Hardball

2010/05/07 Type of resource Film cards Topics Childhood Civics Titles Rassegne filmografiche

di Brian Robbins

(USA, 2001)

SINOSSI

Oppresso dai debiti di gioco, Conor O’Neill, ex giocatore di baseball caduto in disgrazia, viene costretto da uno dei suoi creditori ad allenare una squadra di ragazzini di colore di un ghetto nero di Chicago per restituire parte del denaro ricevuto in prestito. Per Conor, che accetta malvolentieri l’incarico, non è facile conquistare la fiducia dei propri giovanissimi allievi, divisi tra la violenza della vita negli slum e l’apprensione dei genitori per la loro incolumità. Ad ostacolare il suo lavoro contribuisce anche Elizabeth, la giovane insegnante della scuola frequentata dalla maggioranza dei piccoli giocatori, che, in cambio del permesso per gli allenamenti, chiede al trainer di contribuire alla didattica aiutando i bambini nei compiti a casa. La squadra di Conor, i Kekambah, è la più scalcinata tra quelle che partecipano al torneo cittadino: i ragazzini, costretti ad allenarsi in un campo polveroso, sono privi delle divise, alcuni dei giocatori non hanno ancora raggiunto l’età per poter partecipare alla competizione e spesso i bulli del quartiere si divertono a spaventare i bambini che rischiano di rimanere coinvolti in risse e sparatorie. Malgrado i debiti, Conor continua a frequentare il mondo degli scommettitori: proprio grazie all’ennesima puntata, il protagonista riesce a vincere una forte somma con cui può liberarsi di tutti i suoi debiti. Conor potrebbe, a questo punto, abbandonare l’incarico e tornare ai propri traffici. Tuttavia, la finale del campionato è vicina e la diffidenza di Elizabeth nei suoi confronti s’è trasformata prima in simpatia e poi in affetto: Conor decide, così, di restare ad allenare i Kekambah, anche perché, dopo la morte di G-Baby, il più giovane dei membri della squadra in seguito a una sparatoria tra gang rivali, ha capito che il baseball è una delle poche alternative valide da offrire ai giovani abitanti del quartiere.

Introduzione al Film

Un film in bilico tra i generi Hardball è un ibrido nel quale confluiscono almeno tre o quattro generi cinematografici diversi che, pur senza sollevarlo al di sopra della media del film di intrattenimento, rendono ardua l’identificazione delle sue caratteristiche ai fini di un’analisi. Questo secondo lungometraggio di Brian Robbins si presenta con i connotati tipici del film edificante tanto da un punto di vista dei contenuti (retorica dei buoni sentimenti, alcuni momenti comici, finale conciliante), quanto da quello dei requisiti formali (linearità della narrazione, situazioni canoniche, personaggi immediatamente riconoscibili). Messe da parte queste caratteristiche, tuttavia, emergono una serie di spunti eterogenei e dissonanti, ascrivibili ad una serie di generi cinematografici che fanno della pellicola qualcosa di completamente diverso da ciò che appare a prima vista: su tutto è evidente un’ambizione realistica da film di impegno sociale, che tenta di puntare l’obiettivo della macchina da presa sulla degradata realtà urbana statunitense per denunciarne la disumanità; non meno importante di questo spunto è, poi, quello del dramma personale di un uomo alla ricerca di una propria dimensione, di un cammino di redenzione e riscatto da un presente sbandato, un tema classico nella mitopoiesi americana del successo; infine la commedia sentimentale, relegata in una posizione di secondo piano ma significativamente presente all’interno di questo abile pastiche con la funzione (assolta solo parte) di legare ulteriormente il protagonista alla realtà sociale del quartiere attraverso la relazione con l’insegnante dei piccoli atleti. Dopo un incipit dai toni cupi, tutto incentrato sulla performance frenetica del protagonista alle prese con le proprie disgrazie personali (un Keanu Reevs che potremmo definire “survoltato”), il film devia ambiguamente la sua corsa sul terreno della pellicola di intrattenimento leggero cui non fa difetto la scioltezza dei dialoghi tra l’allenatore e i giovani atleti e la spettacolarizzazione delle azioni sul campo volte a enfatizzare dapprima la goffaggine dei ragazzini e poi, sempre di più, la loro determinazione a farsi valere malgrado lo scetticismo di quanti li circondano e la superiorità tecnica degli avversari. Su questa scia si muoverebbe anche la parte dedicata al racconto della love-story tra Conor ed Elizabeth, se non fosse per la descrizione (alquanto manierata) della vita difficile nei quartieri popolari a maggioranza nera che, sulle note di una colonna sonora dai ritmi rap e hip hop, conduce a un pre-finale tragico (ma anche superfluo) con la morte del più giovane dei giocatori. Il colpo d’ala conclusivo, con la partita giocata (e naturalmente vinta) in memoria della piccola vittima, risarcisce con un’abbondante dose di retorica un finale tutto sommato abbastanza scontato. Al di là di ogni volontà di classificazione secondo i generi cinematografici, Hardball, è un film che, pur rimanendo miracolosamente in bilico (e in equilibrio), costituisce un esempio (a suo modo mirabile) dell’attuale incapacità da parte del cinema statunitense di individuare un pubblico ben preciso per la propria produzione corrente, di determinare un “orizzonte d’attesa” (la serie di aspettative che lo spettatore legittimamente chiede siano soddisfatte dallo spettacolo) attraverso il quale organizzare tutti gli elementi del film in un insieme armonico e dotato di senso.

