tchavolo Schmitt), due chitarre d’accompagnamento e un contrabbasso (la sezione ritmica dell’improvvisata orchestra, dai gitani chiamata “la pompe” manouche), un violino e una fisarmonica si inseguono velocissimi e beffardi, tra dite che volano sulle tastiere degli strumenti e lo sguardo tra il trasognato e l’ammirato di Max, vero pretesto in forma di personaggio affinché lo spettatore penetri all’interno dell’universo descritto da Gatlif. Max, dodicenne biondo con gli occhi azzurri, è il gadjo, il termine che nella cultura gitana indica lo straniero, il non zingaro: già nelle caratteristiche somatiche il ragazzo rappresenta la figura vicaria dello spettatore dentro la storia che il regista racconta (ma più che altro illustra), il suo essere lontano dalle peculiarità d’aspetto dei manouches indica attraverso quale prospettiva il pubblico deve leggere la vicenda. Max è il neofita che si avvicina con grande entusiasmo e curiosità ad una cultura che ammira ma che non conosce se non nelle particolarità più evidenti: il suo sguardo pieno di incanto mentre sente suonare il travolgente Gypsy Jazz di Miraldo in un locale è la chiave di accesso nella cultura manouche, di cui di lì a poco conoscerà i primi rudimenti. Max entrerà così a conoscenza di un universo bizzarro, fatto di musica gioiosa, estremamente comunicativa, libera da ogni convenzione (basta guardare la veloce mano di Miraldo sulle corde per comprenderlo), armonica ed energica al contempo: una musica da conoscere attraverso l’orecchio per permetterle di giungere al cuore, così come lo stesso Miraldo spiega al ragazzo, non da comprendere attraverso la vista, leggendola su uno spartito. Il mondo manouche si pone così sul piano della sensibilità e non su quello del raziocinio, introducendo Max in una dimensione sensibile nella quale dovrà acquisire la necessaria competenza per assaporare i piaceri della comunità. Max si renderà conto a sue spese della fallacità della vista, innamorandosi di Swing, la coetanea figlia di Mandino, scambiata sulle prime per un maschio. 
All’interno di un livello differente da quello cui Max è abituato per nascita e principio di formazione, si delinea una sorta di osmosi grazie alla quale il ragazzo assume caratteri gitani (visti anche attraverso la lente soffusa dell’ironia: come nella scena in cui Mandino scopre che il prezioso vaso di Max con cui ha scambiato una chitarra nuova in realtà è un falso), fa propria la credenza popolare illustratagli da Miraldo attraverso la quale si può sognare volontariamente la persona amata mentre corre in ampi campi verdi, conosce la possibilità della gioia sfrenata sulle ali di una musica incontrollabile che prende anche il corpo, ma avverte anche il dolore improvviso e intenso (quello per la morte di Miraldo, avvenuta fulmineamente mentre dava lezioni di chitarra a Max: una morte che ricalca quella altrettanto fulminea dell’idolo Django Reinhardt) che origina un vuoto smisurato.
Ma Max è solo un gradito ospite, non ha sangue manouche nelle vene, può solo carpire parte di un modo di essere, di un umore che caratterizza un’intera stirpe: gli appunti che prende sul suo diario sulle singole esperienze fatte in compagnia dei gitani sono il punto di vista esterno e razionale di chi non può realizzare un’unione completa ed effettiva. Il diario regalato a Swing nel momento in cui Max è prelevato dalla madre per essere condotto in vacanza in Grecia è più di un regalo di addio: la ragazza non sa leggere e abbandona il quaderno in mezzo alla strada, rifiutando un ricordo che non potrà mai possedere perché dissoltosi nella sua effettiva esistenza. 
 
Riferimenti ad altre pellicole e spunti didattici
Musica indiavolata 
Il connubio tra musica gitana ed infanzia è rinvenibile anche nella pellicola di Emir Kusturica Il tempo dei gitani (1989), storia del giovane Penhan che, dopo un’infanzia grottesca e bizzarra in un campo nomade della ex Jugoslavia, si trasferisce in Italia e comincia a dedicarsi a piccoli reati e a trafficare successivamente in soggetti di varia umanità. La musica, incalzante, pressante, entusiasmante e ossessiva è di Goran Bregovic, musicista che a lungo ha legato il suo nome a quello del celebre regista bosniaco; ma la colonna sonora de Il tempo dei gitani è diversa per tradizione, nascita e formazione da quella di Swing perché originaria dei ritmi balcanici e non vicina al Jazz swingato reso caratteristico da Django Reinhardt. L’impatto della musica nella quotidianità zingara è però simile nelle modalità e nella cultura che illustra e permette di inserire entrambe le pellicole all’interno di un’unità didattica che intenda mostrare i diversi modi di vita della cultura zingara, in modo tale da contribuire ad eliminare tutta una serie di pregiudizi che allignano nella nostra cultura nei confronti delle varie etnie che vivono nel nostro paese.
 
Giampiero Frasca
 

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