di Mel Gibson
(USA, 1993)
Sinossi
Chuck, un ragazzino con problemi di apprendimento, vive con la madre e le sorellastre nate da altri due matrimoni: vuole entrare all’accademia militare di West Point per sfuggire all’opprimente clima familiare e per emulare suo padre che non ha mai conosciuto. Casualmente fa la conoscenza di McLeod, un ex professore universitario il cui volto è per metà sfigurato da orrende cicatrici e che, per questo, vive isolato dal resto del mondo. Di fronte all’insistenza di Chuck, l’uomo accetta di prepararlo per l’esame di ammissione all’accademia. Quando il ragazzino scopre che il padre è morto in manicomio, corre a rifugiarsi da McLeod: la madre di Chuck, fino a quel momento all’oscuro di tutto, chiama la polizia e intima al figlio di non recarsi più dall’uomo. Riemergono il passato di McLeod (a deturpargli il viso fu un incidente stradale nel quale aveva perso la vita un suo allievo) e vecchie accuse di pedofilia, ovviamente mai provate. L’uomo tenta di discolparsi ma le autorità gli impediranno di rivedere Chuck. Dopo un ultimo drammatico incontro, il ragazzino deciderà di credere a McLeod. Ammesso all’accademia, Chuck si diplomerà brillantemente.
Presentazione critica
La ricerca di una figura paterna da parte di un bambino che ha avuto troppi patrigni (i tanti mariti dai quali la madre ha poi divorziato), ma che non ha mai conosciuto il padre naturale, si conclude davanti all’abitazione di un uomo considerato mostruoso, non solo per le cicatrici che gli sfigurano orrendamente il volto, ma anche e soprattutto per un passato poco chiaro che getta ombre sinistre sulla sua moralità. L’uomo senza volto è un film che riprende un tema caro alla narrativa di ogni tempo: l’incontro tra un essere considerato mostruoso dalla società, ma in realtà buono e gentile, e un bambino che riesce a trovare in lui quei valori di riferimento che la società stessa non sa dargli. Di qui, tutti i topoi del genere: il contrasto tra le sembianze terrificanti e la bontà del “mostro”, la frequentazione segreta da parte del bambino della casa di questi (isolata dal mondo, sorta di rifugio da eremita), gli insegnamenti che il protagonista sa trarre da questa frequentazione, la scoperta da parte della comunità della singolare amicizia e lo scandalo che ne consegue, la rivelazione alla collettività della reale natura del “mostro” e la sua reintegrazione nella società. Tutti questi luoghi comuni vengono rispettati in L’uomo senza volto tranne l’ultimo, e ciò è sicuramente un merito di questo film che propone un’ulteriore versione della favola, aggiornandola alla fine degli anni Sessanta e ambientandola negli Stati Uniti, proprio durante la guerra del Vietnam. Secondo le tante chiacchiere che corrono tra gli abitanti del villaggio, McLeod è, di volta in volta, un pornografo, un comunista, un uxoricida e, naturalmente, un pedofilo. Diverso per eccellenza, McLeod non è “senza volto” ma piuttosto un uomo dai mille volti, colui sul quale è possibile scaricare le paure di gruppo in un momento di drammatica incertezza quale fu quello attraversato dagli Stati Uniti nel 1968. Unico a schierarsi dalla sua parte un ragazzino un po’ fanatico (durante una conversazione afferma di voler partire per il Vietnam e scaricare napalm sui vietcong), che ha idealizzato l’immagine del padre e che cerca di mantenerla viva attraverso l’emulazione. Del resto, né in ambito familiare (composto da sole donne) né tra i compagni della madre, Chuck potrebbe trovare punti di riferimento. Il suo fanatismo, per questo, è una comprensibile reazione all’ambiente pseudo-intellettuale frequentato dalla famiglia: le sue affermazioni da guerrafondaio sono la risposta alla patetica figura del boy-friend della madre, un professore universitario pacifista che liquida le ambizioni del ragazzino giudicandole un’infatuazione giovanile. Chi, dunque, meglio di un uomo di cui si sa poco o niente, e il cui volto è stato letteralmente cancellato, può fungere da schermo proiettivo del suo desiderio? D’altronde, il padre di Chuck e McLeod si somigliano: le loro storie sono diversissime (uno è stato vittima di una malattia nervosa, l’altro di un incidente), ma entrambi sono connotati dal fatto di avere letteralmente due volti, uno sano e uno malato e, a conferma di questa ipotesi, c’è la simultaneità con cui emergono la verità sul padre di Chuck e il passato oscuro di McLeod. Tuttavia, se la funzione esplicita di quest’ultimo è quella di fare da padre e insegnante a Chuck (nel tentativo non secondario di prendersi una rivincita nei confronti della società che lo ha emarginato), l’altra, quella simbolica, è di riuscire a riassumere, grazie alla duplicità del suo volto, le istanze opposte del bene e del male che sembrano contendersi il protagonista. È come se Chuck, segnato più dal passato del padre (magari presente nella memoria a livello inconscio, come ci mostra banalizzando un po’ le cose, il sogno del protagonista in cui un McLeod/padre viene a bussare alla porta di casa chiedendo vendetta) che da un reale deficit intellettivo, abbia bisogno di qualcuno cui poter affidare la parte “mostruosa” di sé in una sorta di rituale apotropaico in cui la metà sfigurata del maestro possa introiettare quella potenzialmente pericolosa dell’allievo. Così come il finale che ci mostra Chuck avviato a una brillante carriera militare (grazie anche al magistero di McLeod che avrà contribuito a smussare il fanatismo che lo contrassegnava inizialmente) è coerente con le premesse, allo stesso modo quest’opera prima del celebre interprete australiano Mel Gibson non contraddice il suo scopo: quello di narrare con pacatezza e onestà una storia di iniziazione alla vita in cui la fanno da padrone i buoni sentimenti, senza tuttavia indugiare troppo sui suoi lati più patetici.
Fabrizio Colamartino
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