Il ruolo del minore e la sua rappresntazione

Quando il gioco si fa duro... i duri scendono in campo Da sempre, nell’immaginario collettivo statunitense l’attività sportiva ha rappresentato qualcosa di completamente diverso dal semplice gesto atletico gratuito, fine a se stesso, legato esclusivamente agli ideali di bellezza, di abilità o di elevazione morale (in quanto conseguenza diretta di una disciplina cui deve sottoporsi l’atleta), concetti, questi ultimi, di derivazione essenzialmente classica. Espressioni come “accettare sportivamente una sconfitta”, oppure “fare qualcosa per sport”, sono quanto mai distanti dalla reale visione che gli americani hanno dell’agonismo in generale e di alcune discipline in particolare come, appunto, il baseball. Quest’ultimo, insieme al pugilato, è stato oggetto di un vero e proprio culto cinematografico, ben più di altre discipline sportive altrettanto popolari negli Stati Uniti (football, basket, hockey), andando a dar corpo nell’immaginario popolare al desiderio e alla speranza di emancipazione dalla povertà, dall’emarginazione sociale, spesso dalla discriminazione razziale. Buona parte del cosiddetto “sogno americano” passa, infatti, attraverso il cosiddetto “diamante”, il campo dalla forma quadrangolare adibito al gioco del baseball, una disciplina le cui complesse regole sono per lo più imperscrutabili per la maggior parte dei non-americani, ma che negli Stati Uniti ha il valore di una metafora pressoché assoluta della vita in quanto combinazione di forza, precisione, velocità, strategia. Ecco perché la parola “hardball” che dà il titolo al film, oltre ad essere un sinonimo di “baseball” (contrapposto a “softball”, termine che indica una disciplina analoga, riservata per lo più alle donne) entra a far parte di un modo di dire – “to play hardball” – che sta per “fare sul serio”, “impegnarsi davvero”. Il baseball, dunque, diviene una sorta di filosofia di vita, una visione pragmatica, concreta, per niente “sportiva” e gratuita delle cose, e se ad esso sono affidati tragitti di redenzione magari improbabili, ciò non deve meravigliare. Ecco dunque garantita all’eroe di Hardball una rivincita nei confronti della vita che, sia pur senza il conseguimento di un vero e proprio successo sportivo, passa attraverso il baseball, vero e proprio strumento di elevazione morale messo in contrapposizione al mondo delle scommesse che ruotano attorno al professionismo e alle sue esasperazioni, anch’esse frutto di una visione tipicamente americana. A questo, certo, contribuiscono i dieci bambini con le loro difficili vicende personali che fanno emergere il volto umano del cinico scommettitore Conor O’Neill; a loro volta, i giovani atleti imparano che sul campo, dietro la metafora del gioco, si nasconde la realtà della vita, con tutte le sue ingiustizie, grandi e piccole, ma anche con la possibilità del riscatto di una vittoria finale. Lo sport, dunque, come alternativa, al degrado personale del singolo, ma anche alla violenza dei ghetti neri: sono tanti i campioni statunitensi che hanno affermato di essere riusciti a sfuggire a un destino segnato dalle proprie origini sfortunate proprio grazie all’attività sportiva, e Hardball non fa che riproporre questo schema fin troppo fedelmente, dato che al termine del film l’unica alternativa alla delinquenza per i giovani di colore sembra essere l’attività sportiva e, forse, sul piano morale il messaggio più forte è ancora quello che potremmo sintetizzare con una metafora sportiva, ovvero il “gioco di squadra”. Di fronte alla violenza cieca che ha colpito il più giovane dei membri della squadra, il gruppo si ritrova unito, più forte e solidale che mai. La partita con vittoria finale, come detto, è più che altro una farcitura retorica superflua che ben poco aggiunge al messaggio di fondo del film o, più probabilmente, la conclusione più coerente per il pubblico d’elezione della pellicola (quello americano) che difficilmente concepisce l’attività sportiva come fine a se stessa.

Riferimenti ad altre pellicole e spunti didattci

Due i riferimenti più immediati ad un film come Hardball: il film del 1976 di Michael Ritchie Che botte se incontri gli “Orsi” nel quale è ancora il personaggio dell’allenatore (un maturo Walter Matthau) a riscattarsi aiutando una squadra di ragazzi poveri e Girlfight di Karyn Kusama (2000) dove un’altro sport molto amato dal cinema, la boxe, è l’occasione di elevazione e rivincita sulle proprie origini etniche e sociali (anche qui siamo in un quartiere povero di una metropoli statunitense) nonché di rivendicazione dei propri diritti di donna all’interno di un universo quasi interamente maschile da parte della protagonista. In quest’ultimo caso, tuttavia, la descrizione dell’ambiente sociale e la credibilità della storia (cui non manca, ovviamente, il lieto fine) sono i reali punti di forza della pellicola. Fabrizio Colamartino    

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