Gli esclusi

di John Cassavetes 

(USA, 1963)

SINOSSI

Un bambino è seduto all’interno di un'autovettura, ferma di fronte ad una grande villa. Una donna chiede al bambino, che si chiama Reuben, di uscire, ma Reuben non obbedisce, un uomo allora si avvicina e mostrando a Reuben un’auto giocattolo lo spinge ad uscire. A quel punto il padre del ragazzo, che era rimasto in disparte, approfitta della situazione e fugge con l’auto, incurante delle grida disperate del bambino che lo chiama. La villa è in realtà un istituto per ragazzi con problemi mentali, gestito dal Dottor Clark. All’istituto è appena arrivata una nuova insegnante di musica, Jean Hansen, che non ha esperienza con bambini con problemi mentali. La donna entra subito nelle simpatie di Reuben, che è in assoluto il ragazzo più problematico della scuola; egli si rifiuta di imparare alcunché, di applicarsi negli esercizi quotidiani, ma sembra essere sensibile all’affetto che Jean prova per lui. Clark non condivide un approccio troppo personale e considera Reuben un fallimento. Jean tenta di stimolare Reuben chiamando la madre e dicendogli che il bambino è malato. Ma la madre, scoperto l’inganno lascia l’istituto. Viene però vista da Reuben che l’ha sempre aspettata e ora grida di dolore perché la vede andare via. Reuben fugge dall’istituto e solo dopo lunghe ricerche viene ritrovato. Jean, sconvolta, dà le dimissioni perché convinta di essere la causa di quanto è successo, ma Clark la convince a rimanere, mostrandole, in una visita in un manicomio, l’importanza di un lavoro apparentemente disperato ma necessario. Jean torna al lavoro e inizia a trattare Reuben come gli altri bambini. Intanto il padre di Reuben vorrebbe un insegnante privato per il figlio, ma il direttore gli ricorda che il dottor Clark crede nel rapporto collettivo e non nell’isolamento. Il padre di Reuben va all’istituto per parlare con il dott. Clark e arrivato lì vede Reuben che partecipa alla recita di fine anno e rimane commosso dai progressi del figlio.

Introduzione al Film

Discorsi incrociati

Gli esclusi è un film particolare; prodotto da Stanley Kramer per la propria casa di produzione, diretto da uno dei registi più indipendenti di Hollywood, e interpretato da due divi mainstream come Burt Lancaster e Judy Garland, il film si mostra come lacerato interiormente. Da una parte è un prodotto controllato, dalla scrittura equilibrata, dalla gestione sapiente dei tempi e della scrittura filmica, dall’altra è un film potenzialmente eccedente, disturbante, soprattutto per ciò che accade ai margini dell’inquadratura e della narrazione. Il film stesso oscilla all’interno della produzione del regista di origine greca: tentativo di normalizzazione narrativa dopo la prova assolutamente indipendente di Ombre (Shadows, USA, 1960) e prima di Volti (Faces, USA, 1968), Gli esclusi è dunque un film dalla forte carica di impegno sociale: incentrare la narrazione su una problematica scomoda come quella dei bambini con problemi mentali è il segno dell’esistenza negli anni Sessanta di una tendenza forte all’interno di Hollywood per un cinema sociale. La funzione didattica del film è certamente rappresentata dalle due figure dei protagonisti: il Dottor Clark rappresenta una linea apparentemente dura ma efficace: solo con il lavoro duro e collettivo è possibile strappare alcuni di questi bambini alla dipendenza più totale, mentre Jean rappresenta un approccio più umano, affettivo e “femminile” (anche se destinato al fallimento). Ma la narrazione, che si sviluppa lungo questa contrapposizione (e intorno alla figura problematica di Reuben), lavora in uno spazio scenico fatto di altri corpi e degli spazi della villa-istituto che contribuiscono a rendere perturbante il film e le sue immagini. Sin dalla prima sequenza, la regia costruisce uno spazio scenico complesso, lavorando sulla profondità di campo e su spazi chiusi da pareti, porte, soffitti, corridoi, in cui i corpi molteplici che abitano l’istituto non hanno possibilità di muoversi se non all’interno di percorsi preordinati. I volti e i corpi dei bambini che abitano l’istituto (in gran parte si tratta di bambini con reali problemi mentali) colmano l’inquadratura, irrigiditi nei loro scranni o di fronte ai loro banchi e, al tempo stesso si muovono di fronte alla macchina da presa compiendo gesti e mostrando espressioni diverse da quelle degli attori professionisti, mostrandosi in quanto tali, senza essere personaggi. Lo spazio composto dell’inquadratura sembra quindi contenere a fatica questi corpi eccedenti, spesso ritratti in primo o primissimo piano e, allo stesso tempo, la regia cerca di contenerli, di “inquadrarli”. Il conflitto tra lo spazio chiuso, compresso dell’istituto e i corpi eccedenti “reali” dei suoi ospiti – nonché tra i gesti attoriali di Lancaster e Garland – costituisce allora il vero movimento interno del film, ciò che lo caratterizza come film particolare e illuminante di un certo codice interno alla rappresentazione hollywoodiana. Gli esclusi è, in questo senso, un film sospeso tra la vocazione didattica di Hollywood e la ricerca di un linguaggio della realtà, che attraversa la generazione hollywoodiana degli anni Cinquanta e Sessanta.

