Fa' la cosa sbagliata

di Jonathan Levine

A inaugurare la stagione cinematografica dopo le vacanze estive (periodo come sempre, al di là delle promesse, magro di buone distribuzioni) è un film dal titolo illuminante: Fa’ la cosa sbagliata - The Wackness. Scelto dai distributori italiani forse per stabilire una liaison forzata con il film-cult di Spike Lee Fa’ la cosa giusta (Do the Right Thing, Usa, 1989) – ad accomunarli solo l’ambientazione urbana, New York e un periodo storico più o meno simile – l’opera seconda di Jonathan Levine racconta in effetti le vicende di una serie personaggi che, scientemente o meno, compie sempre la scelta sbagliata.

Luke, uno studente all’ultimo anno del liceo, vende droga per raccattare un po’ di soldi e consegnarli alla famiglia piena di debiti, sfidando la propaganda del sindaco Rudy Giuliani e la sua famigerata “tolleranza zero”; il dottor Squires, lo psichiatra che Luke ha deciso di frequentare per sconfiggere la propria depressione, è un uomo che vive nell’ipocrisia, buono solo a dare consigli ai pazienti ma incapace di tenere in piedi il proprio matrimonio, ossessionato dal sesso e da possibili avventure extraconiugali e disposto a farsi pagare le sedute terapeutiche con una “dose” di polvere bianca; Stephanie, figliastra di Squires, una delle ragazze più belle della scuola, noncurante del gelo che si respira in casa, non trova niente di meglio da fare che mettersi insieme a Luke durante le noiose vacanze estive e, alfine, spezzargli il cuore.
A questi tre veri e propri “antieroi” si aggiungano altri personaggi immiserenti: i genitori scialbi e inetti di Luke, la moglie di Squires che non proferisce parola, studenti e giovani della “buona società” di fatto tutti tossicodipendenti, criminali neri che non esitano ad assumere un minorenne bianco per evitare guai con la giustizia.
Raccontato così, Fa’ la cosa sbagliata sembra essere un film tragico e opprimente. In realtà non è così, perché Levine declina questa storia di solitudini e disperazioni in chiave di commedia trasformandola, di fatto, in una sorta di Il tempo delle mele o di Mignon è partita riveduto e corretto al suono dell’hip-hop da strada, della vacuità della upper class newyorchese e del politically incorrect.
Tutto ruota attorno ai sentimenti di un ragazzo alla sua prima storia d’amore e all’idealizzazione dell’altro che ogni infatuazione comporta. Accanto al ragazzo, una “specie” di figura educativa che cerca di guidarlo in questa nuova esperienza e una coetanea che nasconde dietro una bellezza fiorente, modi di fare sicuri e un’apparente spensieratezza, una grande paura della vita e di crescere.
Luke attraversa praticamente tutte le fasi tipiche di una storia d’amore (cinematografica): l’infatuazione a prima vista, i primi timidi approcci (con tutte le paure e i sentimenti di inadeguatezza del caso), il corteggiamento più o meno convinto, il primo bacio, le prime esperienze sessuali (con la classica “prima volta” disastrosa), l’illusione del vero amore, la dichiarazione, il rifiuto e l’allontanamento, il tentativo di riallacciare il rapporto, la scoperta della presenza di un altro e la sofferenza, mista a rabbia e disincanto, propria della fine di ogni relazione.
Niente di nuovo e innovativo dunque né sul piano narrativo né su quello stilistico, ma almeno una capacità di declinare canovacci ormai logorati a causa del loro troppo utilizzo in maniera allegra, irriverente e talvolta surreale.
Merito soprattutto del dottor Squires che riesce a essere il peggiore dei cattivi maestri, inanellando pessime dimostrazioni di maturità (si fa arrestare, ha un’avventura con una coetanea di Luke, aiuta il ragazzo a spacciare), e insieme il migliore degli “amici” grazie a consigli di buon senso e nessun paternalismo (come quando esorta Luke a non cercare la soluzione rapida ai problemi, ma quella più difficile e meno scontata).
È in fin dei conti questo il profilo più ingombrante e insieme interessante del film: quello di presentare le incrinature morali dei suoi personaggi non come conflitti dilanianti ma come innocue incoerenze o come stravaganze che non è poi difficile perdonare (si pensi a quando Stephanie, sorridente, paga la cauzione del patrigno e di Luke, promettendo di non dire nulla alla madre).
E allora scopriamo che anche gli spacciatori si possono sentire looser, che è divertente e liberatorio a cinquant’anni scrivere sui muri e ascoltare hip-hop, che due genitori si possono abbracciare dormendo in uno squallido motel dopo aver perso tutti i loro averi. E questo apparirà spassoso a patto di accettare un relativismo etico che arriva a relativizzare anche se stesso, in una sorta di ingenua e innocua anarchia che tutto pervade e tutto rende ridicolo.
Se invece non si è disposti a sospendere la propria percezione di incredulità o a farsi sedurre – nostalgicamente – da un mondo old style fatto di musicassette e mangianastri, cercapersone, game boy e Nintendo, allora è meglio soprassedere alla visione.
Tutto l’insieme apparirebbe come il più scontato degli stereotipi: l’adolescente maturo, l’adulto infantile, la società indifferente, i ricchi infelici e i poveri felici, la droga innocua, ecc. A quel punto il Fa’ la cosa sbagliata varrebbe anche come commento alla prestazione registica e alla stessa presenza in sala di chi giudica.
Niente paura però: il premio del pubblico all’ultimo Sundance Film Festival ci dice forse che lo spettatore cinematografico è molto meno bacchettone di quanto siamo disposti a credere. Ed è disposto a farsi un paio di risate senza per questo credere, per esempio, che un mix micidiale di antidepressivi e droghe (di cui Squires e Luke si “cibano” in gran quantità nella casa estiva dell’uomo) possa essere digerito dal corpo di una persona come fosse un bicchier d’acqua o poco più.

Marco Dalla Gassa

 

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