di Lukas Moodysson
(USA, 2006)
Sinossi
Lilja ha 16 anni ed è in procinto di lasciare la misera vita che conduce in Russia per raggiungere la madre e il suo compagno negli Stati Uniti come le è stato promesso. Intanto la zia Anna, a cui è stata affidata, la manda a vivere in un appartamento in evidente stato di degrado. Lilja ha due amici. Uno è Volodya, un undicenne che vive praticamente in strada per evitare il padre alcolista. L’altra è Natasha che vorrebbe avviarla verso la prostituzione senza però riuscire nell’intento. Lilja scopre che zia Anna non ha più un rublo e inoltre riceve la comunicazione che la madre ha rinunciato alla patria potestà. Disperata si reca in discoteca e ha un rapporto sessuale con uno sconosciuto. Con i soldi compra un pallone da basket per l’unico amico che le è rimasto: Volodya. Tornata in discoteca Lilja conosce un ragazzo che è gentile con lei, Andrej, di cui si innamora. Andrej le offre la possibilità di andare a vivere con lui in Svezia ma, al momento della partenza, trova un pretesto per restare a terra. Di lì a poco Volodya si suicida. Giunta in Svezia Lilja viene rinchiusa in un appartamento, violentata e poi portata di casa in casa a prostituirsi. La sua unica compagnia è costituita da Volodya che le appare in sogno come un angelo. Dopo un tentativo di fuga che si conclude con un pestaggio ai suoi danni Lilja ritenta dopo essere stata ‘svegliata’ un mattino da Volodya. La porta dell’appartamento è aperta e la ragazza, ormai al colmo dello smarrimento, si getta da un ponte dell’autostrada.
Introduzione al Film
Tutta la filmografia di Lukas Moodysson (fatta eccezione per il documentario Container) è dedicata all’esplorazione dell’universo adolescenziale. Se in Fuking Åmål si descriveva l’outing di due ragazzine gay in una cittadina svedese e in Together-Insieme si rivisitava criticamente lo spirito delle comuni attraverso lo sguardo di un bambino, in Lilja 4-ever la scelta si fa ancor più radicale. Raccontando il degrado di due mondi (la Russia postcomunista e la ricca Scandinavia) continua la sua ricerca sulle contraddizioni delle società (anche di quelle apparentemente più avanzate) mettendo a confronto (che spesso diventa scontro) due sensibilità o due culture. Moodysson si ispira anche per questa sua terza opera alle regole dettate dal Dogma 95 che Lars Von Trier aveva redatto e applicato nel suo cinema. Di conseguenza le concessioni fatte allo spettatore sono minime a partire da una fotografia che restituisce lo squallore dei luoghi ripresi grazie all’uso della piatta luce naturale dei luoghi scelti per l’ambientazione delle vicende. In questo film in particolare il regista ha scritto una sceneggiatura abbastanza didascalica in cui gli sviluppi risultano, soprattutto nella seconda parte, prevedibili. Per questo motivo si è deciso di seguirne la progressione nel paragrafo successivo.
Il ruolo del minore e la sua rappresentazine
Quando l’orrore è quotidiano e ripetuto solo l’evasione nell’immaginazione può renderlo sopportabile.
La condizione in cui vive la protagonista quindicenne è pervasa da una miseria più morale che materiale, un deserto interiore in cui la cura degli oggetti e delle proprie cose è andata perduta tanto quanto quella per i rapporti umani. Lilja vive in un angolo della Russia desolata in cui riesce almeno a frequentare la scuola e a farsi qualche amico. Tra questi Volodya, più piccolo di lei di due anni, instaura con lei una confidenza particolare che fa di quest’amicizia un rapporto privilegiato. Insofferente alle regole e alla mediocrità che vede attorno a sé, Lilja si entusiasma quando la madre le comunica che si trasferiranno negli Stati Uniti, insieme al compagno della madre. La ragazza vede spalancarsi davanti a sé un mondo che finora ha solo potuto sognare e immaginare. Quello che poteva essere per lei una svolta verso prospettive più ampie si trasforma ben presto nell’inizio della fine. Il compagno della madre non vuole tra i piedi la ragazza e la donna non sa opporsi a questa decisione. Per Lilja il viaggio negli States sfuma e con esso tutti i suoi progetti e le sue rivalse. La madre la abbandona a se stessa, consegnandola ad una zia totalmente inaffidabile e cinica. L’animo di Lilja si dibatte tra la rabbia per ciò che la madre ha tramato contro di lei e il bisogno disperato di un affetto, di un punto di riferimento. Un altalenarsi di sentimenti di odio e di bisogno messi in scena quando strappa la foto della madre e poco dopo la ricompone e la incolla. L’ambiente del quartiere dove vive la ragazza è improntato al più cupo cinismo, ad un individualismo primitivo e alla mancanza assoluta di una qualsiasi forma di responsabilità e senso del bene comune. In questo contesto, in cui non c’è quasi distinzione tra adulti e minori perché tutti sono ridotti alla stregua di oggetti, l’unico scopo della giornata è sopravvivere all’indifferenza altrui. I bambini, come spesso accade, hanno una risorsa in più degli adulti: sono ancora capaci di creare legami, meglio, di amicizie che fanno a meno di sentimentalismi e di meschinità, perché vanno dritte allo scopo e a volte si rivelano condizione necessaria per la sopravvivenza. Lilja e