Il ruolo del minore e la sua rappresentazione

Identificazione di un soggetto

Nell’elaborazione del film e del suo soggetto, lo sceneggiatore Abby Mann e John Cassavetes, costruiscono una serie di personaggi che di fatto rappresentano diversi aspetti della malattia mentale infantile (all’interno dei codici della rappresentazione cinematografica). Reuben è ovviamente il personaggio più complesso. La sua funzione è nel film eminentemente narrativa, egli costituisce il “caso” a partire dal quale le due concezione terapeutiche (di Jean e di Clark) possono essere messe a confronto. Reuben è dunque il caso estremo del rifiuto di ogni contatto sociale, non parla, non risponde alle domande, non accetta stimoli o sollecitazioni, semplicemente aspetta. Aspetta sua madre che non verrà mai a prenderlo, aspetta una figura materna (Jean) che possa prendere il posto di sua madre (come durante la lezione di musica, quando prende il posto vicino a Jean e l’abbraccia mentre lei fa lezione). Aspetta che suo padre finalmente abbandoni la sua paura del diverso e accetti di vederlo e di considerarlo. In un certo senso, dunque, Reuben non è un personaggio, né una rappresentazione possibile di un bambino con problemi mentali (in questo caso si tratta di autismo), ma l’oggetto della narrazione, il suo motore (immobile) principale. Paradossalmente è nei piccoli gesti e nelle apparizioni degli altri ragazzi dell’istituto, che il film costruisce la vera rappresentazione dell’altro, di un minore con problemi mentali. Nei loro gesti, nelle loro parole, nei dialoghi con gli attori del film si situano infatti una serie di momenti di verità del film, di abbandono delle convenzioni narrative classiche in cui con spirito quasi documentario, l’altro si rivela, anche solo per una frazione di momento, per una breve inquadratura e sempre all’interno di una sguardo registico che in fondo ne controlla l’eccesso.

Riferimenti ad altre pellicole e spunti didattici

Il cinema moderno ha affrontato spesso il tema dell’handicap psichico e mentale, adattandolo di volta in volta alle esigenze espressive e narrative delle storie raccontate. Il rapporto tra handicap e processo educativo è un tema presente nel cinema, a partire da un film contemporaneo a Gli esclusi, come Anna dei miracoli (The Miracle Worker, USA, 1962) di Arthur Penn, storia del difficile rapporto tra un’educatrice e una ragazza cieca e sordomuta. Sempre degli anni Sessanta è un film capolavoro sul rapporto tra alterità ed educazione: Il ragazzo selvaggio (L’enfant sauvage, Francia, 1969) di François Truffaut, in cui l’ambientazione settecentesca permette di ripercorrere l’origine di un pensiero scientifico sui principi dell’educazione e dei rapporti sociali. L’abisso incolmabile tra la malattia mentale e il consesso sociale è al centro di film radicali come Joey (Joey, Gran Bretagna, 1974) di Brian Gibson, documentario crudo sulla vita di Joey Deacon affetto sin dall’infanzia di una malattia del linguaggio. Anche il cinema italiano ha lavorato sul rapporto tra malattia e rieducazione, sia attraverso una forma di narrativa classica, improntata al registro drammatico – come in Daniele e Maria (1973) di Ennio De Concini – sia mediante la reinterpretazione della teoria psicoanalitica e la messa in scena di casi clinici reali – come in Diario di una schizofrenica (1968) di Nelo Risi. Daniele Dottorini  

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