Dieci canoe

di Rolf de Heer

(Australia, 2006)

Sinossi

Durante la stagionale battuta di caccia alle oche selvatiche condotta nella palude a bordo di canoe artigianali, l’anziano Minygululu racconta al giovane Dayindi una storia per convincerlo a non importunare la più giovane delle sue tre mogli. La storia, ambientata al tempo degli antenati, narra del giovane Yeeralparil innamorato di Mulandjarra, la moglie più giovane del valoroso guerriero Ridjimiraril. Quest’ultimo viene posseduto da uno spirito maligno a causa della misteriosa scomparsa di Nowalingu, la sua seconda moglie, in occasione della visita al villaggio di uno strano mago. L’intervento dello stregone non riesce a guarire Ridjimiraril che, accecato dall’odio e dal desiderio di vendetta, finisce per uccidere con la sua lancia uno straniero innocente. Ben presto il corpo viene trovato dal fratello della vittima che pretende l’applicazione del rito della vendetta. Ridjimiraril deve quindi sottoporsi senza fuggire ad essere bersagliato dalle lance di tutti i guerrieri della tribù confinante. Colpito all’addome sembra poter sopravvivere, ma le forze lentamente lo abbandonano fino ad una morte rituale e solenne. Eseguiti tutti i riti funerari tocca al fratello minore Yeeralparil prendere in carico le mogli del defunto. La storia si conclude con il ritorno al villaggio dopo la caccia: Dayindi ha capito che solo il destino deciderà del suo futuro.

Introduzione al Film

Al di là dei margini

Dieci canoe è l’ottavo lungometraggio diretto da Rolf de Heer, regista di origini australiane da sempre molto legato alla propria terra. Se si esclude il film Il vecchio che leggeva romanzi d’amore (2000) tratto dall’omonimo romanzo di Luis Sepulveda e ambientato in Amazzonia, tutto il suo cinema si colloca in terra australiana. Non si tratta di un’ambientazione casuale, di una scelta di comodo, quanto di una precisa connotazione spaziale che diventa anche paesaggio psicologico. Le storie dei suoi film raccontano spesso di personaggi “ai margini”, laddove i margini sono rappresentati sia dalla lama sottile tra la normalità e la patologia, sia da quell’indefinibile confine tra civilizzazione e deserto selvaggio. È così per Bad Boy Bubby (1993) in cui un ragazzo segregato e abusato dalla madre tenta una fuga verso l’altrove, La stanza di Cloe(1996) in cui una bambina per reagire ai continui litigi dei genitori si rifugia in un mutismo insondabile, Balla la mia canzone (1998) in cui una ragazza tetraplegica tenta il riscatto ai danni della sua arcigna educatrice, Alexandra’s Project (2003) in cui per vendicarsi del marito la protagonista inscena una complicata macchinazione dai risvolti hard. Film spesso scomodi e volutamente disturbanti tanto da dare spesso adito al sospetto di un certo compiacimento sadico da parte dell’autore o, quantomeno, di una provocazione a scopo pubblicitario. Altro elemento fondante del cinema di de Heer è poi l’incontro con l’altro, con il diverso, con lo straniero che diventa specchio e metafora di uno sguardo introspettivo alla scoperta dei propri lati oscuri. Se nel film d’esordio Incidente al Porto del corvo (1988) è l’arrivo degli alieni a creare un diversivo destinato a far esplodere e poi risolvere i problemi, in The Tracker (2002), attraverso lo stile tipico del genere western, si arriva al ribaltamento dei luoghi comuni su buoni e cattivi, su civilizzazione e culture primitive, per celebrare e restituire dignità al popolo degli aborigeni, i nativi australiani. In Dieci canoe si passa da un’osservazione interessata e partecipata a una vera e propria mimesi, tanto da valere l’etichetta di “primo film aborigeno al 99 per cento”. L’occhio del regista tenta di fondersi totalmente con la cultura che mostra assumendone le sembianze. Tutti gli attori del film sono aborigeni, gli ambienti sono quelli abitati dalla tribù, la storia raccontata fa parte della loro tradizione narrativa e costumi e scenografie, se così si possono definire, rimangono rigidamente filologici. È evidente che si tratta di una rievocazione storico-antropologica visto che la storia è ambientata nel passato e fa riferimento ad un periodo ancora più remoto, ma l’impressione è estremamente realistica, quasi si fosse riusciti a documentare le vita quotidiana di una tribù prima dell’ irreversibile incontro con la “civiltà”. Il passato e il presente della storia sono resi visivamente dall’uso alternato del bianco e nero e del colore ma in modo inverso rispetto alle abitudini del cinema convenzionale: la narrazione avviene in un presente senza colori ma fa riferimento ad un passato molto variopinto, come se la parola avesse il potere di evocare e dipingere, nonostante non vi siano differenze sostanziali tra le due epoche rappresentate. L’importanza della trasmissione orale viene sottolineata, con qualche eccesso didascalico, anche dalla voce narrante che percorre tutto il film e fa da contrappunto ai vari snodi narrativi. Estrema importanza poi è data al paesaggio, all’ambiente naturale e incontaminato all’interno del quale i personaggi si muovono in estrema armonia. La macchina da presa indugia fin troppo spesso in inquadrature che finiscono per avvicinare eccessivamente il film allo stile documentaristico, laddove invece la recitazione spontanea degli attori e l’approccio ironico sarebbero stati sufficienti a catturare l’attenzione dello spettatore.