Volodya sono punti di riferimento l’uno per l’altra e il rassicurante gioco sotto la tenda dà loro l’impressione di appartenere a qualcuno. Nel frattempo la madre di Lilja fa pervenire ai servizi sociali della città una lettera nella quale rinuncia alla patria potestà sulla figlia, recidendo così l’ultimo legame di speranza che consentiva alla ragazzina di andare avanti. Qualcosa si rompe definitivamente in lei, tanto da farle bruciare le foto della madre. Ora non resta che perdersi, lasciarsi andare, quasi come fosse una vendetta nei confronti di chi l’ha abbandonata. Inizia a prostituirsi in una discoteca della città dove un’amica la introduce all’ambiente. Il suo smarrimento cresce di pari passo al distacco che frappone nel rapporto con i clienti occasionali, divenuti ormai elementi di una serie infernale. Privata della sua casa (la zia nel frattempo l’ha costretta a trasferirsi in una topaia fatiscente e sporca), senza più affetti eccetto il piccolo Volodya, in Lilja si apre una voragine inesorabile, una domanda d’amore difficilmente colmabile. Domanda d’amore che è più prossima alla disperazione che al desiderio e che la porterà a cedere alle lusinghe di un giovane uomo che le si accosta in modo gentile. Quando si sta morendo di fame anche il cibo avvelenato fa gola e obnubila il giudizio: Volodya la mette in guardia da quel tipo di attenzioni , ma quando le lusinghe e le promesse di una vita più ricca e facile cadono sul terreno favorevole della disperazione è difficile resistervi e vedere l’inganno. L’illusione di essere importante e al centro delle attenzioni di qualcuno impedisce, infatti, alla protagonista di accorgersi e di valutare tanti piccoli segnali dell’inganno che si sta macchinando ai suoi danni. E’ un’ingenuità colpevole, quella di Lilja, anche se riesce difficile attribuirle una qualsiasi colpa. Tuttavia ella non è ragazzina ingenua, la vita l’ha resa scaltra: è proprio l’amore come miraggio che offusca la sua capacità di giudizio. Privato dell’unico affetto che lo teneva in vita, Volodya si uccide: l’orrore per il suicidio di un bambino è superato solo dalla colpevole indifferenza della vicina di casa che, trovandolo riverso sul pianerottolo, lo scavalca imprecando. Per Lilja l’arrivo in Svezia segna l’inizio della fine, non c’è traccia dei sogni che luccicavano in patria e gli orrori e i soprusi si susseguono ad un ritmo così incalzante che lo spettatore non riesce a riprendersi. Le scene di violenza (seppure programmata ed organizzata con tanto di motel e lista di clienti) sono scevre di un qualsivoglia accento patetico o melodrammatico e forse per questo ancora più verosimili e crudeli. Si arriva ad un punto in cui allo spettatore riesce quasi impossibile identificarsi con le sofferenze della protagonista perché rientrano nell’inimmaginabile. Nel vortice del girone infernale nel quale la ragazza è precipitata, l’unico barlume di sopravvivenza è affidato alla memoria: memoria della compagnia di Volodya (della cui fine la ragazza non sa nulla), memoria di quel calore umano che il gioco sotto la tenda riusciva a dare ai due ragazzini. Volodya diventa per Lilja l’angelo custode, non più per preservare dal pericolo ma per lenire le ferite ormai indelebili. Il film termina con un maldestro tentativo di fuga della ragazza che finisce per procurarle contusioni e ferite. Ed è così, ormai quasi incapace di reggersi in piedi che Lilya raggiunge il ponte dal quale si lancerà tra le ali del suo angelo custode Volodya. E’ solo allora che può tornare in mente la scritta che Lilya ha inciso sulla panchina di legno vicina a casa: Lilya 4ever. Come spettatori avremmo sperato che quel per sempre non si riferisse all’eternità come unica soluzione immaginabile di salvezza.
Riferimento ad altre pellicole e spunti didattici
Il tema della prostituzione minorile è stato affrontato da numerosi film, alcuni dei quali divenuti opere di riferimento. Ne citiamo solo due, a titolo di esempio. Pretty Baby di Louis Malle il quale nel 1978 porta sullo schermo l’allora tredicenne Brooke Shields ambientando la vicenda negli Anni Dieci del secolo scorso in un bordello di New Orleans e analizzando, con quel tanto di riservatezza mista a provocazione che lo contraddistingueva, l’intrico di innocenza e perversione che attraversa l’esistenza della protagonista nata in una casa chiusa. Rimane poi indimenticabile il personaggio della giovanissima prostituta che incrocia la strada del protagonista border-line di Taxi Driver di Martin Scorsese. Per quanto riguarda lo sfruttamento dei minori anche a fini sessuali nelle società postcomuniste si può fare riferimento a Parada di Marco Pontecorvo che si rivolge a sua volta all’Est dell’Europa (nello specifico la Romania) per raccontare il degrado quotidiano e la possibilità di recupero dei minori nella Romania del dopo Ceausescu. Ci sembra poi interessante fare ricorso, come esempi di una modalità di prevaricazione sul minore costretto a una vita di costante degrado, a La discesa di Aclà a Floristella di Aurelio Grimaldi (bambino in una zolfara della Sicilia Anni Trenta del secolo scorso) e il verghiano Rosso Malpelo di Pasquale Scimeca. Elena Galeotto, Giancarlo Zappoli