di Arthur Penn
(USA, 1963)
Sinossi
Annie Sullivan è assunta dai coniugi Keller per rieducare la piccola Helen, cieca e sordomuta dalla nascita. Helen è praticamente incontenibile: non capisce dove si trova, cosa sta facendo, riconosce a malapena la madre e l’inseparabile orsetto di peluche. L’istitutrice Annie, anche lei con un passato difficile alle spalle nel quale ha sofferto di malattie agli occhi e ha perso prematuramente il fratellino, prova invano a educare la ribelle e ‘bestiale’ Helen. Ogni piccolo risultato raggiunto – la piegatura di un tovagliolo, l’uso della forchetta – è vanificato dall’atteggiamento misericordioso della famiglia che tratta la piccola come fosse un animale da appartamento. Annie decide così di adottare una terapia d’urto: la toglie dalla casa materna per due settimane, chiudendosi insieme a lei in un capanno per la caccia. Nei quindici giorni di totale isolamento, Annie prova a insegnare alla piccola il significato delle cose, convinta che solo imparando un alfabeto lei possa comprendere le bellezze del mondo. Tuttavia Helen, al ritorno nella civiltà, ha solo appreso alcune regole d’educazione, senza riuscire ad avere alcun contatto con la realtà. Sarà l’ennesima e violenta separazione dalla madre, e l’ennesima fuga della ragazzina a far scoccare quella scintilla che permetterà a Helen di associare i nomi alle cose.
Presentazione critica
Ispirato a una vicenda che la vera Helen Keller raccontò nel libro autobiografico The Story of My Life, il film deriva in realtà da un dramma televisivo (1957) di William Gibson, diretto da un giovane Arthur Penn, e da una pièce (1959) dello stesso Gibson, messa in scena a Broadway ancora da Penn e interpretata dalle stesse attrici della pellicola, Anne Bancroft, Patty Duke. L’edizione cinematografica del ’62 del duo Penn-Gibson è però quella che è rimasta più impressa nel tempo non tanto per gli oscar vinti da entrambe le attrici del film – miglior attrice protagonista a Anne Bancroft, migliore attrice non protagonista a Patty Duke – quanto per una forza drammatica che il regista è riuscito a dare alla storia sfruttando tutte le peculiarità formali del mezzo cinematografico. Numerosi sono gli espedienti di carattere strettamente filmico che fanno di Anna dei miracoli una delle più riuscite sintesi tra una sceneggiatura di forte impatto e una forma filmica emancipata e multicorde: l’intensità dei bianchi e dei neri attraverso una fotografia che ricorda l’espressionismo tedesco; gli inconsueti posizionamenti della cinepresa; la differenza marcata di stile tra le scene in cui recitano le due protagoniste e quelle corali – dove nelle prime si tende a dare una rappresentazione del reale in continuità e in perenne movimento attraverso il frequente uso del montaggio interno (spostamenti dei personaggi, scale di piani differenti, profondità di campo), dei movimenti di macchina, nonché l’assenza di musica, e nelle seconde si utilizza uno stile piano fatto di campi/controcampi, musica di accompagnamento, prevalenza ai dialoghi; l’approfondimento psicologico dell’istitutrice reso tramite figure di montaggio o di sovrimpressione di immagini (si pensi ai flash back di Annie che non sostituiscono la realtà, ma si mescolano ad essa, con sovrapposizioni di reminiscenze del passato e evidenze del presente, come avviene nella scena del treno o in quella del capanno di caccia). Sul lato contenutistico il film è un inno al principio della vita, all’energia vitale che si trasmette anche alle creature che non hanno gli strumenti per apprenderle, un elogio alla capacità dell’uomo di superare ostacoli e barriere di qualsiasi tipo. Rispetto al successivo e per certi versi simile film di François Truffaut, Il ragazzo selvaggio – in cui un dottore cerca di inserire nella comunità sociale un ragazzino di dodici anni, incapace di parlare e di comprendere, ritrovato in una foresta dove aveva vissuto dall’età di tre anni allo stato selvaggio –, Anna dei miracoli si differenzia per uno spirito più ottimista (Annie ha una convinzione di riuscita molto più ampia e più ‘progressista’ del dottor Itard) e per una meno significativa riflessione sul rapporto tra natura e società. Anna dei miracoli si sofferma non tanto sulle possibilità di convivenza della piccola Helen con la società (Annie non si accontenta, infatti, che la bambina sappia cucire o stare composta a tavola), quanto sulla possibilità generativa del mondo stesso. L’insistere sull’alfabetizzazione della ragazzina non è altro che il soffermarsi sulla forza creatrice che l’uomo ha dato alla parola: nominare e saper nominare significa creare un oggetto, il quale senza un nome è come se non esistesse. Annie cerca così di trasmettere alla ragazza la facoltà di costruirsi l’universo circostante, così come la stessa educatrice aveva fatto a sua volta nell’infanzia. Non a caso, durante il film, si inseriscono molte figure di doppi: tra Helen e l’orsacchiotto (all’inizio del film mette gli occhi al peluche affinché quardi al suo posto), tra Annie e la madre di Helen, tra la ragazzina e l’istitutrice. Solo quest’ultima sovrapposizione creerà le basi per l’apprendimento di un nuovo alfabeto che né la madre vera tanto meno l’orsacchiotto potranno condividere con Helen. Anna dei miracoli è, così, un film che racconta la differenza tra amore e compassione, accusando i genitori, e per traslazione gli adulti tutti, d’incapacità educativa, affrontando temi tutto sommato poco originali (l’handicap, l’educazione, il passato come cartina tornasole del presente) in maniera molto attenta e profonda e sfruttando, infine, tutti gli strumenti cinematografici a disposizione per svolgere la propria funzione pedagogica. Ne sia un esempio la splendida sequenza (di quasi dieci minuti) della camera da pranzo in cui Annie lotta con Helen per farle mangiare un boccone di cibo con la forchetta. Suspense, schizofrenico movimento dei personaggi, assenza di musica e dialoghi, ritmo serratissimo. Un’autentica lezione di cinema. Marco Dalla Gassa