Il ruolo del minore e la sua rappresentazione

La tribù dei non-sposati

Il film Dieci canoe è una storia nella storia. La “storia contenitore” è quella raccontata dalla voce narrante di Dayindi che ricorda della sua prima battuta di caccia alle anatre selvatiche con suo fratello maggiore Minygululu, il narratore interno, che a sua volta racconta la storia di Yeeralpalril innamorato di una delle mogli di Ridjimiraril. Sia Dayindi che Yeeralparil, interpretati non a caso dallo stesso attore, sono giovani che hanno quasi raggiunto l’età del loro primo matrimonio, siamo infatti all’interno di una cultura che prevede la poligamia, e sono alla ricerca di una collocazione nel mondo degli adulti. Il film rappresenta in maniera chiara la distinzione sociale e culturale tra il mondo dei grandi, definito anche come “tribù degli sposati”, e quello dei piccoli, i non-sposati. La distinzione è sottolineata da una vera e propria divisione urbanistica che prevede due villaggi distinti ma confinanti. Il film, naturalmente più sbilanciato sulla fiction, non approfondisce in maniera chiara questi aspetti ma quello che si deduce è una sorta di autosufficienza del mondo dei minori, una comunità autogestita in cui i più grandi si fanno carico dei più piccoli e il ruolo dei padri e delle madri, se si escludono le fasi di allattamento e svezzamento, è pressoché inesistente e sostituito da quello dei fratelli maggiori. L’orologio biologico, come avviene nel mondo animale, assume dunque un ruolo di centrale importanza nell’evoluzione non solo fisica ma anche sociale degli individui. In altre parole Yeeralparil si accorge di essere pronto al passaggio nel momento in cui si innamora di una donna, ma per compiere davvero il salto deve trovarne una non sposata. Questo è un altro ambito che il film lascia nella più completa oscurità: il villaggio dei non-sposati è abitato solamente da maschi delle diverse età, mentre nel villaggio degli sposati tutte le donne sono mogli; è lecito e logico immaginare un terzo villaggio delle femmine non sposate. In realtà sarà proprio il caso, somma rappresentazione ancora una volta della saggezza della natura, a risolvere la sua ricerca, destinandolo a sostituire il coraggioso ma sfortunato Ridjimiraril dopo la sua morte. La ricerca di Dayindi, come accennato, è per molti versi simile a quella del suo antenato. Anche lui si è innamorato di una donna sposata e non vede via d’uscita da questo vicolo cieco. Se però Yeeralparil era spinto, oltre che dall’istinto, anche dal bisogno di essere accettato nel mondo degli adulti, Dayindi vive una situazione ben diversa. Per la prima volta si è potuto unire agli adulti della tribù nella caccia alle oche selvatiche, e questa partecipazione ha una doppia valenza: da un lato gli adulti lo ritengono pronto per apprendere tutti i segreti della caccia, dalla costruzione delle canoe e dei ricoveri sopra gli alberi alle lunghe attese con la lancia pronta a colpire, e dall’altro in questo modo inizia ad assumersi la responsabilità del sostentamento di tutta la tribù. Per quanto riguarda la scelta di una moglie, come suggerisce il saggio Minygululu, è opportuno lasciare fiduciosamente spazio alla saggezza imperscrutabile del destino.

Riferimento ad altre pellicole e spunti didattici

Per i temi trattati e il linguaggio utilizzato la visione di Dieci canoe è adatta agli studenti delle scuole medie superiori, poiché al di là della semplicità della storia il testo cinematografico ha complesse implicazioni culturali e antropologiche. Il film si presta a un approfondimento sul tema delle identità e differenze tra la nostra cultura di appartenenza e una completamente diversa. Per un maggior approfondimento si consiglia la visione di La storia del cammello che piange (Davaa-Falorni, 2003) che racconta i riti del passaggio generazionale tra una famiglia di allevatori di cammelli in Mongolia e Le ferie di Licu (Moroni, 2007) che descrive il viaggio verso casa di un immigrato dal Bangladesh per la scelta di una moglie. Ludovico Bonora  

E' possibile ricercare i film attraverso il Catalogo, digitando il titolo del film nel campo di ricerca. Le schede catalografiche, oltre alla presentazione critica collegata con link multimediale, contengono il cast&credits e una sinossi. Tutti i film in catalogo possono essere richiesti in prestito alla Biblioteca Innocenti Library - Alfredo Carlo Moro (nel rispetto della normativa vigente).